De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Melchiorre Delfico e le favole morali

di Adelmo Marino

In "Aprutium", Organo del Centro Abruzzese di Ricerche Storiche, anno IV, n. 3 / 1986, Edigrafital, S.Atto di Teramo, 1987

 

Qualche anno prima che a Napoli scoppiasse la rivoluzione e nascesse la Repubblica Partenopea, a Teramo, Melchiorre Delfico scrisse un'opera apparentemente meno impegnativa di quelle pubblicate in precedenza, ma, di fatto assai importante sia sul piano del riformismo culturale che su quello della biografia personale.

Si tratta del - Discorso sulle favole Esopiane - che dettò nel corso del 1792 e di cui si conservano due copie presso l'Archivio di Stato di Teramo: una in forma di fascicolo a sé stante di pagine diciotto, di cui diciassette scritte a metà e una totalmente bianca; e l'altra in forma di prefazione ad una raccolta di - Favole Morali - che Alessio Tulli scrisse per l'educazione delle fanciulle teramane. Nel codice del Tulli, il - Discorso - abbraccia le pagine 13-45 ed è scritto con una grafia diversa da quella del fascicolo, in un corsivo semplice, ineguale e un pò macchiato (1).

Tra le due copie non vi sono variazioni, il contenuto è identico e si diversifica solo per la lettera  "Al nobil uomo. Il Signor D. Alessio Tulli. Barone di Faraone - che nelle Favole precede il Discorso e nel fascicolo non si trova. La lettera dedicatoria, che riproduciamo per intero, è assai preziosa, innanzitutto, perché con il - Mio caro cugino ed amico - il Delfico chiarisce i rapporti di parentela con il Tulli e, in secondo luogo, perché egli plaude all'iniziativa pedagogica, la giudica utile, meritevole e degna di riconoscenza,

La morte del Tulli, nato a Teramo il 31 gennaio 1739 da Silvestro Tulli e da Eugenia Michitelli, avvenuta a Borghetto nel 1799, probabilmente ne ostacolò la pubblicazione.

Alessio Tulli, storico e letterato, fu uno dei personaggi dì maggior rilievo del gruppo teramano della fine del Settecento. Negli anni Sessanta aveva, sì, acquistato il feudo di Faraone (Sant'Egidio alla Vibrata) e il titolo di barone, ma, nello stesso tempo partecipava, insieme a Berardo Quartapelle (2), a Gian Francesco Nardi (3) e ad altri ad una intensa attività politica. Nel 1775 fu coinvolto con gli amici in un grave processo per "miscredenza" da cui ne uscì in qualche modo assolto. Nel 1798 dallo Stato Pontificio, dove si era rifugiato, incitò i Francesi ad entrare nel regno di Napoli. Fece parte della prima municipalità teramana nel 1798, ma quando i Francesi andarono via la sua casa fu saccheggiata dalle "masse" inferocite e nel rogo, che ne seguì, andarono distrutti diversi documenti e diverse sue opere ancora manoscritte o in fase di realizzazione. Si salvarono solo le due opere a stampa: il Catalogo degli uomini illustri di Teramo (4), la vita del vescovo G. A. Campano (5), un inno in latino fu raccolto e pubblicato dal Palma (6) nel quinto volume della sua Storia sulla Diocesi e città di Teramo, pochi altri frammenti storici furono in parte editi, all'inizio del Novecento, dal Savini (7).

Quando i Francesi tornarono, una seconda volta, il Tulli tornò alla guida della municipalità teramana. Ai primi di gennaio 1799 perse un figlio, Angelo, che racconta il De Jacobis, fu "crudelmente ucciso dai contadini", in quanto appartenente ad una famiglia avuta in conto di fautrice del sistema repubblicano (8).

Con il Quartapelle e il Nardi, per non parlare di tutto il gruppo che frequentava il Salotto Delfico, si fece sostenitore di riforme radicali nel campo dell'agricoltura e in quello dei rapporti sociali, auspicando lo sviluppo dell'agricoltura e del commercio interno del Regno di Napoli.

Lo spunto alla composizione delle Favole Morali - che il Tulli, appunto, dedicò - Alle nobili donzelle mie contadine -  quasi certamente si deve all'approvazione avvenuta l'8 settembre 1792, di una scuola pubblica "di leggere scrivere e dei principi di Aritmetica e un convitto di educazione pe' i giovani destinati alle arti liberali e alle scienze"(9), promossa e ideata dalla Società Patriottica teramana di cui egli faceva parte. La scuola si reggeva sui fondi del soppresso convento degli Agostiniani, che tante polemiche aveva causato, in città e fuori, tra la curia aprutina e il club della rinascenza teramana.

Gli apologhi che sono in totale quarantotto, tante quante erano le famiglie che governavano la città di Teramo (il quarantottismo) oltre il prologo, tendono a dimostrare la bruttezza dei vizi e degli errori allora dominanti nella società e commessi anche dai preti e dai frati.

"Versi spontane e dì buona fattura li rendono pregevoli, ma - notò C. Campana (1816-1884) sul finire dell'Ottocento - la maggior parte pe' cambiati tempi e costumi riescono inopportuni (e questo è un secondo motivo per cui non vennero pubblicati nemmeno dai suoi amici), chè ora sarebbe strano rimproverare alle nostre amabilissime donne il vizio del giuoco" (10).

Al Delfico, invece, sembrò "opportuno" approfittare dell'occasione per concorrere alla iniziativa del cugino con: "Un discorso preliminare - egli scrisse - dovrebbe quasi esser l'atrio o il peristilio dell'opera medesima; ma io sono andato vagando per le cime della materia, persuaso che per veder con pienezza e distinzione gli oggetti intellettuali, bisogna levarsi all'origine delle cose medesime. Comunque, però sia - concluse  - poiché voi l'avete gradito, il vostro gradimento mi è sicuro garante di quello pubblico".

Il "pubblico", invece, non conobbe mai il Discorso né allora né dopo la morte del Tulli, né ad opera degli eredi di questi, ma neanche ad opera del Delfico. E questo è quello che stupisce maggiormente, considerando la cadenza annuale del Delfico nella pubblicazione delle sue opere e il contenuto stesso dell'opera. Probabilmente quando il Delfico ci ripensò, dopo la fine delle disavventure giudiziarie, il sequestro dei beni famigliari e la prigionia domiciliare, gli sembrò superato o quanto meno inutile fuori dal contesto culturale nel quale era stato ideato e realizzato. Lo pubblichiamo noi oggi, per la prima volta, per i motivi che abbiamo accennato, rispettando fedelmente il testo, che, senza alcuna digressione e con poche note, due per l'esattezza, scorre veloce e si legge piacevolmente. Formalmente il Discorso non presenta al suo interno divisioni in parti, ma dall'andamento è possibile suddividerlo in tre parti: una prima, in cui il Delfico ricostruisce la storia della favola, una seconda, nella quale ne rivendica il carattere intellettualistico e, una terza, nella quale ne sottolinea le capacità riformatrici in quel difficile momento politico.

