| 
        Prima di scrivere di un argomento, lo studio approfonditamente. Sia esso 
        di storia o di filosofia. Nell'intraprendere questa rubrica, "Storie 
        D'Abruzzo", sapevo che volta per volta, mi sarei trovato al cospetto di 
        situazioni eterogenee. 
        Questa volta mi sono occupato di un filosofo, uno di quegli uomini 
        nascosti nelle pieghe della storia, ma che comunque: hanno partecipato 
        ad essa. 
        Per formazione culturale, conosco le venture della Repubblica 
        Partenopea. Indi, ho incrociato: Melchiorre Delfico, Carafa e Mantonè.
         
        Tra gli economisti vissuti a cavallo tra il ‘700 e l'800, dopo il 
        Genovesi ed il Galiani, Delfico ha illuminato molti frammenti della vita 
        della Repubblica Partenopea e del Regno di Napoli. Tanto che ne ebbero a 
        scrivere anche il Gentile ed il Croce. Tra i pochi studiosi che ne 
        ebbero a intuire l'argume. 
        Melchiorre nacque a due passi da Montorio al Vomano, nel 1744, dieci 
        anni dopo la fine della dominazione austriaca nel sonnecchiante Abruzzo. 
        Figlio di una famiglia di buon casato, rimase orfano ben presto, ed 
        insieme ai fratelli, fu mandato ad istruirsi a Napoli. Come si conveniva 
        ai rampolli gentilizi. 
        Il ragazzo mostrò subitaneamente doti non comuni. Infatti, maestri del 
        calibro di Genovesi, si dispongono solo se si è illuminati d'ingegno. 
        E nei tredici anni di studi napoletani, dal 1755 al 1768, il piccolo 
        Delfico, ebbe modo di respirare l'aria riformatrice che spirava in 
        Europa. Un'aria che montò in vento furioso, a ridosso della Rivoluzione 
        Francese. 
        Infatti, la vita di Melchiorre, che morì a novantuno anni, fu parallela 
        ad uno dei periodi più convulsi della storia d'Occidente. Dove nel 
        meridione d'Italia, la monarchia cominciò a vacillare, per lasciar 
        spazio alla repubblica rivoluzionaria, per poi veder tornare i Borbone, 
        e poi ancor Napoleone e ancora i Borbone. 
        Anni drammatici, ove si posero le basi del Risorgimento italiano. Anni 
        in cui il sistema feudale cominciava ad aprire le prime brecce, per 
        lasciar spazio ad istituzioni più evolute. 
        Delfico visse tutto questo, ed ebbe modo d'incidere nel complesso 
        sistema di rinnovamento. Sia da filosofo, che da economista. Ma anche 
        come uomo d'azione, tramite cariche istituzionali. 
        Quindi, se ebbe salva la vita, nei vari ricambi di potere, lo si deve al 
        suo raffinato intelletto. Il suo apporto, infatti, risultava sempre 
        fondamentale e nessuno voleva privarsene. 
        Tornando ai suoi studi, il Genovesi, come maestro di filosofia, non lo 
        aggradò più di tanto, ma gli diede spunti importanti.  
        Erano le idee ispirate dal giusnaturalismo, dal sensismo, dal 
        radicalismo antistorico, da quell'amore per la laicità e per la ragione, 
        che fecero tentennare le alte sfere vaticane. 
        Infatti, Melchiorre, sin dal suo debutto in filosofia, fu subito 
        guardato con diffidenza dai teologi.  
        Da buon illuminista, ma con mitezza, nel suo "Saggio filosofico sul 
        matrimonio", pubblicato nel 1774, parlava dei piaceri di esso, non 
        relegando l'istituzione, in un mero imbuto di doveri. 
        In questo saggio, da me letto in frammenti, ho avuto modo di percepire 
        la straordinarietà di un individuo, che alla fine del settecento, era 
        un vero femminista, che mostrava una sensibilità genuina verso la 
        condizione femminile, che gli faceva onore e merito, in virtù dei due 
        secoli che ci separano.  
        Traducendo in scritto, esaminate questo estratto: "…..A voler parlare 
        ragionevolmente, quello che le donne sono, non è che un effetto di 
        quello che gli uomini sono la causa. Sono essi gli autori delle leggi e 
        delle opinioni, sono essi che hanno in mano il potere e non è che per 
        l'abuso che ne hanno fatto che si hanno comperata la loro infelicità. Se 
        siamo dunque ancora così ingiusti, queruli e declamatori, contro i 
        difetti del bel sesso, perchè non riconosciamo che sono l'effetto dei 
        nostri vizi?" 
        Le parole non hanno bisogno di ulteriori commenti. Vi è 
        un'individuazione del maschilismo che non lascia margini di difesa.  
