De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Melchiorre Delfico e il decennio rivoluzionario

di Gabriele Carletti

In Il 1799 in Abruzzo. Atti del Convegno (Pescara-Chieti, 21-22 maggio 1999) a cura di Umberto Russo – Raffaele Colapietra – Paolo Muzi, L’Aquila, Edizioni Libreria Colacchi, 2001, vol. II, pp. 1155-1181

1.   1. La rivoluzione francese

La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani e per allontanarsi da quella Napoli governativa verso la quale aveva provato ultimamente "spesso ribrezzo" (1) per la sua ambiguità politica.

Durante il soggiorno egli ha modo di seguire con interesse sia il dibattito politico che si sviluppa in Francia prima della presa della Bastiglia, sia gli eventi rivoluzionari e l'attività dell'Assemblea Costituente che trovano ampia risonanza sui numerosi periodici e gazzette allora in circolazione (2). Vi è anzi motivo di credere che, oltre a seguire, egli guardasse con simpatia a quanto accadeva oltralpe (3).

La rapidità e la determinazione con cui si stava conducendo l'attacco contro l'Ancien Régime spingono Delfico a ritenere che gli avvenimenti di Francia possano servire - come scriveva Pietro Verri – "di modello agli altri popoli" (4). Egli è convinto che la rivoluzione francese favorisca il progetto riformatore e porti "finalmente a maturazione le questioni da tanto tempo sollevate e discusse" (5).

Tutt'altro che una minaccia dunque, come invece credono sin dal primo momento i governi, in particolare quello napoletano (6), "la Rivoluzione della Gallia", afferma Delfico, costituisce "un esempio favorevole per i Principi savj, che non devono aspettare gli eccessi de' disordini pubblici, ma ristabilire in tutti i rami dell'Amministrazione la Giustizia relativa ai diversi oggetti di essa" (7). L'estensione dell'ondata rivoluzionaria agli Stati italiani poteva essere evitata soltanto a condizione che i governi non avessero più indugiato ad adottare un'organica e radicale politica riformistica.

Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (8), Delfico si trasferisce a Napoli sia perché "dopo aver goduto e veduto tanto di buono" la vita di provincia, confida all'amico Fortis, gli sarebbe "insopportabile", sia, soprattutto, "per la patria che quanto più è tapina, tanto più ha bisogno degli uffizj di qualche anima che senta la commiserazione" (9) e fornisca lumi ad un governo che sempre più mostrava di trascurare le questioni della massima importanza.

Nel capoluogo partenopeo l'illuminista teramano pubblica nell'estate del 1790 le Riflessioni su la vendita dei feudi in cui, riprendendo alcune tesi esposte nella Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri del 1788 (10) e ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare con una foga, un vigore e degli argomenti che "nulla hanno da invidiare  - ha scritto Villani - alla chiarezza ed all'eloquenza del Filangieri" (11).

All'attività dell'Assemblea Costituente Delfico guarda con grande interesse, mostrando entusiasmo per il lavoro svolto e ottimismo per i provvedimenti da adottare. Egli stesso ne ammette esplicitamente l'influenza sul suo pensiero, nel 1791, a proposito del suo libro, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, dichiarando che esso è nato oltre che "dalle impressioni continue e continuamente ripetute della nostra Dispotica Anarchia", anche "da quelle che ci vengono da più lontana parte ed eccitano nell'animo salutari desiderj" (12).

Le Ricerche (13) rappresentano "la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano" (14), cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, "uguale ed uniforme per tutti gl'individui" (15), che a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente "all'indole delle nazioni e dei governi presenti" (16). Evidente, nel discorso generale e in quest'ultimo passaggio in particolare, la convinzione della impossibilità di correggere "parzialmente" i difetti della legislazione, senza cioè "una cura integrale" (17), in polemica con quanti credevano invece che bastasse "somministrare particolari riparazioni" o fosse sufficiente richiamare all'onestà e alla virtù coloro che proprio dal disordine e dal caos giuridico traevano i maggiori vantaggi e si mostravano per questo diffidenti o contrari verso ogni novità. La necessità di un codice tutto nuovo nasce anche dal carattere di inadeguatezza che qualsiasi codificazione inevitabilmente assume nel tempo, a conferma della coesistenza in Delfico, come in altri illuministi napoletani, di una componente relativistica, di stampo montesquiano, e di un'esigenza razionalistica (18).        Sull'esempio di quanto accadeva oltralpe, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione "che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento" (19). In altre parti dell'opera, l'esperienza dell'Assemblea Costituente influisce in modo ancor più diretto. Basti pensare al principio della divisione dei poteri che, respinto fino al 1790 viene ora accolto come principale e più sicuro rimedio contro il dispotismo (20). Manifesta è soprattutto l'esigenza di autonomia del potere legislativo di cui rivendica la legittima appartenenza al popolo: è "una verità fondamentale - scrive Delfico - che le leggi debbano essere l'emanazione della pubblica o della generale volontà", vale a dire "la vera espressione legittima del potere legislativo" (21). Ne consegue che, ogni qualvolta non siano emanate da questa autorità, esse non possono considerarsi tali perché non costituiscono "un atto del popolo" né tanto meno possono essere obbligatorie per i cittadini quelle leggi che nella loro formulazione abbiano avuto "più parte le opinioni private che la volontà generale" (22).

La lotta contro la vecchia società gerarchica e aristocratica e la difesa dei diritti non portano all'affermazione di una democrazia diretta di stampo roussoiano, ma di uno stato di tipo costituzionale e rappresentativo. Con Sieyès e contro Rousseau, Delfico ha modo di sottolineare che la "volontà pubblica" non è che "il risultato delle volontà particolari" (23). Il suo sistema politico si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.

Egli non si allontanò mai da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale. Alla politica illuminata del sovrano e ad una sua "certa sagacità ed attenzione" restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Di fronte al problema, assai discusso in Francia, della forma costituzionale da preferire, se erigersi in Repubblica o mantenere il Re "coll'assegnargli un Consiglio permanente", lo scrittore abruzzese si pronuncia a favore della seconda soluzione dichiarando di essere "stato sempre monarchico" e di ritenere la "vera Monarchia quella che ammette più diverse libertà" (24).

 

2. La crisi del riformismo

Nonostante tuttavia la sua predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa in Delfico un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento.

Un primo segnale di tale involuzione egli riscontra nel Concordato che i Reali di Napoli, al loro rientro da Vienna, hanno stipulato con la Santa Sede, nell'aprile del 1791, su iniziativa dello stesso Acton.

Emblematica è anche la crisi del ruolo del Consiglio delle Finanze, un tempo cassa di risonanza di molteplici proposte riformistiche. Nonostante il rimpasto ministeriale del 1791, con il quale spera, invano, di ottenere un posto di consigliere soprannumerario (25), alimenti in lui un cauto ottimismo sull'attività futura del Consiglio, non nasconde però una certa perplessità sulla sua effettiva capacità (volontà) di rimuovere le "cagioni fondamentali" (26) che ostacolano la realizzazione di un avvenire migliore.

A rafforzarlo in quest'idea sarà anche l'amico Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, che nei mesi successivi gli confiderà tutta la sua delusione di fronte alla eccessiva esitazione del Consiglio e del suo nuovo direttore, il marchese Giuseppe Palmieri, di adottare i provvedimenti necessari a tale scopo e di liberarsi definitamente di quei «quattro forensi» (27) che tenacemente continuavano ad opporsi ad ogni tentativo di riforma.

Deluso, Delfico decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso "scontentissimo" e in cui si accorge di quanto la "lentezza sciroccale" abbia contagiato perfino gli uomini migliori, diffondendo ovunque "un moto di desolazione" (28). Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano.

Nella lontana e tranquilla provincia Delfico lamenta subito la "tardanza" e la "scarsezza" delle notizie francesi (29), alle quali non riesce a supplire né con la lettura dell'«Analisi ragionata de' libri nuovi», il periodico napoletano che sebbene proiettato verso una "decisa opzione riformatrice saldamente ancorata alla monarchia assoluta" (30), aveva assunto sin dall'inizio un atteggiamento antifrancese, né con quella del veneziano «Nuovo Giornale enciclopedico d'Italia» che Fortis, il quale vi collabora, gli fa pervenire.

Alla fine del 1791, per il Teramano la Francia continua a rappresentare un polo d'attrazione, nonostante egli non nasconda una certa "trepidazione" di fronte ad "alcune trascuraggini" rilevate nella Costituzione, allo scioglimento dell'Assemblea Costituente, alla celerità di alcune risoluzioni, alla incompiuta riforma dell'Amministrazione e dell'organizzazione interna (31).

Oltre che per la situazione interna, sempre più cresce la sua apprensione per la politica estera della nazione francese, specie all'indomani della dichiarazione di guerra all'Austria, nell'aprile del '92. Da Napoli il duca di Cantalupo, sulla base di indiscrezioni di corte, gli conferma che l'Europa è "alla vigilia di grandi avvenimenti e tutti funesti all'Umanità" (32).

Più scettico e senz'altro più disilluso appare all'inizio del nuovo anno, dopo l'esecuzione di Luigi XVI e la dichiarazione di guerra della Francia all'Inghilterra e all'Olanda che avrebbe di lì a poco trascinato nella mischia anche il Regno di Napoli: Nei mesi successivi, la sua maggiore preoccupazione sarà data più che dagli sviluppi giacobini della rivoluzione francese, dalla politica repressiva del governo napoletano, a causa della quale sarà costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito ad alcune delazioni. Si legge nella lettera al Fortis del 7 novembre 1793: "Ti scrissi che de' malevoli di Napoli fra quali il Vescovo (33) in unione colla magistratura mi avevano formata la più estesa riputazione di giacobinismo. Si venne alla denuncia formale contro vari cittadini (…), ma la prudenza e l'innocenza della mia condotta non diede campo ad essere neppure occasionalmente nominato nell'inquisizione" (34).

È un periodo, questo, di grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico, avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nell'animo del Teramano. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno napoletano.

Completamente abbandonato è ogni riferimento alla Grande Nation. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da "tanti orrori".

La sfiducia del Teramano diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte "agitazione" (35). È l'epoca della scoperta della congiura giacobina (36) che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini che, contrariamente a quanto si è a lungo creduto in seguito all'interpretazione di Cuoco (37), tanto "pochi" e così tanto "inesperti" oggi sappiamo non erano (38). Coinvolto è pure l'amico e concittadino Odazi (39) che Delfico considera innocente e spera invano venga presto scagionato. Cresce l'insofferenza per la capitale, che si traduce anche in un abbandono degli interessi intellettuali (40), ed egli capisce che non è più tempo di "restare con chi ha assunto un dispotismo assoluto" (41).

Ciò nonostante, Delfico è ancora dalla parte del "buon Re", contro il "sedicente" Consiglio delle Finanze e quanti approfittano del disordine generale per "regolare le cose a loro piacere" (42). Dal Sovrano si reca per perorare (ancora una volta) gli interessi della sua provincia e per ottenere un beneficio personale (43), fatto, quest'ultimo, che evidenzia una certa contraddizione con alcune posizioni precedentemente assunte nella polemica antifeudale (44), anche se forse tale richiesta è un tentativo per fugare ogni dubbio sulla sua fede monarchica, di nuovo messa in discussione da un'ennesima denuncia anonima (45).

L'inizio del processo contro i rei di Stato segna, infine, il definitivo distacco da un mondo divenuto per lui "più che mai odioso", dove "tutto è orrore" e in cui non si può che "o lasciarsi opprimere o in altro modo più fatale soccombere" (46). Persuaso "che non è più tempo di promuovere certi oggetti, e che si fa anzi male" (47), anticipa la partenza dalla capitale e decide di non farvi più ritorno fino a quando non fosse avvenuto un "cangiamento di circostanze" che avesse ristabilito "l'ordine, la calma, la sicurezza e tutto ciò che può rendere aggradevole un soggiorno" (48), sconsigliando chiunque a recarvisi (49).

L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio "da regalista in giacobino" (50) o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'atteggiamento di assoluto isolamento che finisce per assumere di fronte alle forze politiche e sociali esistenti testimonia la rassegnata attesa di tempi e condizioni più favorevoli per una ripresa del processo riformatore solo momentaneamente interrotto.

Alla fine di ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava.

Nel capoluogo toscano, dove finalmente può tornare a condurre la sua vita preferita, fatta di frequentazioni  di ambienti e  uomini di  cultura e ricca di  sollecitazioni  e curiosità (52), egli sembra ritrovare la tranquillità necessaria per disporsi di nuovo favorevolmente nei confronti della vita e degli uomini. Ed è col "massimo dispiacere" che si allontana da Firenze, dolente di non potersi trattenere ulteriormente (53), ma felice di poter rincontrare a Pisa Giovanni Fantoni (54), non prima di aver riabbracciato a Livorno l'amico Micali in partenza per la Francia.

Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata napoleonica in Piemonte e in Lombardia (55). Ma non ne resta affatto sorpreso, forse perché a conoscenza della difficoltà che Francesi e Piemontesi avevano incontrato nel concludere un accordo prima dell'invasione.    

Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati (56). Ed è pertanto con sollievo che alla fine di luglio del 1796 vede allontanarsi il pericolo di un'incursione in Abruzzo, dato che i Francesi avevano del tutto evacuato la Romagna per far fronte all'offensiva austriaca condotta attraverso il Trentino (57). Ma poco importa il motivo, ciò che conta - scrive a Fortis - è che comunque "i Repubblicani non si rivolgeranno per ora da questa parte" (58).

Nella seconda metà del 1796 si riaccende nel Teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina. Ma ritiene necessario che si elabori una "nuova vera" Costituzione onde evitare che si verifichi il ripetersi di disordini (59), alludendo probabilmente a quelli generati dalla congiura degli eguali di Babeuf e da altri estremi tentativi insurrezionali. L'idea di una recrudescenza degli eccessi rivoluzionari lo atterrisce e, come Fortis, spera che "le male arti de' giacobini" (60) non abbiano il sopravvento. All'abate padovano confida di essere particolarmente interessato ai "nuovi metodi" e ai "progressi politici" della Francia e di sospirare il momento della pubblicazione del nuovo Codice di legislazione, manifestandogli, tra l'altro, all'inizio del 1797 il desiderio (mai realizzato) di compiere un viaggio transalpino (61).  

Ma se da un lato cresce l'entusiasmo per i progressi interni della Francia, dall'altro Delfico ne condanna la politica espansionistica, tanto da biasimare quanti in Italia continuano a riporre nell'occupazione francese le proprie illusioni rivoluzionarie: "Io compatisco quei luoghi - afferma – ne' quali si è danzato intorno all'albero della libertà, e dovranno ritornare allo stato antico" (62).

 

3. La Repubblica napoletana

Immutato è il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (63), non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre meno sopporta l'"incommodo" del continuo accantonamento in provincia di truppe regie e la "sospettosa curiosità" (64) delle autorità verso ogni forma di corrispondenza. Dalla gelosia dei suoi nemici dovrà guardarsi soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per una nuova infondata accusa di giacobinismo costruita ai suoi danni.

Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre successivo sarà tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (65). Liberato l'11 dicembre 1798 dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (66), è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo, per poi essere chiamato, il 12 gennaio 1799, a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (67), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.

Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto "piena e convinta" (68), vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Non crediamo invece che tale partecipazione  segni  il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (69). Egli non tiene presente, infatti, quello che può definirsi il momento "eroico" della rivoluzione francese, le idee e la prassi dei jacobins, che Saitta ha identificato "con il modello e il momento robespierrista" (70); né l'esperienza provoca quella vera e propria "lacerazione" e "rottura" nella sua biografia intellettuale che Galasso ha riscontrato invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (71). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (72) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi.

Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana (73), sancisce, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministra-zione  gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la "prontezza" e "l'imparzialità" dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venga provata la "frode" del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.

Sono questi i tratti salienti del provvedimento con il quale Delfico, che ne è l'ispiratore, mira a ristabilire quella "pubblica tranquillità" e quella "sicurezza", necessarie per il raggiungimento della "felicità dell'uomo sociale" (74), perseguibile attraverso buone leggi ed un saggio governo, la cui "bontà", tuttavia, è determinata più che dalla forma, dalla linea politica adottata. Ciò induce l'Autore a non riconoscersi a priori in un governo precostituito, bensì solo in quello la cui manovra politica non si riveli inconciliabile con le sue aspirazioni di rinnovamento sociale.

La collaborazione con i Francesi, tutt'altro che imposta o fittizia, si rivela sin dall'inizio libera e attiva (75), non solo per motivi di prestigio o perché la loro presenza pone fine ad una incresciosa vicenda personale, quanto soprattutto perché sembra fornire l'occasione per imprimere una svolta politica nel Napoletano. Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio (76) a cui muove l'accusa di aver non solo "abbandonato" ma addirittura "obliato" le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero "le più ferali tragedie" ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (77).

Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario (78), una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (79). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti dell'89, del '93 e del '95, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ritiene la legge l'espressione della volontà generale e afferma, in linea con quanto sostenuto anche nel Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia, la responsabilità dei funzionari pubblici. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.

Il 28 aprile 1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino (80). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.

 

4. La riflessione sul decennio

Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla "tempestosa crisi" di fine secolo di cui, come Francesco Lomonaco (81), Giuseppe Maria Arrighi (82) e soprattutto Vincenzo Cuoco, con il quale è in contatto (83), critica l'"immatura ed intempestiva" manifestazione (84), come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto "distruttivo". La confusione dei principî, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli fecero nascere delle idee politiche così "mostruose" che per i loro intrinseci difetti non poterono a lungo sopravvivere.

Fu la Francia, afferma, a far "sorgere dei canoni politici falsi e irregolari. Si disse - presto e male - e forse questo fu giusto nella loro situazione; ma quando non è dettato dalle circostanze, è una misura contraria al fine" (85). Alla condanna dell'astrattezza dei "dogmi dei politici novatori" segue il rifiuto di derivazione montesquiana del loro "portentoso progetto di estendere questa forma di civile associazione su tutto l'universo" e di voler applicare a tutti i popoli e a tutti gli stati "le leggi di questa politica cosmogonia" (86). Per quanto riguarda  l'Italia, "abbagliata ed attonita non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia" (87)Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: "Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti" (88). A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e "gli esempli recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità, alla sua felicità" (89).

La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve in definitiva più che in un "politico scetticismo", nella ricerca di una linea politica "saggia" e realistica, che non miri alle "magiche trasformazioni" ma proceda per "proporzionate graduazioni" alla realizzazione di un programma costituzionale (antifeudale e anticuriale), "cui è lecito di aspirare" (90). Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana (91), nei "governi umani", di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, "mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società" (92).

Non sembra che negli anni successivi Delfico sia più ritornato sugli avvenimenti del 1799, mentre ha lasciato alcuni appunti sulla rivoluzione francese che recano come intestazione Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione (93). In essi l'Autore distingue il valore politico dal valore storico della rivoluzione dell'89. Sul piano politico, scrive, "la Rivoluzione non ha dato alcuna nuova verità o teoria politica" (94). Sul piano storico, invece, la rivoluzione di Francia ha assunto per l'umanità un significato di grande rilievo per una serie di cambiamenti introdotti nella politica, nella morale, nell'istruzione e nella religione. Per quanto riguarda più specificamente la politica, l'idea più importante "è risultata la preferenza per l'abolizione dell'Aristocrazia e per lo stabilimento del sistema rappresentativo" (95). Sebbene l'istituto della rappresentanza non fosse del tutto nuovo ai popoli, la rivoluzione francese ha mostrato che "la facoltà di far le leggi appartiene al corpo della Nazione" e che pertanto mentre "prima la formazione delle leggi era seguita da qualche magistratura suprema sotto l'indicazione sovrana o ministeriale, ora, anche dove non vi è rappresentanza, i progetti di legge si appongono all'esame di qualche Consiglio di natura differente dal giudiziario" (96). Queste idee sono divenute così generali da appartenere ormai allo spirito del secolo.

L'esperienza quasi decennale nell'amministrazione francese porterà lo scrittore teramano ad individuare nel moderatismo uno spazio praticabile tra la conservazione e la rivoluzione e lo persuaderà che in politica i veri cambiamenti si realizzano gradualmente, attraverso piccole trasformazioni, mentre "i grandi fenomeni sono sempre distruttori" (97). Concetto questo che Delfico ribadirà nel 1835 quando rimprovererà alla rivoluzione di Francia di aver preteso tutto "troppo presto" al punto che il moto rivoluzionario finì per volgere "altrove gli sguardi della umanità e della ragione". Ed egli "si arrestò nell'aspettativa di tempi migliori" (98).

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(1) Lettera di Delfico a Fortis del 16 settembre 1788, da Teramo, conservata presso la Biblioteca Governativa di San Marino, SM-M76 1, n. 78.

(2) Si veda M. Cuaz, "Le nuove strepitose di Francia": l'immagine della rivoluzione francese nella stampa periodica italiana (1787-1791), in «Rivista storica italiana», a. C (1988), fasc. III, p. 469 sgg.

(3) Cfr. la lettera di Spannocchi a Delfico del 7 agosto 1789 da Milano, in Opere complete di Melchiorre Delfico, vol. IV, Fabbri, Teramo 1904, p. 145. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini.

(4) P. Verri, Alcuni pensieri sulla rivoluzione accaduta in Francia, pubblicati in C. Morandi, Pietro Verri e la Rivoluzione francese, in «Archivio storico lombardo», a. LV (1928), fasc. IV, p. 536.

(5) F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli 1962, p. 1173.

(6) Le prime reazioni della corte napoletana colpirono soprattutto le fonti d'informazione. "Sin dall'agosto il governo fece sopprimere l'articolo riguardante le notizie di Francia nella ristampa napoletana della «Gazzetta universale» di Firenze. La sorveglianza sui libri e le stampe che si potevano introdurre nel Regno e sui discorsi che si facevano in pubblico intorno alle cause e ai progressi della rivoluzione fu intensificata nei mesi seguenti. Nell'ottobre venne ordinato di intercettare le corrispondenze sospette e si vietò ogni riunione segreta delle logge dei Liberi Muratori; il 15 dicembre 1789 venne proibita ‘nel modo più rigoroso' l'introduzione dell'opuscolo dell'abate Mably, Dei diritti e dei doveri del cittadino" (M. Cuaz, "Le nuove strepitose di Francia", cit., p. 484). Sull'atteggiamento del governo napoletano verso gli stranieri, cfr. la Correspondance inédite de Marie Caroline reine de Naples et de Sicile, avec le marquis de Gallo publiée et annotée par M.H. Weil et C. Di Somma Circello, Emile Paul, Paris 1911. Per un'analisi della stampa partenopea all'indomani dei fatti dell'89, cfr. a. M. Rao, La Rivoluzione francese nella stampa periodica napoletana, in «Prospettive Settanta», a. XI (1989), n. 1-2,  pp. 44-61.

(7) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Ined., n. 402.

(8) In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836, p. 25 sgg.

(9) Lettera del 26 dicembre 1789, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, p. 300.

(10) Introvabile fino a pochi anni addietro, la Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri è stata pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'"amaro della feudalità". La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ‘700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-67.

(11) P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Laterza, Bari 1973, p. 177. Radicale sul piano della formulazione teorica, il discorso delficino non lo sarebbe tuttavia altrettanto su quello pratico poiché dalle premesse l'Autore non fa conseguire, come è logico, l'abolizione della feudalità ma "soltanto deduzioni più limitate" in quanto prevede la vendita in allodio dei soli feudi devoluti e non di tutti i feudi in assoluto (ivi, pp. 178-9). Per una diversa lettura cfr. a. M. Rao, L'"amaro della feudalità", cit., p. 67.

(12) Lettera ai fratelli da Napoli del 25 giugno 1791, in  Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Ep., n. 281.

(13) L'opera, che provocò subito "molto chiasso", sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata in "edizione numerosa" a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815.

(14) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte II,  p. 432. Sullo sviluppo in Italia nella seconda metà del Settecento di una letteratura critica della legislazione romana, cfr. R. Bonini, Crisi del diritto romano, consolidazioni e codificazioni nel Settecento europeo, Pàtron, Bologna 1988, in cui viene analizzata anche la posizione  di Delfico (pp. 145-67).

(15) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, p. 225.

(16) Ivi, p. 105.

(17) Ivi, p. 100. Cfr., in proposito,  A. De Martino, Tra legislatori e interpreti. Saggio di storia delle idee giuridiche in Italia meridionale, Jovene, