De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Melchiorre Delfico e la politica culturale degli Aragonesi

di Adelmo Marino

In "Aprutium", Organo del Centro Abruzzese di Ricerche Storiche, anno VI, n. 1/1988, Edigrafital, S.Atto di Teramo

Dopo aver fatto conoscere il Discorso sulle favole esopiane, pronto per la stampa, ma, che per una serie sfortunata di coincidenze, non fu mai edito dall'Autore, presentiamo ora un altro inedito di Melchiorre Delfico, che è meno ampio del primo, ma non meno interessante.

Si tratta di uno studio di poche pagine, sedici per l'esattezza di cui due bianche, senza titolo e senza data (per cui non è neanche indicato negli inventari pubblicati da Gregorio De Filippis Delfico e da Raffaele Aurini) me che a differenza di altri inediti è completo di note. Noi lo pubblichiamo integralmente, senza apportarvi nessuna modifica; abbiamo solo inserito, per facilitare la consultazione e i rimandi, il numero progressivo delle pagine tra parentesi quadre e il titolo desumendolo dal contenuto.

Quasi con certezza, il saggio fu scritto tra il 1793, anno in cui il Giustiniani pubblicò l'opera citata dal Delfico, sulle tipografie nel Regno di Napoli, e il 1805, considerando inopportuno e troppo forte l'accenno al comportamento truffaldino di Carlo VIII che ordinò l'invio in Francia di molti manoscritti napoletani, tra cui il celebre Chronicon Casauriense. Il riferimento, infatti, non poteva essere fatto nel momento in cui Giuseppe Bonaparte lo chiamava a Napoli ad occupare nel suo governo posti di grande responsabilità politica.

Sostanzialmente il manoscritto si configura come un elogio alla politica culturale degli Aragonesi e un'occasione per ricordare il contributo abruzzese allo sviluppo dell'Umanesimo italiano.

Il rinnovamento della cultura napoletana, come è noto, cominciò con Alfonso il Magnanimo (1442-1458), si sviluppò sotto il regno di Ferrante (1458-1494), subì una battuta d'arresto durante i regni di Alfonso II (1494-1495) e di Ferrandino (1495-1496) ma si riprese sotto Federico (1496-1501) che fu l'ultimo re aragonese, con l'esilio del quale sembrò che si spegnesse ogni fervore di vita letteraria.

Il re Ferrante (Ferdinando I), per quanto impegnato nella lotta contro il baronaggio napoletano "e vi sono buone ragioni – scrive G. Galasso – per ritenere che la grande congiura baronale del 1485-86 (origine delle posteriori guerre ed invasioni del Regno) sia stato piuttosto una reazione dei baroni alla tenace e subdola opera de prevaricazione svolta dal re nei due decenni precedenti anziché una iniziativa autonoma e spontanea" (1), favorì grandemente la cultura anche se con una prospettiva del tutto particolare e prammatica. Sotto il suo regno, infatti, si sviluppò la letteratura in lingua volgare sia nella versione popolareggiante, che sostanzialmente era estranea al moto umanistico, sia nella forma aulica e colta che, invece, si ricollegava nettamente a quel movimento. Nel ventennio in cui fu libero dalle preoccupazioni politiche, egli stesso si dedicò allo studio delle lettere e contribuì con la sua opera alla rinascita della cultura, imprimendo un nuovo stile sia nell'ambito della ricerca formale come nel campo della problematica morale e politica (2).

Il Rinascimento napoletano, pertanto, accanto a certe e inevitabili tendenze neo-feudali, alle quali non erano immuni le altre corti italiane, assunse quella caratteristica di laica dignità civile, che lo storico Pandolfo Collenuccio, più volte ricordato dal Delfico, faceva derivare da Federico II di Svevia.

Melchiorre Delfico, facendo proprie le osservazioni del Panormita, preferì sottolineare la politica del Magnanimo in favore delle biblioteche, delle scuole e delle belle arti. A ricordo di questa imponente azione civilizzatrice, scrive il Delfico, ci restano il restauro, quasi dalle fondamenta, di Castelnuovo e il magnifico arco trionfale, opera del milanese Pietro Martino "che fu tanto caro ad Alfonso, che dopo averlo largamente premiato, lo creò cavaliere".

"Ma l'operazione più bella di Alfonso – aggiunge – fu quella d'istituir in Napoli una dotta Accademia. Non gli fu difficile ciò eseguire perché…essendo la sua corte ripiena di uomini letteratissimi in ogni facoltà, giureconsulti, filosofi, teologi, oratori e poeti, non gli mancarono soggetti adatti a tal uopo".

A prescindere dal fatto se questa sia stata o n "la prima istituzione in Italia", poiché in quel periodo altre ne sorsero a Roma e a Firenze, certo è che l'Accademia Pontaniana, come poi si disse, svolse un ruolo notevolissimo nell'Italia centro-meridionale, soprattutto chiamando a collaborare al suo sviluppo gli intellettuali più rappresentativi di tutte le regioni del regno a cominciare dall'Abruzzo con Andrea Matteo III (1458-1529) e suo fratello Bellisario Acquaviva, entrambi intellettuali e amici di intellettuali quali il Pontano, il Galateo, il Cantalicio e il Sannazzaro. Il loro contributo alla cultura fu ampiamente ripagato da numerosi attestati di riconoscimento e di simpatia. Il Pontano dedicò ad Andrea Matteo III il volume De magnanimitate l'ascolano Cesare Torto una serie di "sonetti et canzone"; il Galateo l'Apologeticum e il Sannazzaro il suo De partu Virginis. A Napoli, del resto, Andrea Matteo aveva impiantato nel 1525 un'eccellente tipografia, diretta da Antonio Frezza da Corinaldo, della quale si erano serviti sia il Pontano che il Sannazzaro, mentre in Atri aveva organizzato una favolosa biblioteca, lodata dal Cantalicio e dal Croce, che era a disposizione degli amici abruzzesi e napoletani (3).

La versione in latino con relativo commento delle opere di Plutarco (segno evidente della sua conoscenza della lingua greca) è senza dubbio l'espressione più alta del suo ideale umanistico al quale fece riferimento Bellisario Acquaviva (1464-1528) nella composizione del De istituendis liberis principum, edito a Napoli presso "Ioannes Pasquet de Sallo" tra il 7 maggio e il 1° agosto 1519, e cioè sei anni dopo la conclusione del Principe del Machiavelli e quattro anni dopo l'ideazione dell'Utopia di Tommaso Moro. Con la sua opera Bellisario pose le basi del moderno principe, modellato sui precetti e sugli esempi degli antichi, additando come ideale politico l'esercizio della clemenza, della liberalità e della continenza per poter avere sudditi fedeli e devoti.

L'opera recentemente riesaminata da Lucia Miele nel corso del convegno su "Gli Acquaviva d'Aragona duchi di Atri e conti di S. Flaviano", costituisce, infatti, una tessera preziosa di quel ricco e suggestivo mosaico rappresentato dalla trattatistica politica meridionale sorta nel secondo Quattrocento.

"Il modello esemplare di principe proposto dall'Acquaviva – nota L. Miele – coincide con quello del sapiente, canonizzato ed esaltato dall'antichità classica, come del resto suggerisce e conferma l'evidente richiamo all'autorità aristotelica, in una accezione della sapienza come un continuo integrarsi di scientia ed experientia sul camino di un progressivo affinamento morale ed intellettuale capace di assicurare il successo della giornaliera attività politica e in senso più lato una fama imperitura come corrispettivo di una autentica dignità che sola onora e qualifica la maestà distinguendola dalla tirannide" (4).

Ai trattati pedagogici Bellisario fece seguire, come del resto Andrea Matteo, opere di argomento religioso ed ascetico tra cui l'accertato Expositionis Orationis Dominicae Pater Noster libri duo, in cui, oltre all'esposizione del Pater Noster, che occupa tutto il primo libro, egli tratta della morale cristiana, rivelando una grande apertura culturale e una notevole indipendenza di giudizio.

Fece scalpore ad esempio il consenso che egli diede a suo figlio di sposare una fanciulla ebrea, anche se appartenente ad una famiglia ebrea già convertita al cristianesimo (5).

Nel saggio il Delfico ricorda solo questi due autori, ma ne avrebbe potuto indicare di più, poiché il contributo culturale abruzzese all'Umanesimo italiano fu assai più articolato e consistente. Basti pensare agli intellettuali sulmonesi Marco Barbato (1304-1365) e Giovanni Quatrario (1336-1402), che furono i capisaldi della cultura abruzzese, agli aquilani Giovanni da Capestrano (1386-1456) e Serafino de' Ciminelli detto de L'Aquila (1466-1500), a Oliviero da Lanciano tanto per citarne alcuni insieme al vescovo aprutino Giovanni Antonio Campano (6).

Fu, come sostiene giustamente Raffaele Colapietra, un momento magico del contributo abruzzese alla cultura napoletana (7) e per questo stupisce il fatto che il Delfico, parlando dell'impianto delle tipografie a Napoli e dello sviluppo dell'arte della stampa non consideri l'apporto degli Abruzzesi che fu notevole (8). Una cosa, comunque è certa, quando nel regno di Napoli nei primi del Cinquecento l'arte andò in crisi se si riprese subito e si rinnovò ciò che si verificò per opera di Giuseppe Cacchi (9).

Questi ed altri silenzi, come l'assenza del titolo, la bibliografia incompleta e la numerazione mancante delle pagine fanno pensare che il saggio doveva essere rivisto e completato in più parti. Per due volte, infatti, è lui stesso ad ammetterlo esplicitamente. In una pagina, ad un certo punto, dopo aver accennato alla rinascita della poesia latina ed italiana nel regno ad opera del Pontano e del sannazzaro, si chiede: "Quali opere astronomiche si fecero sotto Alfonso?" e poi annota, vedere "se vi furono filosofi". Un analogo pro-memoria si legge nella pagina seguente, quando a proposito dell'introduzione della stampa in Italia, scrive: "Se la stampa fosse venuta in Napoli nel tempo di Alfonso".

Sembra, però strano che il Delfico non conoscesse i nomi dei filosofi napoletani del periodo aragonese e non ricordasse, in particolare tre abruzzesi: il chietino Nicoletto vernia (1420-1499), maestro di Agostino Nifo e di Pico della Mirandola; il francescano Pietro dell'Aquila che, insieme al Caracciolo, diffuse le teorie dello scozzese Duns Scoto nel napoletano; e il canonista teramano Pietro d'Ancarano (1340-1416) che partecipò ai concilii di Pisa e di Costanza con grandissima autorità.

Altrettanto sorprendente appare l'appunto relativo all'inizio della stampa che, come ricorda, si sviluppò ad opera dei Tedeschi e il rinvio ad un ulteriore approfondimento sulle opere di astronomia nella prima metà del Quattrocento che ai suoi tempi erano conosciutissime per gli studi stellari fatti dal palermitano G. Piazzi.

Certamente il Delfico non entrò nel merito delle cose, sottolineò i fatti e gli apporti individuali senz'altra occupazione che quella dell'efficacia e del rimpianto per un'epoca che vide rendere più grande il Regno di Napoli e più accogliente le sue contrade. Da qui il sommesso ma trasparente invito a leggere questo saggio in controluce e in riferimento al ricordato Discorso sulle favole esopiane (1792) e alla nota Lettera a S. E. il Sig. Duca di Cantalupo Intendente generale de' reali stati allodiali che il Delfico scrisse nel 1795. Se nel Discorso suggerì agli intellettuali l'utilizzazione anche delle favole pur di migliorare il costume dei popoli, ignorando le facili ironie delle "teste coronate", qui, nel saggio il Delfico propose al sovrano di favorire la ricerca scientifica, privilegiando le capacità dei singoli alle velleità dei nobili, l'impegno degli intellettuali alle manovre conservatrici dell'aristocrazia.

"Se fu l'andamento della natura e dei primi passi sociali che costituì le aristocrazie, perché solo così si poteva rappresentare una volontà generale, giacchè nei tempi d'ignoranza solo in pochi si trovava la ricchezza, la forza ed il sangue, lo stesso progresso – auspicò il Delfico – deve distruggerle dopo che la proprietà e la scienza sono divenute un patrimonio generale, dopo che la proprietà è posta in circolazione, dopo che l'educazione non è più una privativa" (10).

Il farsi,  pertanto un merito dell'antichità per la direzione politica di uno Stato, spiegò, è come un attribuire una forza o qualità morale al caso. "Se tutti vengono da Adamo il merito sarà solo di aver conservato le genealogie".

In conclusione, su un piano più generale, con il saggio Melchiorre Delfico intese dimostrare che nel Quattrocento il Regno di Napoli non aveva nulla da invidiare agli altri stati italiani, poiché "mentre il Cardinale Bessarione in Roma, e Lorenzo de' Medici in Firenze introdussero le loro accademie, Alfonso aveva in Napoli con l'opera di Antonio Panormita istituito una industria accademica, accresciuta poi, ed in miglior forma ridotta da Giovanni Pontano" (11).

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(1) Cfr. G. GALASSO, Dal Comune meridionale all'Unità. Linee di storia meridionale, Laterza, Bari 1971, p. 90.

(2) Sulla problematica culturale dell'Italia meridionale nel Quattro-Cinquecento cfr. F. TATEO, L'Umanesimo meridionale, Laterza, Bari 1972, e dello stesso, I centri culturali dell'Umanesimo, Laterza, Bari 1971.

(3) Cfr. C. BIANCO, La biblioteca di Andrea Matteo Acquaviva, in Atti del Convegno di studi su' Gli Acquaviva d'Aragona duchi di Atri e conti di S. Flaviano a cura del centro Abruzzese di Ricerche Storiche, Teramo 1985, pp. 159-174.

(4) Cfr. L. MIELE, Il "De Istituendis liberis principum" di Bellisario Acquaviva, in Atti…op. cit., p. 183. La tirannide è un topos letterario che parte da molto lontano e cioè dalla politica di Aristotele, rifluisce nella trattatistica meridionale con S. Tommaso d'Aquino e arriva a Egidio Colonna. Nel ‘600 fu trattato da un altro esponente della famiglia Acquaviva ed esattamente dal Gesuita Claudio Acquaviva in tre specifici decreti per sconsigliarne il ricorso. Sull'argomento si veda A. LEZZA, I decreti sul tirannicidio di Claudio Acquaviva: significato culturale e risvolti letterali, in Atti… op. cit., p. 269 e sgg.

(5) Bellisario Acquaviva è stato piuttosto dimenticato dalla bibliografia contemporanea per cui rimandiamo per lui, ma anche per altri membri della famiglia, a V. BINDI, Castel S. Flaviano. Studi storici archeologici ed artistici, Napoli 1881, vol. III, pp. 114-140 e per il suo pensiero politico a T. PERSICO, Gli scrittori politici napoletani dal ‘400 al ‘700, Napoli 1912, pp. 139-145, mentre per le sue idee economiche a G. CARANO-DONVITO, Economisti in Puglia, Firenze 1956, pp. 247-256. Sull'episodio del matrimonio del figlio di Bellisario con l'ebrea si veda B. CROCE, Un'epistola del Galateo in difesa degli Ebrei, in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari 1953, pp. 132-140.

(6) Per altre notizie sugli umanisti abruzzesi cfr. N. FARAGLIA, Barbato di Sulmona e gli uomini di lettere della corte di Roberto d'Angiò, in I miei studi storici delle code abruzzesi, Barabba, 1893, pp. 101-160 e recentemente A. CAMPANA, Barbato da Sulmona, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 6 Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1964, pp. 130-134 e G. PAPPONETTI, Intellettuali e circolazione libraria in Sulmona, in Cultura umanistica del meridione e la stampa in Abruzzo, L'Aquila 1984, pp. 259-307; P.a. DE LISIO, L'Italia meridionale e il Rinascimento, in La Cultura umanistica nell'Italia meridionale: altre verifiche, S.E.N., Napoli 1980 e F. SABATINI, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli 1975.

(7) Sul clima culturale nella regione Abruzzo nel periodo aragonese cfr. R. COLAPIETRA, Aquila e l'Abruzzo nell'età aragonese, in Dal Magnanimo al Masaniello, Salerno 1972.

(8) Per uno sguardo complessivo sulle tipografie in Abruzzo cfr. G. PANSA, Le tipografie in Abruzzo dal XV al XVIII secolo. Saggio critico e bibliografico, Lanciano 1891, mentre per un'interpretazione del fenomeno nella sua globalità cfr. gli atti del convegno aquilano su Cultura umanistica nel Meridione e la stampa in Abruzzo, L'Aquila 1982.

(9) Cfr. F. TATEO, Cultura feudale e tipografia nel meridione: Umanesimo fra gli Abruzzi e Napoli, in Cultura Umanistica… op. cit., p. 41.

(10) Cfr. A. MARINO, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, p. 115.

(11) Foglietto volante presso Archivio di Stato di Teramo, Fondo Delfico, busta 16, fasc. 153.

Ed ecco, sull'argomento, il testo integrale di Melchiorre Delfico (le note tra parentesi quadre si riferiscono al numero pagina del manoscritto di Melchiorre Delfico riportato trascritto): 

E' fuor di dubbio, che non v'abbia secolo più glorioso, e celebre per la letteratura del secolo XV. Dopo l'invasione de' barbari il furor della guerra, e lo stato infelice, nel quale vivevasi non avevano dato campo agli studi, ed a coltivarsi le belle Arti e sebbene erano circa qualche maniera la letteratura in Italia; era stato però il loro numero pur troppo scarso a tal uopo, e mancavan loro que' mezzi, che per tanta opera erano necessari. E' vero, che nel secolo XIV era stato con miglior successo continuato questo importante lavoro, e l'industria di alcuni grandi ingegni animati dalla munificenza de' Principi aveano incominciato a squarciare il denso velo della barbarie; pure però nel secolo XV si vidde tutta l'Italia impegnata a ravvivare in questa felice parte d'Europa le Scienze, e le belle Arti, che per più secoli languite aveano.