        E ancora: "Gli uomini, per usare la loro superiorità, si persuadono 
        facilmente che la ragione non possa unirsi alla bellezza, nè le virtù 
        alla debolezza, quindi non mancano di imporre alle donne, sin dalla loro 
        infanzia, inutili e superflui doveri…Non è nelle donne la principale 
        causa dell'infelicità coniugale, ma è nell'abuso del potere o nella 
        mancanza d'educazione." 
        Questi due frammenti, appartengono ad un saggio pubblicato quando 
        Melchiorre aveva trent'anni: è un saggio pieno di dolcezza, una vera ode 
        all'amore coniugale. Ai suoi piaceri. Con una celebrazione della donna, 
        onde proporne un riscatto.  
        Utilizzando il metodo di lettura freudiano, essendo uno studioso della 
        materia, potrei leggere tra le pieghe della sua anima. Ma di tale 
        saggio, mi preme solo segnalare lo stagliarsi della figura del filosofo, 
        che inizia a proliferare pensieri sulla vita. "L'uomo può avere una 
        serie di piaceri, sino alla tomba e tutte le età della vita possono 
        essere riempite di piaceri ad esse convenevoli…l'uomo che ha più 
        vissuto, che ha più sentito, che ha messo un ordine alle sue idee ed ai 
        suoi sentimenti, ha ancora nell'età avanzata un vasto campo donde può 
        avere una messe di utili e sensibili piaceri, e così passare il resto 
        dei suoi giorni, non in una noia divoratrice, in un rimorso che consuma, 
        o nel cercare l'oblio di se stesso, ma in una tranquillità condita di 
        azioni proporzionate alle sue forze." 
        Sbagliano i critici che vogliono "ridurre" il pensiero di Delfico, a 
        mero prodotto delle sue letture e dei suoi maestri. Chi non è un 
        filosofo, non può capire come il pensiero altrui sia a volte estraneo a 
        delle elaborazioni. I critici hanno il limite di voler "incasellare" a 
        tutti i costi, soffrendo il grave handicap di non percepire l'autonomia 
        del singolo.  
        Il Delfico è stato un filosofo, anzi, diciamo un saggio. La lettura di 
        alcune sue opere mi ha ricordato lo stile di Montaigne nello scrivere 
        gli Essai. Solo che Michel de Montaigne era supportato da un'immensa e 
        proverbiale cultura classica, ed intesseva le sue riflessioni sulla 
        vita, di aneddoti e fatti storici. Melchiorre va di suo, ha letto tanto, 
        ma non ricorreva facilmente alla citazione. 
        Credo che il Delfico filosofo meritava e merita migliore attenzione. 
        Ma torniamo alla sua vita, seguendo uno schema di racconto.  
        Prima del saggio sul matrimonio, il giovane Melchiorre ebbe modo di 
        mettersi in luce, nella capitale del regno borbonico, con due libelli di 
        natura economica dove dispensava teorie per uscire dal sistema feudale. 
        Scritti che servirono ad attirare su di lui l'attenzione del Tanucci, 
        ministro plenipotenziario di un re, Ferdinando, rozzo quanto mai, e a 
        cui non interessava che andare a caccia con la sua banda di scanzonati 
        amici.  
        Anche Benedetto Croce, ebbe a riconoscere, nella sua storia sul Regno di 
        Napoli, che le aperture intellettuali, per rompere con il sistema 
        feudale, vennero proposte dal Delfico. 
        In quel tempo il reame era retto da Maria Carolina d'Austria, donna 
        raffinata, con un carattere indomito, andata in sposa su "procura", a 
        quell'uomo sgraziato. Lo aveva conosciuto a Capua, ricevendolo in dono 
        dinastico.  
        Ma il Tanucci, che non era altro che l'incarnazione di Carlo lll, il 
        quale dalla Spagna continuava a governare Napoli, ebbe un'affinità 
        elettiva con quella affascinante donna e ambedue ressero il regno in una 
        fase delicatissima.  
        La rivoluzione era scoppiata in Francia e i napoletani, spinti da una 
        generazione d'intellettuali formidabili, e da due eroine particolari (la 
        Sanfelice e la Pimentel), rovesciarono i Borboni, costretti a scappare a 
        Palermo. Così nacque la Repubblica Partenopea. 
        Ed ecco che, in questo deflagrante contesto, il Delfico compare nella 
        sua elegante dialettica, sia filosofica che economica. Partecipando 
        direttamente all'organizzazione delle istituzioni del nascente stato. 
         
        Forse fu un pò troppo precipitoso nel lasciarsi trascinare dagli 
        eventi, ma Melchiorre aveva a cuore l'organizzazione di uno stato 
        efficiente. E qualunque fosse il mezzo, per perseguire l'equità e la 
        saggezza istituzionale, egli lo "cavalcava" per perseguire le sue idee.
         
        Ecco perchè fu sempre in prima linea nei rovesciamenti di fronte. Non 
        gli interessava il potere e la stella polare del filosofo illuminato, lo 
        guidava nel proporre le sue ricette economiche, giuridiche, 
        istituzionali, in ogni circostanza. Un aspetto che solo un intellettuale 
        di rango può avere e può percepire. 
        Questo dato del suo carattere e del suo ingegno, era acquisito nel ceto 
        intellettuale del regno. E niuno ebbe a chiedere la sua testa in nessuna 
        circostanza.  
        La Repubblica Partenopea ebbe breve durata. I sanfedisti del Cardinale 
        Ruffo di Calabria, riuscirono a piegare i rivoluzionari e vennero i 
        giorni del terrore. Dove ci rimise la vita anche la Sanfelice, che con 
        il suo "Monitore" aveva dettato l'agenda delle riforme del costituendo 
        stato. 
        Delfico fu costretto a fuggire. A scopo precauzionale. E venne accolto 
        dalla Repubblica di San Marino, dove ebbe, poi, a scriverne la storia. 
        La Repubblica sammarinese, lo ricorda tutt'ora con una statua esemplare 
        ed un conio di moneta, oltre ad istituti e associazioni dedicate alla 
        sua memoria. 
        Melchiorre stette lì sino a quando l'esercito napoleonico non fece 
        ingresso in Napoli, rimandando Ferdinando a Palermo.  
        Ecco, quindi, che il Delfico venne reinserito, dai circoli culturali, 
        nella dialettica del confronto, per far ripartire le riforme di uno 
        stato che si professava laico. Ed ecco come si dimostra, che quest'uomo, 
        nella sua lunga vita, incrociava armonicamente: cariche istituzionali, 
        ruolo sociale, studio e ricerca.  
        Alla crescita sul piano del prestigio, si affiancava quella sul piano 
        intellettuale.  
        Nel 1806 venne pubblicato un suo saggio di grande rilevanza, che anche 
        in tale circostanza, molti critici si sono sperticati nel volerlo 
        sminuire, additando la solita litania della mancanza di originalità.
         
        Anche in questo caso siamo davanti ad un abbaglio, anzi, ad una cecità. 
        Il Delfico nei "Pensieri sulla Istoria e sull'incertezza e l'inutilità 
        della medesima", dimostra grande acume. Soprattutto grande libertà 
        intellettuale, tipica di un vero filosofo. La sua capacita dissacratoria 
        è degna di un miglior Paul Louis Courier. La sua irriverenza verso il 
        passato, o meglio, i luoghi comuni del passato, ho avuto modo di 
        percepirla anch'io, in alcune mie scritti. Quell'anelito che monta 
        dentro, quelle catene che si spezzano nell'essere ingabbiato in uno 
        stereotipo. E ciò mi interessò in passato, ma non perchè stimolato da 
        un illuminato, o perchè accarezzato dall'antistoricismo.  
        Nel leggere alcuni pensieri del Delfico nella "Istoria", mi sono sentito 
        confortato e rafforzato nell'identità del mio lavoro di filosofo. Per 
        questo, forse, mi sono affezionato a quest'uomo di due secoli fa. 
        Il Delfico ha avuto il coraggio di considerare 
        molti punti cardine della storia, come superata dagli eventi, e dunque 
        inutile, se non dannosa. Nel mio scritto "Rilettura del termine 
        Borghesia. Una riflessione sulla politica", ho avuto modo di dimostrare 
        come molti classici del pensiero politico, dei cardini delle ideologie, 
        ormai non hanno più senso di esistere, se non per studiare il passato. 
         
        Dopo queste considerazioni personali, che perdonerete, torniamo alla 
        storia che c'interessa. 
        Quando Giuseppe, fratello di Napoleone Bonaparte, venne messo a capo 
        dell'ex regno di Napoli, si preoccupò di riassestare le casse 
        finanziarie. Inoltre, c'era da continuare lo smantellamento del sistema 
        feudale, e di quella casta di baroni, che avevano costituito la più 
        forte resistenza nella vita della Repubblica.  
        Giuseppe chiamò il Delfico, e lo inserì nel Consiglio di Stato. Alta 
        carica di potere ed onorifica. Poi lo nominò due volte ministro degli 
        Interni. E va considerato che tale considerazione, non si deve purtroppo 
        al filosofo Delfico, ma al Delfico economista, autore di studi come:  
        "Memorie sulla libertà del commercio", "Ricerche sul vero carattere 
        della giurisprudenza", "Memorie sul tribunale del Grascia e 
        sull'economie delle province confinanti col regno di Napoli". Studi che 
        misero in luce anche il pragmatismo dell'eclettico teramano.  
        Ma Giuseppe venne chiamato a condurre il Regno di Spagna ed il testimone 
        passò a Gioacchino Murat. E siamo nel 1815. 
        Murat, rispetto a Giuseppe Bonaparte, credeva nell'autonomia del regno 
        che rappresentava. Voleva farne uno stato moderno, dove vedeva la 
        possibilità di imporsi come uomo di stato, al centro dello scacchiere 
        internazionale. Al fondo, aveva l'obiettivo velleitario di unificare 
        l'Italia. Un autonomia che Napoleone mal sopportava, e che era mediata 
        da Carolina, la sorella dell'imperatore, che copriva le spalle al suo 
        ambizioso consorte. 
        Il Delfico partecipò attivamente a questa attività di ammodernamento. 
        Murat gli diede un incarico di notevole valore: l'organizzazione della 
        pubblica istruzione.  
        Murat fu autore di una vasta azione di ammodernamento, con tanti temi 
        cari a Melchiorre, che lo stimolarono molto, in un arco della vita che 
        lo vedeva varcare la soglia dei sessant'anni. 
        Ma Gioacchino, vittima degli eventi e della sua ambizione, tradì anche 
        l'ingombrante cognato e fu costretto a fuggire.  
        Voleva unificare l'Italia e fu il primo ispiratore dei moti carbonari, 
        infatti in una sua rocambolesca avanzata sino a Rimini, suggerì al 
        Mazzini il "Proclama di Rimini". Ma il Delfico, non lo seguì mai, su 
        questi temi arditi. E quando il Metternich riorganizzò l'Europa, e 
        decise di far occupare la sedia del Regno di Napoli, nuovamente ai 
        Borbone, Melchiorre non fece le spese dell'epurazione.  
        D'altronde, Ferdinando, memore della prima disastrosa epurazione, questa 
        volta agì con guanto felpato. Ed il Delfico rimase integrato nella 
        classe dirigente, conservando la carica di Presidente della commissione 
        degli Archivi del Regno.  
        Fu un periodo in cui, il filosofo teramano, smise i vestiti 
        dell'intraprendenza fattuale, per tornare alla riflessione. Di vicende 
        ne erano occorse anche troppe, e s'addiceva il tempo dell'analisi.  
        Lo spirito d'indagatore dell'animo umano riprese il sopravvento nel suo 
        intelletto, e partorì, nel 1818, le "Nuove ricerche sul bello", ove si 
        evince tale fase riflessiva.  
        L'ultimo incarico di prestigio fu la traduzione della costituzione 
        spagnola, onde poi poter redigere quella del reame di Napoli. Ma ormai, 
        la piega degli eventi mostravano una restaurazione di vecchi principi, 
        che al Delfico riformatore, non potevano andare a genio. Preferì 
        ritirarsi.  
        Lui, uomo con l'alto senso dello stato, che aveva servito il meridione, 
        non come mera espressione geografica, ma come un insieme di milioni di 
        persone in cerca di miglior sorte, sentiva la sua causa perduta. E 
        tornò in quel di Teramo. Ove trascorse tra i suoi cari, gli ultimi anni 
        della sua vita.  
        I suoi cari ed i suoi libri. Innumerevoli volumi che fanno parte di una 
        biblioteca poi lasciata in dono ai suoi concittadini.   
        In sede di conclusione 
        L'imbarazzo dei critici, nel dover vagliare la figura del Delfico, è 
        dovuta al suo eclettismo.  
        Per studiarlo occorrerebbe una commissione, con più facoltà 
        d'indagine. Oppure l'impegno di studiosi che accomunano più 
        specializzazione.  
        Non per nulla, Delfico è stato valutato da Gentile e Croce. Spiriti 
        filosofici che conoscevano le vicende storiche e avevano una buona 
        sintesi delle due discipline. 
        L'idea che mi sono fatto, è che un vero studio sul Delfico, non è 
        stato mai tentato. Perchè troppo vasta la sua opera, e qualunque 
        studioso di rango, preferisce concentrarsi su personaggi che hanno 
        mostrato maggiore incidenza. 
        Si sbaglia.  
        Delfico attende ancora che si apra il capitolo del suo lavoro, lungo un 
        secolo. 
        N.A. Ringrazio Massimo De Filippis Delfico, mio amico, che mi ha messo a 
        disposizione il materiale per studiare il suo illustre antenato. Un 
        ringraziamento va anche a Paola Sorge, perchè tramite la raccolta in 
        aforismi, di parte del pensiero delficiano, mi ha accelerato 
        l'apprendimento dei punti focali del suo ingegno.   |