Nella trascrizione abbiamo operato solo qualche intervento sull'ortografia delle parole, per renderle più adeguate ai giorni nostri, non abbiamo eliminato nulla, abbiamo solo preferito scrivere "pubblico" invece che "publico", e così "fu" al posto di "fù" e "repubblica" al posto di "repubblica".

Il Discorso è un'opera di occasione, scritta senza dubbio per far piacere ad un amico, ma anche un'opera voluta per concorrere all'educazione morale e intellettuale dei suoi concittadini, pertanto non è lontana dai suoi interessi ed è in linea con il riformismo culturale dei suoi amici napoletani e teramani, in particolare, che in quel periodo erano impegnati in un difficile lavoro di verifica e di sintesi dentro e fuori l'Abruzzo. In quello stesso anno a Napoli, ad esempio, l'atriano Troiano Odazi, successore del Genovesi alla cattedra di Economia Politica, inaugurò l'apertura dell'anno accademico 1792-93 con una brillante prolusione, che il Mezucelli pubblicò nel 1890 sulla  "Rivista Abruzzese di Scienze Lettere e Arti" (11), mentre gli amici Michele Torcia e G. M. Galanti si portarono a Teramo: il primo per continuare le sue ricerche di archeologia (12) e il secondo per verificare l'opportunità di procedere ad una ristruttu­razione circoscrizionale dell'Abruzzo secondo la Prammatica XXIV - De Administrazione Universitatum, voluta da Ferdinando IV ed emanata il 23 febbraio 1792 (13). Nel 1791 venne inaugurato a Teramo il Teatro Corradi che in omaggio alla moda del tempo era stato dedicato al  "Genio Patriae, et Civium Hilaritati", riprendendo una iniziativa del secolo precedente, quando nel 1687 i due fratelli chierici Maurizio e Angelo de Fabritiis si impegnarono, pare con non molta fortuna, a far costruire nella città un teatro ove si potessero recitare le commedie e le operette morali per l'educazione della gioventù teramana (14).

Il 1792, purtroppo, fu un anno doloroso per Melchiorre Delfico, poiché gli morì il fratello Gian Filippo, l'autore dell'applaudita "Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo", (15) erano scomparsi gli amici Francesco Cicconi di Morrodoro (16) e Francescantonio Grimaldi, mentre egli stesso era stato accusato di "miscredenza" e di settarismo. Pur in mezzo a tante amarezze e difficoltà il Delfico continuò a lavorare per sé, per la sua provincia e per gli amici: per sé elaborò una nobile "difesa", che inviò al Codronchi (17); per la provincia scrisse una "supplica" per invocare il miglioramento dei collegamenti tra Teramo e Campli (18); per gli amici, incoraggiò V. Comi a concretizzare, nonostante le difficoltà internazionali, l'Europa, come è noto, guardava con preoccupazione alla Francia e alle sorti della Convenzione Nazionale, il progetto editoriale di dotare il regno di Napoli di una rivista europea. Fu così che nel 1792 uscì il primo numero del "Commercio Scientifico dell'Europa col Regno delle due Sicilie" (19).

Il Discorso, che come abbiamo ricordato, trae origine da una motivazione occasionale, non è uno scritto di natura pedagogica, poiché a ben guardare rivela una natura assai polemica e giacobina.

Il Settecento fu il secolo d'oro della favola sia in Italia che in Europa; gli editori facevano a gara nello stampare o ristampare le opere migliori della fabulistica.

"Rigogliosa fioritura - scrive il Toldo - ha nel XVIII secolo e nei primi anni del seguente la favola nostra, ma Proteo multiforme, ora gittasi su le spalle la cocolla fratesca e moralizza dal pulpito, ora scende in piazza e la folla arringa e predica riforme, come i Lanotte, i Richer, gli Aubert, ora invece diventa reazionaria e impreca ai lupi sanculotti; talvolta incede grave, con flemma britannica, ed esce dalla scuola del Gay, del Calton, del Johonson, o sdegnosa del presente riprende il classico pallio e filosofeggia con Socrate" (20).

Sull'esempio di La Fontaine i favolisti italiani scrissero apologhi esopiani per l'insegnamento dei fanciulli. Alcune favole furono scritte in versi e quelle scritte in prosa furono trasformate in poesia (Crescimbeni); mentre alcune favole fecero la satira alla nobiltà, alla ricchezza e alla moda stravagante, altre divertirono prendendo di mira le manie piccole e grandi degli uomini.

Nel periodo in cui il Delfico si occupò del problema, in Italia andavano di moda le favole di Tommaso Crudeli (1703-1745), che parlavano della rarità dell'amicizia, del carattere, dell'adulazione dei cortigiani, delle cose ridicole della società italiana; e di Lorenzo Pignotti (1739-1812) che, sia pure attraverso le reminiscenze pariniane, punzecchiavano con vivacità le "preziose", i  "belli spiriti", le donne vezzose e i frolli cicisbei. Il Tulli quasi certamente fece riferimento a questi, ma anche al sacerdote Giuseppe Manzoni (1742-1811), al milanese Gaetano Pèrego (1746-1814), che V. Cuoco lodò in articolo apparso sul "Giornale Italiano" del 14 gennaio 1805, e a Aurelio Bertola (1753-1798), che con le sue favole intendeva "servire alla sua nazione e al suo secolo".

Nella dedica "Alle Nobili donzelle", che riproduciamo e pubblichiamo per la prima volta, il Tulli si muove entro lo stesso quadro e con gli stessi obiettivi del Delfico.

"Offrendo a voi questo primo saggio de' miei Apologi o Favole Morali, potete ben immaginare, che niun particolare motivo di personale interesse mi ha potuto a ciò determinare, ma quel natural sentimento di affezione e di stima per la metà della specie, nella quale il Creatore ci volle dare l'idea della bellezza ed il più puro e perfetto sentimento del piacere.

Avendo quindi riconosciuto che nella vostra età più tenera le operazioni dell'immaginazione anticipano quelle della ragione, ho creduto che la prima possa servir di strada all'altra, e insinuar così nelle giovani anime quei sentimenti e quei giudizi, i quali altrimenti nella vita non si acquistano, che alle spese della propria esperienza, de' pericoli, e spesso de' più forti dispiaceri. Una provvista di verità morali vale allo spirito ed al cuore quanto alle macchine una provvista di materiali di sussistenza, per cui non ci troveremo nelle spiacevoli circostanze di cercar rimedi per i mali che si potevano prevenire, né di andar accattando con­sigli al momento, nel quale se ne prova il bisogno. Ho considerato similmente che siccome ogni coltura dello spirito contribuisce direttamente alla bellezza, da cui nasce la vera amabilità, è più l'effetto della Fisonomia, del carattere, e dei sentimenti abituali, che di quella regolarità disegno, ed armonia di parti, e di colorito, che costituisce la bellezza ideale della quale tanto pochi esemplari ci fornisce l'avara Natura. E poiché le donne per sentimento amano il pregio della bellezza, e per riflessione la virtù, ameranno anche più questa, quando la stimeranno un mezzo adatto ad accrescere quella ed abbellir il volto coi bei colori del Cuore. Sono quindi esse portate a credere che l'essere stata in altri tempi questa nostra Patria celebrata per la bellezza delle sue Donzelle da altro non potè prevenire, che dall'aver riunite alle naturali qualità quelle che solo può dare l'educazione perfezionatrice dell'umana natura. Ed a mostrarvi che la sola riunione della bellezza dell'animo e del corpo è quella che può effettiva­mente eccitare le belle e grandi passioni produttrici di effetti corrispondenti, senz'andar ricercando le Storie straniere, posso ben addurvi l'esempio di una nobile Fanciulla nostra Concittadina pel di cui amore un Valentuomo del XV secolo compose un'opera, che rendè illustre il di lui nome, com'esso illustrò in quel Libro la di lui Diva. Fu quella Lucrezia De Lellij, Nipote di quel famoso Teodoro della stessa famiglia Vescovo di Trevigi, e quegli Francesco Colonna Veneziano, che sotto il nome di Polifilo, cioè di amante di Polia, pubblicò l'opera intitolata Ipnerotomachia, dove celebrando le bellezze ed i pregi della sua dama, mostrò singolari talenti, e contribuì non poco al rinascimento delle belle arti, e specialmente dell'architettura. Se dunque le generazioni passate ebbero una ragionevole celebrità, ed il Clima, l'indole del suolo, le qualità dell'atmosfera non sono punto cangiate, è ben giusta la mia speranza che dobbiate reintegrarvi ai primi onori, e render più felici le generazioni che succederanno; poiché qualunque sia l'illegitma, ed ingiusta dipendenza, in cui le leggi e gli Uomini han posto il bel sesso, sarà sempre vero che essi saranno quali voi vorrete che sieno, cioè buoni, se il vostro impero non sarà solo sostenuto dalle armi della giovanile vaghezza, ma guidato dal vero amore, che come dalle Grazie, così dev'esser sempre accompagnato dalla ragione e dalla virtù. Ecco i miei voti, che coll'opera vi prego di accettare".

In un'opera tra la favola e l'opera buffa si era cimentato perfino l'economista chietino Ferdinando Galiani, di cui quest'anno ricorre il bicentenario della morte (1728-1787), con il Socrate immaginario, musicata dal Paisiello. Il concittadino Biagio Michitelli (1759-1833), giureconsulto e filosofo, amico personale del Delfico, ma anche del Tulli, fu scrittore e traduttore di favole e novelle.

"Conoscendo a perfezione l'inglese - scrive C. Campana - voltò dall'originale in italiano Re Leer, tragedia di Shakespeare, e serbò sì nitidi e veri i concetti dell'immortale tragico, che maggiore fedeltà non trovai nella traduzione in prosa del Rusconi.

La peste degli animali, apologo in versi imitato da La Fontaine, una novella, squarci dei poemetti di Pope, il viaggio sentimentale di Sterne furono altre traduzioni fatte dall'inglese. Ed il viaggio a Zuncoli di uno scolaro di Sterne in quindici lettere, fu scritto da lui ad imitazione di quello del sommo britanno. Dal tedesco voltò nel nostro idioma diversi pezzi poetici di Schiller ed il dialogo d'Ippocrate in Abdera di Wieland. Lasciava pure una novella col titolo di Braccanali, ed una farsa intitolata Arpagone, ed una quantità di prose e poesie"(21).

Lo spirito di satira lieve - come è noto - influenzò lo stesso Goethe ne "La Volpe Reineke", scritto nel 1799 e proprio in Germania in quel periodo la favola toccò il massimo della diffusione dopo gli studi di G. E. Lessing, che tra l'altro fu l'ultimo grande favolista della tradizione esopiana. Oltre alla Germania e alla Francia, che costituirono i poli di maggiore diffusione, l'Inghilterra ebbe grandi favolisti, tra cui J. Gay, le cui Fables (1727-1738) trovarono ampia eco anche in Italia. Tutti questi autori erano noti al Delfico e in gran parte presenti nella sua biblioteca privata.

Nel quadro di questa rinascita europea della favola e in pieno razionalismo illuministico, il Delfico rivendicò il valore pedagogico degli apologhi, ma nello stesso tempo mise in guardia i lettori dall'uso improprio e strumentale che spesso ne faceva il potere politico. Dopo aver indicato nell'Europa orientale la zona di maggior diffusione della favola e aver individuato nella Bibbia le prime tracce, soprattutto, nel libro dì Giobbe e nella storia di Sansone, esortò a considerare che quanto giovò una volta all'umanità, poteva tornare utile alle popolazioni per accelerare i processi di trasformazione e di sviluppo. Egli spiega, infatti, che i Profeti, come tutti coloro che dovettero parlare al popolo ed ai tiranni, trovarono gli apologhi giovevolissimi per raggiungere gli scopi voluti. Prendendo lo spunto da questa considerazione, il Delfico sottolinea l'utilità delle favole morali pur essendo consapevole della difficoltà, come aveva scritto il Tulli, di inventarne delle nuove e massimamente rispondenti alle finalità che si intendevano raggiungere.

Questo è in sintesi il contenuto del Discorso, che il Delfico doveva avere in mente già da qualche tempo, in quanto se ne possono individuare tracce concrete in una lettera al fratello dove spiegando la metodologia usata nella composizione delle "Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana" (1791), disse:

"L'apologo vuolsi inventato per rivendicare i dritti della morale e della giustizia, dov'erano condannati al silenzio. Così dev'essere conside­rata la mia opera: la giurisprudenza romana vista in senso proprio e vista in allegoria. Ho dovuto fortificarmi nel senso proprio per sostenere il soggetto e dal filo dell'errore tirare lateralmente delle verità. Non poteva calcarle con la forza di raziocinii, l'ho fatto qualche volta con la forza dell'espressione. Se io fossi capace di timore, dovrei averne; ma chi ha timore non scrive pel bene pubblico come io ho fatto fino ad ora [...]. Avrei voluto moltiplicare le prove, le ragioni su molti articoli, ma ho avuto sempre in odio i libri pesanti, e l'erudizione che avrei potuto prodigarvi non era l'oggetto ch'io voleva rilevare. L'articolo dei cultori della giuri­sprudenza l'ho lasciato mozzo per molti riflessi e specialmente perché la declamazione è comune contro di essi..." (22).

In un passo de "La Delficina o sia Raccolta di pensieri di Melchiorre Delfico sopra svariati argomenti" pubblicata nel 1841 leggiamo:

"Nella storia della filosofia morale si troverà presso tutte le nazioni che la prima maniera di scrivere e di insegnare fu per via di favole, come quelle di Esopo, di Fedro, di Saadi, e le parole di Salomone. Perché questo? Ardisco rispondere che le favole morali siano state come i geroglifici della morale essa stessa" (23).

Nelle riflessioni relative all'amministrazione della giustizia, però, soggiunse: "è senza fallo da compiangere quel popolo, la cui volgare sapienza si manifesta in proverbi o apoftegmi contrari alla morale, ingiuriose alle leggi ed ai governi, ed in se stessi abjetti e vili; imperocché questo indica uno stato di abituale corruzione, assai peggiore forse dello stato selvaggio e della stessa anarchia" (24).

Cronologicamente, quindi, il Discorso si colloca subito dopo la pubblicazione delle "Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana (1791)" e prima della "Lettera a S.E. il Sig. Duca di Cantalupo Intendente generale de' reali Stati Allodiali (1795)" e più in generale si situa tra la fine della monarchia in Francia e l'inizio delle guerre napoleoniche, che tanti problemi causò allo stesso Delfico nella sua qualità di Assessore Militare della Provincia di Teramo per l'arruolamento dei soldati.

Nel corso del 1792 il re di Napoli Ferdinando IV, temendo il peggio, nonostante le dimostrazioni di sicurezza, ordinò la leva generale di tutti gli uomini atti alle armi, sollecitando tutti i Presidi delle Province a promuovere le offerte più utili al mantenimento del costituendo nuovo esercito. Per la provincia de L'Aquila il governo scelse come responsabile il marchese Lelio Rivera (25) mentre per Teramo se ne fecero banditori Gio. Filippo Delfico e Domenico Cosmi, Ufficiale della Segreteria di Stato, mentre per l'organizzazione di un corpo di volontari la città scelse Giovan Berardino e Melchiorre Delfico (26) al primo de' quali - racconta il Palma, - ad operazione conclusa  "fu inviata, indi a non molto, la croce di Commendatore, ed all'altro quella di Cavaliere dell'Ordine Costan­tiniano, per aver entrambi spiegato tutto lo zelo in servigio del Sovrano. I Volontari dell'intera provincia venivano esercitati alle armi in Teramo. Ed ecco le prime spese straordinarie della città per l'accomodo e la tenuta dei quartieri ne' conventi di S. Domenico, di S. Francesco, S. Agostino, S. Maria delle Grazie, del Carmine e fin del Seminario, e per quant'altro faceva andare a carico delle Comuni la presenza della truppa. Ecco altresì la prima ferita al pubblico costume, poiché tanti giovanotti, i quali ave­vano abbandonato o lo studio o i mestieri, o la zappa, trovandosi ben pagati, ben pasciuti e corrotti da cattivi esempii, ricomparivano ne' loro Paesi (e molto spesso per le speculazioni pecuniarie di qualche uffiziale) assai diversi da quelli che n'erano partiti" (27).

Per l'arruolamento delle reclute il "Parlamento Generale" di Teramo si interessò a più riprese: il 7 ottobre 1794 per i criteri di scelta; l'8 ottobre 1794, per la scelta dei 32 cittadini (i parroci furono invitati a presentare lo "Stato delle anime" delle Parrocchie, non esistendo l'anagrafe comunale, da cui furono ricavati il numero degli abitanti e l'elenco delle famiglie numerose) e per sottoporre i prescelti a visita di idoneità; il 9 dicembre 1794 per deliberare il rimpiazzo di tre soldati che avevano fornito un "cavallo montato" usufruendo del diritto dell'esonero; il 29 dicembre 1794 per il giuramento delle reclute; il 5 gennaio 1795 per deliberare le spese di viaggio delle reclute da inviare a Napoli per l'addestramento (28).

Nel 1796 il Delfico si portò a Sulmona per fare omaggio al re Ferdinando IV di gran parte degli argenti della città di Teramo.

Tutte queste preoccupazioni: personali e militari, sociali e culturali, nazionali ed estere, non traspaiono minimamente nel Discorso che è tutto teso a sgombrare l'animo del popolo dai condizionamenti politici palesi ed occulti, grossolani e raffinati, quest'ultimi soggetti ad essere meno rilevabili.

Il bisogno di comunicazione - argomenta il Delfico - fece sì che nascessero gli apologhi e che col tempo questi crescessero e si moltiplicassero, tramandandosi di generazione in generazione e ciò a prescindere dall'esistenza o meno di un unico centro d'irradiazione. Lungo il cam­mino, però, gli apologhi, come le favole, incontrarono dei cultori inte­ressati negli ambiziosi e nei potenti, i quali, per dimostrare di essere potenti anche nell'ingegno li trasformarono in giochi di società e facendo prevalere l'aspetto ludico su quello pedagogico, commisero un grave errore storico, ignorando che le favole rappresentano "la morale dell'infanzia dell'umanità" e che esse furono utili per l'educazione dei fanciulli e per la trasmissione delle abilità tecniche ed espressive. L'uomo, infatti, spiega il Delfico, non ha ricevuto dalla natura che le disposizioni necessarie per crescere "chiunque non abbia perciò al favor dell'educazione potuto acquistare tali qualità al grado di potersene far un uso proporzio­nato ai bisogni, si troverà ancora presso a poco nelle epoche primitive". Le favole, pertanto, nacquero per necessità, come primo mezzo per far ragionare gli spiriti non esercitati al raziocinio, poiché mancavano di idee astratte, e non per il gusto delle finzioni o per un ignoto desiderio allegorico. Quando esse diventarono preda e trastullo del dispotismo monarchico e degli uomini delle corti entrarono in crisi e non produssero più gli effetti positivi per cui erano sorte, "giacché il dispotismo tanto più è tale quante più facoltà si combinano nel punto centrale delle sue forze". Analogamente, spiega il Delfico, l'aristocrazia, considerando la sapienza un fatto di propria competenza, escluse dalla cultura gran parte della umanità giudicandola incapace di progredire per concetti astratti. Allora la filosofia con i suoi metodi e il dispotismo con le sue ritorte articolazioni incatenarono lo spirito dell'uomo semplice e  "l'immaginazione divenne sterile fra le secche formule dei sillogismi, e lo spirito restò inviluppato ed oppresso alle minacce del tiranno, ed ai terrori della superstizione".

Pertanto le favole, che erano sorte nel seno dell'umanità come mezzo di comunicazione e di crescita morale, si trasformarono in catene e in strumenti di oppressione dei popoli.

Questo attacco violento contro il dispotismo monarchico fa nascere il sospetto che il Delfico parlò delle favole non tanto per far piacere a un amico quanto per concludere anche cronologicamente un discorso politico già avviato nell'ambito delle "Riflessioni su la vendita de' feudi (1790)" e proseguito nelle "Ricerche sul vero carattere della giurispru­denza romana e dei suoi cultori (1791)".

Nel primo scritto, infatti, per convincere il sovrano a liquidare i feudi si era scagliato contro la feudalità; nel secondo, per spingerlo a una riforma del sistema giudiziario aveva rivelato le bassezze e la cor­ruzione esistenti nell'ambito della magistratura, affermando che i giudici e gli avvocati col tempo erano diventati "i continui nemici della legge, mentre la reclamavano in loro favore, e de' magistrati medesimi che cercavano corrompere o indurre in errore. In quanto poi allo Stato, i forensi non sono in alcuno dei rapporti utili e necessari alla sussistenza del medesimo e discontinuano anzi le relazioni civili, impegnando l'attività loro o invano o in pubblico danno; per cui la società non può considerarli, che come contrari al suo benessere ed alla sua prosperità.

Dalla continuazione del mestiere, il quale nasce come abbiamo veduto dalle cattive leggi, questi professori vanno ad acquistare un carattere morale perverso, ed un carattere intellettuale incerto e falso; poiché col continuo disputare indifferentemente pel giusto o per l'ingiusto, queste idee diventano indifferenti; e si perdono nell'animo e nel cuore i principi, che la natura vi ha fondati, e che le leggi e l'educazione devono migliorare e rischiarare" (29).

Contro i feudi e il mondo della feudalità si era espresso in maniera ancora più severa, osservando, innanzitutto, che "le leggi feudali", non solo, stabiliscono, ma "differenziano le condizioni degli uomini, ed autorizzano l'ingiustizia e l'oppressione", in secondo luogo, annotò: "Molti si fanno un pregio di ripetere con Montesquieu, che la Virtù non è il principio delle Monarchie, ma l'onore: e che quindi la corruzione è un male in questi stati, e che è una miserabile fantasia il pretendere d'apportarci riparo". Io - conclude il Delfico – "non rispondo, ma domando loro, se l'onore può coesistere con i vizi e con la bassezza d'animo, colla miseria degradante. Sia che si vuole di quei principj male immaginati e peggio intesi, sarà sempre vero, che l'onestà, la probità, la moderazione saranno principj necessari al benessere delle Nazioni, e che dove vi è l'abuso illegittimo di un cittadino sull'altro, dove vi è una doppia legislazione, dove il Sovrano ha perduto una parte del potere, quei principj non vi possono allignare" (30).

Giacinto Pannella, che, insieme a Luigi Savorini, all'inizio del Novecento raccolse in quattro volumi le opere più importanti del Delfico, nella nota che aggiunse alla edizione della "Giurisprudenza Romana", commentò: "fu audace nell'assalire di fronte due rocche, quella della vecchia aristocrazia medievale e l'altra della giurisprudenza, ed affrontò, con le - Riflessioni sulla vendita dei feudi - 1789 - e le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana - 1791 - l'ira feudale e quella forense" (31).

Il biografo G. De Filippis-Delfico nel 1836 aveva espresso un giudizio analogo, dicendo: "Al passo dato contro la feudalità, ardimentoso certo per quei tempi, in cui volevasi far credere l'aristocrazia il sostegno de' troni, tenne egli dietro con altra non minore arditezza di pubblicare il suo libro sulla Giurisprudenza romana, che non poteva mancare di suscitargli contro una classe non men potente allora in Napoli del baronaggio. Però la rabbia baronale e la forenze - commentò - furono affatto impotenti, a quel ch'egli diceva" (32).

I ripetuti accenni al dispotismo monarchico e alle chiusure culturali dell'aristocrazia sembrano destinati a mettere sull'avviso i popoli dall'apparente bonomia dei sovrani illuminati. Le "teste coronate" e gli uomini delle corti, spiega il Delfico, dimenticando l'origine, la serietà e il valore cognitivo delle favole se ne sono impadronite e le riflettono contorte sulla società per conservare i sudditi nell'ignoranza e nella superstizione. Tanto ciò è vero - aggiunge d'accordo con Fedro - che spesso i popoli per dire delle verità contro e a dispetto dei tiranni utilizzano proprio le favole.

"Non sarebbe codesto un picciol merito - commentò -  poiché tanto è meritorio il dire le verità morali agli uomini, quanto più ne hanno bisogno, e ne hanno maggior bisogno, quanto più la verità ha più possenti nemici".

Contro i tiranni in turbante o in diadema anche le "ariette di teatro sono utili e quanto più le immagini sono precise, tanto più facile ne risulterà l'applicazione e così - scrive sempre nel Discorso - il mulo che non fugge all'avvicinarsi dei ladri indica l'indifferenza per li cattivi governi".

Tutto il Discorso è quindi decisamente mirato al perfezionamento della  "sensibilità sociale" e alla ricerca della felicità pur essendo l'Autore cosciente che non tutte le favole producono gli stessi effetti e non tutte sono utili allo stesso modo.

Probabilmente l'occasionalità dell'intervento e la fretta, pur in un quadro di grande adesione personale e intellettuale, non consentirono al Delfico di definire e articolare meglio il Discorso né sul piano poli­tico né su quello epistemologico. Egli, infatti, non vede, come del resto la maggior parte degli scrittori politici del secolo XVIII, una grande differenza tra la tirannia e il dispotismo Gli era sufficiente dimostrare che entrambe ostacolavano la ricerca della felicità.

"La tirannia, secondo il pensiero antico, preteoretico, era - scrive T. Serra - la forma di governo in cui il legislatore si era riservato il diritto di azione e aveva bandito i cittadini dal dominio pubblico, isolandoli nell'intimità della casa e dove si pensava attendessero ai loro interessi privati. La tirannia, in altre parole, privava della felicità pubblica e della libertà pubblica, senza necessariamente interferire nel perseguimento degli intereressi personali e nel godimento dei diritti privati. Secondo la teoria tradizionale, la tirannia era la forma di governo in cui il legislatore legiferava secondo il suo volere e nel suo personale interesse, offendendo così il benessere privato e le libertà personali dei suoi sudditi. Il diciottesimo secolo, nel parlare di tirannia e di dispotismo, non faceva distinzione tra le due possibilità e comprese l'acutezza della distinzione tra privato e pubblico, tra un non ostacolato perseguimento dei propri interessi privati e il godimento della libertà pubblica o della pubblica felicità solo quando, nel corso delle rivoluzioni, questi due principi vennero in conflitto fra di loro" (33).

La tirannia come il dispotismo si incardina nel Delfico in quella forma di governo in cui il legislatore opera secondo una sua particolare volontà e nell'esclusivo interesse personale, offendendo in tal modo tutti gli altri componenti il consorzio sociale.

Una certa ambiguità, inoltre, si nota nell'uso del termine aristocrazia il cui potere, secondo il Delfico, è basato sul valore delle genealogie familiari e sul rispetto puntuale della prassi, L'aristocrazia costituiva un corpo a parte fra il sovrano e la Nazione inutile in quanto "o è una parte della Nazione o no; ma essere e non essere nel tempo stesso, essere per un rapporto e non essere per un altro è contraddizione. Non potendosi fondare l'assertiva su ragione, si ricorre alla Storia: ma che dice mai questa maestra - si chiede il Delfico? - Che gli strangolatori furono di quella classe? I primi aristocratici non potevano essere nobili, nel senso comune che si dà a tal parola. Qual è lo stato attuale? Chi si oppone ai progressi della ragione? Chi al miglioramento delle leggi? Chi agli avanzamenti della civilizzazione? Chi all'integrità della giustizia? Chiunque ha interesse a conservare l'ignoranza e l'errore e il possesso" (34).

Nell'agire pratico il Delfico accomuna l'Aristocrazia alla Nobiltà e non potendo per ovvi motivi parlare del Regno di Napoli fa riferimento alla Francia scrivendo: "La Nobiltà in Francia o era comprata o era genealogica: la comprata non ha alcun diritto, la genealogica era un mestiere e non un merito" (35).

Come si vede c'è appena un accenno a una indagine categoriale e sociologica, ma niente più poiché è preminente l'aspetto politico (36).

Nelle favole, parimenti, egli sottolinea solo l'aspetto politico, e vede solo nel diverso peso tra intenzionalità morale e godimento artistico la differenza tra la favola e l'apologo. Senza dare per nulla uno sguardo alla diversa morfologia, mette insieme le favole con le parabole, l'apologo con l'apoftegma in quanto li ritiene provenienti "dagli stessi principi".

La prefazione invece gli offrì lo spunto per approfondire lo studio sull'origine dei sentimenti morali, analizzati negli Indizi di Morale (1775) e che riprenderà successivamente tra il 1814 e il 1816 con la redazione delle due "Memorie" sulla perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione.

Il riferimento a precedenti studi è palese là dove scrive: "Si vede quindi che i progressi della morale corrono paralleli a quelli dello spirito, e senza il perfezionamento di esse le idee morali debbono rimanere nella oscurità, e nella, confusione. Se intanto gli apologi furono la morale del­l'infanzia dell'umanità, si potrebbe credere che l'utilità ne fosse finita dopo un considerevole miglioramento sociale, e dopo che la morale per­venuta al vero grado di scienza si può far derivare dalla sublime teoria delle sensazioni, cioè dalla Natura e proprietà dell'animo umano, per quanto esse sono conosciute" (37), ma così non è.

Il Discorso, quindi, si muove nell'ambito della ricerca sulla felicità delle Nazioni e all'interno di uno storicismo non ancora abbandonato.

"II volgo (e vi è del volgo in tutte le classi sociali, non escluse le più rispettate) se non è nelle modificazioni dello spirito del tutto eguale ai popoli incolti delle prime Epoche è forse in uno stato peggiore, poiché - scrive - lo stato di errore e di pregiudizio è più infelice di quello solo d'ignoranza".

Per rimuovere dalla storia questa drammatica situazione, anche le favole morali potevano ancora essere utili per la semplicità delle loro strutture interne e per la loro capacità di fare subito presa sul pubblico. Le verità - scrive nel Discorso - "dette in un apologo non mostrano tanto l'odiosa divisa, diventano presto di pubblica proprietà, e corrono per le strade come le ariette di Teatro di più facile espressione e più accostanti alla natura. E poi quando le immagini sono precise, l'applicazione si fa facilmente: così la rana che crepa per eguagliarsi al Bue, si rapporta subito al vano ed ozioso degli omaggi popolari; il mulo che non fugge all'avvicinasi dei ladri indica l'indifferenza per li cattivi governi; la Donnola che non mantiene parola, indica di non doversi prestar fede ai malvaggi; l'asino in gravità pel carico delle reliquie fà subito il ritratto dell'ignorante messo in dignità sacre o profane, senza merito personale".

In sostanza, mentre le Favole Morali del Tulli si collocano nel filone settecentesco dell'educazione delle donne, il Discorso del Delfico rientra nel filone illuministico e suo personale della lotta contro l'aristocrazia, considerata il puntello più importante del dispotismo. Nel moralismo riformistico del Delfico non c'era spazio per la strumentalizzazione politica della cultura o della donna (38), ma solo per la diffusione dell'istruzione pubblica nel quadro di un rinnovato concetto dell'estetica e del bello nei rapporti umani e culturali. Il binomio dispotismo-aristocrazia doveva pertanto essere individuato e annullato a tutti i livelli, soprattutto laddove si presentava con il

volto meno appariscente e per questo più pericoloso del rispetto della tradizione e della prassi. In conclusione nella battaglia contro la feudalità il Delfico invocò l'unità dello Stato, in quella contro la magistratura la sovranità della legge, mentre nella lotta contro il dispotismo auspicò un nuovo ordinamento sociale, purtroppo senza specificarne i contorni e le forme istituzionali, per cui non è assurdo parlare, almeno in questa fase, di un Delfico non molto lontano dalle idee dei pensatori politici d'oltralpe, meno vicini all'istituto monarchico.

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(1) Per la pubblicazione noi facciamo riferimento a questa copia con le Favole del Tulli che si trova presso l'Archivio di Stato di Teramo in VIII-42, che forse fu quella in possesso dì Dionisio Mezucelli e che Carlo Campana consultò per le sue notazioni critiche. Il Campana, infatti, fu il primo che lo fece conoscere agli studiosi nel 1863 e che ne pubblicò le prime 3 pagine, cfr. C. CAMPANA, Delle scienze e dette lettere in Teramo sullo scorcio del XVIII secolo, Teramo 1863, pp. 60-63. Nel 1836 l'aveva però segnalato agli studiosi G.. DE FILIPPIS DELFICO, Della vita e delle opere di M. Delfico, libri 2, Teramo 1836.

(2) Berardo Quartapelle appartenne al circolo culturale che faceva capo a M. Delfico, si impegnò sia nell'attività didattica che in quella dell'economia agraria. Nel 1772 aprì a Teramo, pur in mezzo a grandi difficoltà e malumori, una scuola d'istruzione pubblica. Accusato per ben due volte di miscredenza, nel 1775/76 e nel 1783 ne uscì senza gravi danni tanto che potè essere nominato membro della Società Patriottica di Teramo appena costituita. Nel 1798 fu eletto membro della municipalità di Teramo, ma pochi giorni dopo, in seguito all'allontanamento dei Francesi dalla città la sua casa fu saccheggiata e distrutta. Fu coinvolto nei fatti del 1799. Tra le sue opere ricordiamo: B. QUARTAPELLE, Memoria per la società Patriottica di Teramo sulla maniera di preparare e di seminare il grano, Napoli 1796; IDEM, I principi della vegetazione applicati alla vera arte di coltivar terra per raccorre dalla medesima il maggior possibile frutto, Tomi 2, Teramo 1801-1802.

Del Quartapelle, purtroppo, non esiste una biografia recente e aggiornata. Le poche notizie che di lui si sanno provengono da quanto scrissero: N. PALMA, Storia Ecclesiastica e Civile della regione più settentrionale del Regno di Napoli... oggi città dì Teramo e diocesi Aprutina, Teramo 1836, vol. 5 p. 240; G. PANNELLA, L'abate Quartapelle e la coltura in Teramo, Napoli 1888; A. DE IACOBIS, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo (1777-1822) in L. COPPA-ZUCCARI, L'invasione francese degli Abruzzi (1798-1815), L'Aquila 1928, III, p. 107.

(3) G. F. Nardi, nacque in Cervaro (Teramo) il 3 aprile 1746 da Stefano Nardi e Margherita Domenicucci e morì a Teramo nel 1813. Avvocato, riformatore, amico del Delfico e del Quartapelle, fu tra i fondatori della Società Patriottica. Nello stesso anno in cui in Francia scoppiava la rivoluzione egli a Teramo significativamente pubblicò: Saggi su l'agricoltura arti e commercio della provincia di Teramo, Teramo 1789. Sul pensiero e sull'opera complessiva del Nardi cfr. A. MARINO, Un riformatore abruzzese del Settecento - G. F. Nardi, Teramo 1984.

Sulla particolare partecipazione del Nardi, del Delfico e di altri abruzzesi ai fatti del ‘99 cfr. C. PETRACCONE, Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799, in Archivio Storico per le Province Napoletane, terza Serie, Napoli 1982, pp. 199-227.

(4) II titolo esatto è: TULLI A., Catalogo di uomini illustri per santità, dottrina e dignità usciti in diversi tempi dalla città dì Teramo, in Teramo, per Consorti e Felicini, 1766.

(5) II titolo latino esatto è: TULLI A., Joannis Antonii Campani, Episcopi Aprutini vita a Michele Ferno Mediolanensi fusius descripta nunc in epitomen redacta. Cui accesserunt notae ac vindicae varias Campani vitae conditiones illustrantes: nec non de eodem virorum doctorum elogia, et testimonia. Auctore Alexio Jacobi Antonii Consorti et Antonii Felicini, 1765.

(6) N. palma, Storia..., cit., vol. V, pp. 278-79.

(7) F. savini, Cronaca Teramana dei banditi delle Campagne e delle fazioni famigliari della Città nei secoli XVI e XVII, composta da ignoti autori e trascritta da G. F. Nardi, Teramo 1914.

(8) a. DE JACOBIS, op. cit., p. 74.

(9) La cosa è così raccontata dal Palma: "Imperciocché soppresso il Convento degli Agostiniani con dispaccio degli 8 settembre 1792, onde addire a quel fabbricato a locale delle provinciali prigioni, il Re si compiacque ordinare che il Parlamento generale di Teramo proponesse l'uso, che intendeva fare delle rendite di quello. Con­vocato il Parlamento nel dì 23 detto, si lesse e si adottò l'avviso della Società Patriot­tica di aversi cioè a proporre lo stabilimento di una scuola publica di leggere, scrivere, e di principi di Aritmetica, e di una casa di educazione della gioventù, mediante onesta pensione, da pagarsi dalle famiglie pe' giovani destinati alle arti liberali ed alle scienze", (cfr. N. palma, Storia..., cit., vol, III, p. 507).

(10) C. CAMPANA, Delle scienze..., cit. p. 61

(11) B. MEZUCELLI, Discorso di D. Troiano Odazi per la riapertura della cat­tedra di Economia Politica dell'Università di Napoli, recitato nel 1792, in "Rivista Abruzzese di Sc. Let. Arti", a. V (1890), fasc. XI, pp. 485 sgg.

(12) Cfr. M. TORCIA, Scoperte di alcune antichità fatte da M. T. nei suoi viaggi in Abruzzo, Napoli 1792 e, IDEM, Saggio itinerario nazionale pel paese de' Peligni fatto nel 1792 da M. T., Napoli 1793.

Per M. Torcia il Delfico scrisse una interessante Relazione, in forma epistolare dal titolo: Relazione geografico-economica del tratto di paese marittimo dal Fortore al Tronto, pubblicata per la prima volta su "Nord e Sud" nn. 31-32, agosto 1977, pp. 191-199.

(13) Per le cose che vide e pensò il Galanti cfr. G. M. GALANTI, Riordinazione proposta nel 1792 con la visita generale delle provincie, sta in "Relazioni sull'Italia Meridionale" a cura di T. Fiore, Milano 1952, p. 13 e sgg.

(14) N. PALMA, Raccolta di memorie istoriche riguardanti la città di Teramo... incominciata il 16 luglio 1809 dal can. apr. dott. Nicola Palma, n. 61, p. 725; ms. conservato dalla famiglia Favazzi-Palma. Per altre notizie cfr. A. AVENANTI, Cultura e arte a Teramo nel periodo illuminista, in "Itinerari", XVII (1978), I-II, pp. 244-45.

(15) La Memoria è riprodotta in: Opere Complete di Melchiorre Delfico. Nuova edizione curata dai Professori Giacinto Pannella e Luigi Savorini, Teramo 1904, vol. 4, pp. 335-362.

(16) Francesco Cicconi nacque a Morrodoro nel 1720 e morì il 19 marzo 1792. Di lui non esiste una biografia moderna, nonostante nella sua epoca fosse considerato un grande avvocato e un profondo giurista. Per altre notizie cfr. N. PALMA, Storia.., cit., vol. V, pp. 182-83.

(17) La Memoria autografa si trova nella Biblioteca Provinciale di Teramo, Fondo Delfico, misc. 4, busta di difesa. Per altre notizie cfr. L. TOSSINI, Autodifesa di un illuminista, in Arch. Stor.  per le Prov. Napoletane, Serie III, pp. 77-97.

(18) V. CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798), Roma 1981, p. 435 e sgg.

(19) II titolo esatto è: Commercio scientifico d'Europa col Regno delle due Sicilie per i professori ed amatori di chimica, fisica, storia naturale, medicina, farmacia chirurgia, agricoltura, economia domestica, arti, e manifatture, Teramo, nella stamperia Bonolis, 1792. I numeri che uscirono nel 1908 furono raccolti in volume da G. Pannella.

(20) Citazione presa da G. NATALI, II Settecento, vol. II, Milano 1964, p. 400.

(21) C. campana, Delle scienze..., cit., pp. 66-67.

(22) M. DELFICO, Opere Complete..., vol. I, p. 230. Per le possibili applicazioni polemiche le favole piacquero anche agli uomini della Riforma protestante, tanto che il metodo fu ripreso, tra gli altri, da Erasmus Alberus nel  "Libro della sapienza e della virtù" e da Burkard Waldis che stampò il suo Esopus (1548).

(23) M. DELFICO, La Delficina o sia raccolta di pensieri di M. D. rinvenuta fra gli scritti postumi di lui con un discorso ed alcune note dell'editore, strenna del 1841, Napoli 1841.

(24) M. DELFICO, Opere Complete...., cit, vol. I, p. 211.

(25) G. RIVERA, L'invasione francese in Italia e l'Abruzzo Aquilano dal 1792 al 1799, Aquila 1907, p. 9.

(26) N. PALMA, Storia..., cit., vol. III, p. 513.

(27) N. PALMA,   Storia…, cit., vol. III, p. 514.

(28) ARCHIVIO DI STATO DI TERAMO, fondo Archivio Comunale di Teramo, Libro de' pubblici Consegli (1770-1799), pp. 81-85, 86, 87-88, 89-90.

(29) M. delfico, Opere Complete..., cit., vol, I, p. 200. Per una panoramica sulle posizioni del Delfico in materia giuridica cfr. C. ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di  M. Delfico, in  "Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche", Milano, s. III, a. VIII (1954), pp. 423-455.

(30) V. clemente, Rinascenza..., cit., p. 458.

(31) M. delfico, Opere Complete..., cit., voi. I, p. 229.

(32) G. de filippis-delfico, Della vita.., cit., p. 36.

(33) T. SERRA, Azione e ricerca della felicità (H. Arendt), in "Trimestre", 1986 p. 144.

(34) A. MARINOInediti di Melchiorre Delfico, Chieti 1986,  p. 116.

(35) A. MARINO, Inediti..., cit.,p. 118.

(36) Nella prima nota all'Introduzione delle Ricerche sulla giurisprudenza, ricordando i giuochi dei gladiatori, il Delfico scrive che furono inventati dall'aristocrazia: "Né furono già i plebei, ma i patrizi che portarono vanto così prezioso. Furono essi, che sotto il manto delle virtù aristocraticbe diedero in eccessi che rivoltano l'umanità: né fu raro il caso, che i padri fossero i carnefici dei figliuoli", cfr. M. DELFICO, Opere Complete..., cit., vol. I, p, 108.

(37) Per una lettura più attenta e strutturale del mondo delle favole bisognerà attendere gli studi del Novecento e in particolare quelli di vladimir ja. propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, I966 e di M. dallari, La fata intenzionale. Per una pedagogia della fiaba e della controfiaba, Firenze 1980. In particolare M. Dallari scrive: "Sia l'interpretazione antropologica, che quella fedele ai dettami detta psicoanalisi, confermano l'importanza della fiaba quale portatrice di un patrimonio che permetta al bambino di riappropriarsi di se stesso e detta propria storia, dandogli nel contempo gli strumenti di inserimento nel mondo in cui vive" (p. 33). Per una visione panoramica sulla favola nel mondo moderno cfr. OK. rYen scung, Psico-pedagogia della fiaba. Itinerario attraverso il mondo favolistico occidentale e orientale con 16 fiabe inedite coreane, A. Armando, Roma 1972. Non sappiamo se nella stesura il Delfico tenne presente un volume uscito nel 1761 e ora ristampato in copia anastatica dal titolo: Dell'origine delle favole e delle loro conseguenze. Dissertazone (rst. anast. 1761), 1979.

(38) Sullo scorcio del secolo XVIII e i primi decenni del successivo molti autori trattarono le questioni relative ai rapporti tra i due sessi, all'influenza delle donne e ai diritti che a queste debbono essere riconosciuti. Ricordiamo il - Discorso sull'amore delle donne considerato come motore precipuo della legislazione, letto nella società letteraria di Piacenza il 23 giugno 1789 da G. D. ROMAGNOSI - (cfr. Opuscoli su vari argomenti di diritto filosofico, Prato 1840, pp. 27-50), nel quale l'autore discute e confuta le opinioni dell'Helvetius, che intendeva elevare l'amore delle donne fino a formarne un elemento fondamentale della legislazione, a cui si riferì M. Delfico nella sua lettera in data 12 marzo 1827 - Della preferenza dei sessi - e che nel 1838 fu contestata da Francesco Martigiani nello scritto - Sulla preferenza dei sessi del cons. comm. Delfico -, di cui parlò G. Gentile nella - Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Milano 1930 (pp. 85 e sgg.). Sull'uguaglianza dei due sessi dinanzi alla legge e in special modo sull'utilità di una educazione speciale, capace dì preparare la donna ai suoi compiti di madre e di sposa, parlò un altro amico del Delfico, G. GORANI, Ricerche sulla scienza dei governi, 1790. Per altre notizie sulla problematica femministica nel ‘700 cfr. G. NATALI, Un gentiluomo patriota e cosmopolita nel secolo XVIII, nel vol. Idee costumi uomini del Settecento, Torino 1926, pp. 319-340.