Le sventure de' Greci costrinsero molti tra essi a trovare asilo in varie parti d'Italia, dove furono con molt'onore da Principi, che in essa regnavano, accol- [1] ti e protetti. Incominciarono do nuovo a risuonare in Italia, e a leggersi nel loro naturale idioma le Opere di Platone, di Omero, di Aristotile, di Demostene, di Plutarco, di Senofonte, di Polibio e di altri celebrati nella Greca antichità, e s'incominciarono a formare di loro esatte traduzioni. S'incominciarono a ricercare in ogni angolo i Codici, ed intraprendersi a tal fine lunghi, e disastrosi viaggi, ed a formarsi in conseguenza buone biblioteche, ed aprirsi cattedre per l'erudizione Greca e Latina; ad ergersi Letterarie Accademie per maggiormente animare gl'ingegni, e comunicarsi a vicenda le cognizioni, e che resero quindi l'Italia oggetto di maraviglia a tutto il resto del Mondo.

Fra li Principi, che contribuirono a queste grandi opere, debbono essere espressamente ricordati li Medici in Firenze, ed i Pontefici in Roma, e tra questi particolarmente Eugenio IV, Niccolò V, e Pio II; e non sono nemmeno da tralasciarsi di nominare i Signori di Casa d'Este in Ferrara, e Filippo Maria Visconti, ed i Sforza in Milano.

La Corte però dei nostri Monarchi Aragonesi, se non fosse per altro, fu certamente la più illustre per gli Letterati, che la frequentarono, e per la protezione, che quei Principi [2] fecero per le lettere, e particolarmente Alfonso primo fece "che la sua Corte fosse uno dei più dolci ricoveri per le Scienze, e per le Arti, ov'esse eran sicure di ricevere ricompensa, e favore, ci avverte un Autor sincrono, che (1) Illud vel notabile praecipue inter Regis facinora fuit, quod quot viros, aut re bellica, aut letteraria illustres acceperit ad sese pene omnes avocatos amplissimis honoribus, magnificentissimique muneribus ornanti", giacchè costruì, al dir di Pio II (2) "in ogni etade di sua vita diede opera alle lettere, peritissimo nell'arte della Grammatica, ancorché di rado parlasse; ebbe in onore tutte le Istorie, e seppe tutto quello, che dissero i Poeti, e gli Oratori, agevolmente scioglieva i dialettici intrichi; niuna cosa gli fu incognita della Filosofia; investigò tutt'i segreti della Teologia, egli seppe gentilmente e dottamente ragionare dell'Essenza di Dio, e del libero arbitrio dell'uomo, della Incarnazione del Verbo, del Sacramento dell'Altare, della Trinità, e d'altre difficilissime quistioni. E gloriavasi questo Sovrano, a dir di Antonio Panormita (3) quod Biblia quater, et decies cum glossis, et commentariis per legisset Proin- [3] de illa memoria ita tenere, ut non solum res, sed et verba etiam ipsa pluribus locis sine scripto redderet".

Questo stesso celebre scrittore ci addita che (4) "Scholas, et auditoria, in quibus maxime Theologia publice legeretur magnifice adornari curavit. Nec adornari solum, sed interfuit ipse lectioni", e ci avvisa anche, che questo Principe (5) "Regna quem plurima quidam haberet, et possideret, malle se perdere, etiam persante affirmabat, quam literas, quas permodicas scire se dicebat, nescire".

Era tanto l'amore, che costui portava alle lettere, che dallo stesso Panormita sappiamo, che (6) "in urbium direptione quicumque ex militibus librum, offendisset, confestim, certatimque illum ad regem quasi suo quodam iure perferebant. Siquidem fama vulgarerat eum libris maxime delectari solitum. Itaque nulla alia in re magis sese regi gratificari dignitus, aut facilius posse arbitrabantur, quam in libris exhibendis, atque tradentis".

Incominciò anche sotto a questo Principe l'antica numismatica ad essere illustrata giacchè dice il Panormita (7) che "Numismata illustrium Imperatorum per universam Italiam sum- [4] mo studio conquisita, in eburnea arcula a rege pene dixerim religiosissime, asservantur".

Fece sì che molti letterari, che stavano alla sua Corte si esercitassero a produrre parti de' loro ingegni a beneficio delle scienze, e delle belle lettere, diede infatti incombenza a Giorgio Trapezunzio (8) di tradurre dal Grego i libri di Aristotile, che trattano dalla storia naturale; a Poggio Fiorentino (9) che traducesse la Ciropedia di Senofonte, rimunerandoli generosamente. Creò Cavaliere, e premiò largamente Filelfo (10) che portogli a leggere alcune sue Opere.

Ad istigazione sua anche Flavio Biondo da Forlì, scrisse l'Italia illustrata, e la dedicò a questo Sovrano medesimo (11). Mandò il Porcellio storico e poeta; che credo, che fosse nome Accademico, sapendosi per altro, che era della famiglia de' Pandoni; e che fu suo segretario, nel campo de' Veneziani, acciochè fosse esatta la storia, che scrisse della guerra, che nel 1452 e 53 vi fu tra Veneziani e Francesco Sforza (12), questa Storia fu la prima volta stampata dal Muratori (13) con alcune notizie della vita dell'Autore.

Il Pontano ci fa sapere, che (14), "ad [5] ordinariam in Antonium Panormitam benignitatem illud addidit, ut mille eum aureis ob scriptum de dictis, et factis suis librum donaverit". Non si restrinse soltanto l'opera di Alfonso nel promuovere la letteratura nel regno di Napoli, ma cercò promuoverla ancora nei suoi regni, che aveva nelle Spagne, ci fa sapere a tal proposito il lodato Panormita (15), che "Hispanos quingentis, atque eo amplius annis a studio humanitatis usque adeo abhorrentes, ut quis literis operam impenderent, ignominia prope modum notarentur, ad litterarum cultum sic revocavit, ut rudes, propeque effereratos homines doctrina quidam modo reformaverit".

Furono fra gli altri alla sua corte, i soprannominati Antonio Panormita, Francesco Filelfo, e Giorgio Trapezunzio, anche Bartolomeo Facio, Lorenzo Valla, e Giannozzo Manetti celebri letterati di quell'epoca; e del Panormita ebbe tanta venerazione Alfonso, che dopo averlo colmato di onori, come si è detto, e fatto suo segretario, e consigliere, volle, anche che fosse suo Maestro, e de' suoi figli, come lo fu anche de' figli di Ferdinando. In un diploma quindi d'Alfonso del 1454, vien da [6] quel Principe, chiamato, Poeta laureatus, Praeceptor, Consiliarus, et fidelis noster (16).

Non mancò nemmeno questo Principe di formare con regia magnificenza una biblioteca, né minor cura ebbe in accrescerla il suo figliuolo Ferdinando I, ma nelle guerre, che vi furono poi nel Regno, allorchè Carlo VIII dopo averlo occupato, dovette uscirne, ed abbandonare l'Italia, seco recò gran parte de' libri di quell'insigne biblioteca, e presendendo da altri, il Muratori (17) fa menzione di un pregevolissimo codice, che conteneva le carte del Monistero di Casauria, che fu per comando di Carlo VIII trasportato in Francia (18).

Ma l'operazione più bella d'Alfonso fu quella d'istituire in Napoli una dotta Accademia. Non gli fu difficile ciò eseguire perché, come sopra si è detto, e come ci attesta anche il Collenuccio (19), essendo la sua corte ripiena di uomini letteratissimi in ogni facoltà, giureconsulti, filosofi, teologi, oratori e poeti, non gli mancarono soggetti adatti a tal uopo.

Di quest'Accademia, la quale probabilmente fu la prima istituzione in Italia, fu il capo il Panormita, e dopo Giovanni Pontano vivente ancora il Panormita stesso, che l'adornò di leggi, ed istituti (20), ed il quale sotto [7] Ferdinando I, figlio di Alfonso, l'adornò maggiormente, perché molto accrescimento ebbe la letteratura fra noi dopo la presa di Costantinopoli fatta dai Turchi negli ultimi anni del Regno d'Alfonso, essendo venuti qui fra gl'altri letterati Greci, Emmanuele Crisolara, Costantino Lascari, Gazza, ed Argiropolo.

In quest'Accademia furono ascritti l'ingegni più rari, così di Napoli, che d'Italia, e per nominarne alcuni fra i Napoletani, Giacomo Sannazzaro, Alessandro D'Alessandro, Andrea Matteo e Bellisario Acquaviva, Francesco Elio marchese, Girolamo Borgia, il Cardinal Seripando, Giuniano majo, Pietro Summanzio, Giovanni Albino, Scipione capece, Tristano caracciolo, Elisio Calenzio, ed Antonio Galateo; e fra i forastieri il cardinale Bembo, il cardinale Egidio da Viterbo, il Cariteo, Francesco Pucci, il cardinale Sadoleto, Marc'Antonio Flaminio, Manilio Ballo, e Michele Marullo (21).

Per mezzo di quest'Accademia, ed altre istituite in Roma, ed altre parti d'Italia, l'Oratoria, la Poesia latina, ed Italiana, la Filosofia Morale ripigliarono l'antica eleganza, e proprietà, e particolarmente le latine poesie del Pontano, e le latine [8] ed italiane del Sannazzaro possono stare in fronte a più belli pezzi dell'antichità. Gli studi astronomici furono anche sotto il Regno d'Alfonso, e successori della sua casa illustrati dal Pontano stesso, e da Angelo Catone.

La nuova invenzione della stampa, non fu tarda ad illustrare il nostro Regno, ed a facilitare il modo d'istruirsi, giacchè prima la rarezza de' manoscritti, e l'esorbitante prezzo, che costavano rendevano la lettura più difficile; ed è cosa notabile ciocchè si legge in una lettera scritta dal Panormita ad Alfonso I (22) "sed illud, egli dice, a prudentia sua scire desidero, uter ego, an Poggius melius fecerit, is ut villam Florentiae emeret, Civium vendidit, quemo manus sua pulcherrime scripserat. Ego, ut Civium eman fundum proscripsi, haec ut familiariter a te peterem, suasit humanitas et modestia tua". Introdotta la stampa circa la metà del secolo XV, fu trasportata in Napoli da Sisto di Riessinger, Arnaldo da Brusella, e Maria Moravo, giacchè i primi libri stampati con data, furono la lettura di Bartolo sul codice stampata nel 1741, e certe Opere di Pietro da Ubaldis, e di Angelo da Perugia su materie forentis (23). [9]

Né mancò il Re Ferdinando di proteggere i stampatori che vennero nel nostro Regno, un editto infatti del detto sovrano a favore del detto Mattia Moravo, e Gio: Marco da Parma ritrovasi nel Real Archivio della Cancelleria (24), ed un altro a favore di Ajolfo Cantono da Milano (25). Gran cura ancora si prese Ferdinando, imitando gli esempi paterni nel commentare le Lettere, ed abbiamo alle stampe un volume di Epistole, e di Orazioni. E molto si adoprò per ben regolare il nostro Collegio de' Dottori (26), e la nostra Università de' Studi (27), come da varj Diplomi, che ne' nostri Archivi conservansi, accrescendo un'altra cattedra per la lingua Greca, facendone Lettore Costantino Lascari, e ci avverte il Pontano, che (28), "Ferdinandus Rex magnum pecuniam summam quotannis ex Aerario pendendam statuit, rethoribus, Medicis, Philosophis, Theologia, qui publice Neapoli docerent Egregie sane factum, et perpetua commendatione dignum, ingenia prosegui, virtutes ornare, et ad excolendos animas excitare juventutem".

I successori di Ferdinando I non lasciarono lo stesso impegno per le lettere nonostante i torbidi tempi, ne' quali vissero e le continue guerre, dalle quali fu il regno agitato, e particolarmente Federigo, il quale ad esempio de' suoi [10] maggiori ebbe una famosa libreria della quale erano bibliotecari celebri Francesco Pucci (29) e Giovanni Albino (30), ed era questa in modo rispettabile, che in un Ordine diretto al Tesoriero generale del 1496 si legge: " Et perché fo anche promisso per voi per nostro ordine et dareli tanti libri quanti ascendono a la summa de duemila ducati de oro (somma in quei tempi di gran rilievo) da tenerso se in deposito per loro per tutto lo mese de dicembre proximo, nel quale non pagandose al predicto Collegio (cioè di cardinali) li dicti ducati duemila al complimento de cinquemila imprestati che avessero ad dividere per li Cardinali et favorirne loro voluntà però ve decimo, che li libri ve so stati assegnati ultimamente per abbate Albino li debiate dar con li poeti soprascritti et voi procurante con omne diligentia che al tempo sieno redimiti ad tale non se vengano ad perdere et divider non se per li Cardinali, non facendo lo contrario per quanto amate nostra gratia".

Ebbero anche cura i Monarchi Aragonesi di promuovere le belle Arti nel nostro Regno, come lo dimostrano diversi Edifizi per loro ordine eretti, Alfonso sin quasi da fondamenti ristorò od accrebbe il Castel nuovo di Napoli, fortificandolo [11] nella maniera più propria, e soda di quei tempi, dicendoci il Panormita (31) che "Arcem regiam, quam novam Napolitani vocant a fundamentis Alphonsus restituit, et ita demum novis operibus ampliavit, ut cum omni vetustate possit de magnificentia contendere" ed a tal uopo volle leggere le opere di Vitrurio, che gli furono date dal Panormita stesso (32), essendo stato Alfonso medesimo l'Architetto di tal'opera (33), sotto di lui, ed a suo onore fu eretto il magnifico Arco trionfale, che fu opera del celebre Pietro di martino Milanese, che fu tanto caro ad Alfonso, che dopo averlo largamente premiato, lo creò Cavaliere, il quale Arco ritrovasi dopo il ponte all'entrata del Castello suddetto, ed appresso a questo vedesi la porta di bronzo con bassorilievi nobilmente lavorata, che dinotano alcune azioni di Ferdinando I d'Aragona, e questa fu fatta col disegno di Giuliano da Majano, ed eseguita poi con sui modelli, e gittata dal celebre scultore di quei tempi Guglielmo Monaco, che vi scolpì il suo nome (34).Fè riedificare il nostro Episcopio, che era rovinato per i terremoti del 1456, riducendolo a miglior forma. [12]

Fiorirono anche sotto Alfonso, Andrea Ciccone, ed Agnolo Aniello Fiore, Scrittori, ed Architetti, ed i Pittori Colantonio del Fiore, Andrea Solario detto il Zingaro, Agnolo Franco, Agnolillo detto Voccaderame, e Silvestro Buono e sotto i suoi figli per tacer d'altri, Pietro, e Polito Damelli, che fra le altre cose dipinsero il palagio a Poggio Reale, ed il cenacolo di S. Maria la nuova, che fa onore a quei tempi.

Ma sotto Ferdinando I fiorirono Novello da S. Lucano, Gabriele d'Agnolo e Gio: Francesco Normanno, che ridussero l'architettura al buon uso, e proporzione degli antichi Greci, e Romani, come dimostrano varie opere da loro erette, qualcheduna delle quali ancor oggi vedesi (35), e fra gli Architetti militari Gaspare Ferrata, e mastro Antonio Marchese Fiorentino, che furono molto adoperati da Ferdinando, e da' suoi figli.

Ferdinando anche ampliò il ricinto della città, cingendola di mura di piperno, che cominciarono dalla Marina del Carmelo, e finivano fin dietro il convento di S. Gio: a Carbonara, che furon cominciate circa l'anno 1485, e terminate poi da [13] Alfonso II, suo figlio, che (36) molti altri edifici fece costruire, vivente ancora il padre, e particolarmente un sontuoso Palagio a Poggio Reale, con varie fontane, e gli ornamenti a Porta Capuana, servendosi di Giuliano da Maiano, che fu generosamente da lui in compensato (37). [14]

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(1) PANORMITA, Dicta et facta Alphonsus Regis, libro 2, § 61.

(2) PIO II, Descrizione dell'Europa tradotta da Fausto da Longiano, cap. 25.

(3) PANORMITA, libro 2, § 12.

(4) PANORMITA, libro 1, § 39.

(5) PANORMITA, libro II, § 60.

(6) PANORMITA, libro 2, § 15.

(7) PANORMITA, libro 1, § 12.

(8) PANORMITA, libro 2, § 61..

(9) PANORMITA, loc. cit.

(10) PANORMITA, libro 3, § 11.

(11) Quirini Diatr. Ad Epist. Fran. Barbari, p. 17.

(12) TIRABOSCHI, Storia Letteratura Italiana, tomo VI, parte 2°, f. 54, ed. Napoli.

(13) MURATORI, R (erum) I (talicarum), tomoXX, p. 67 e tomo XXV, p. 1.

(14) PONTANUS, De Liberalitate.

(15) PANORMITA, Libro 1, Pag. 5.

(16) ARCHIVIO DELLA CANCELLERIA, Privilegiorum dal 1452 al 1458, f. 163; Comune del 1463, fol. 103 a t, e 142 a t.

(17) MURATORI, R (erum) I (talicarum), tomo II, parte 2°, f. 769.

(18) TIRABOSCHI, tomo IV, parte 1°, p. 114.

(19) COLLENUCCIO, Istoria Napol. Libro VI.

(20) ANTONIO GALETEO, Epist. Hieronimum barbonem.

(21) SARNO, Vita Pontani.

(22) PANORMITA, libro 3, Epist. 45.

(23) GIUSTINIANI, Saggio sulla tipografia del Regno di Napoli.

(24) Partium X dal 1489 al 1490, f. 105.

(25) Partium X dal 1492 al 1493, f. 166.

(26) ARCH. CIV. COMUNE, Partium X dal 1465 al 1466, f. 132 a t, e 181 a t.

(27) Cun. VI dal 1482 al 1484, f. 139 a 1 e 142.

(28) TOPPI,De origine tribunalium, tomo III, p. 307.

(29) Comune dal 1498 al 1499, f. 133.

(30) Comune XVI dal 1496 al 1497, f. 2 a 1°.

(31) PANORMITA, libro 1, § 23.

(32) PANORMITA, libro 1, § 44.

(33) CELANO, Notizie di Napoli, giornata 5.

(34) DE DOMINICIS, Vite de' Pittori, Scultori, ed Architetti Napoletani, tomo I, pp. 206 ss.

(35) DE DOMINICIS, t. II, p. 69.

(36) SUMMONTE, Istoria di Napoli, libro 1, cap. VI.

(37) G. VASARI, Vite dei Pittori, tomo II, p. 203, ediz. Di Livorno del 1767.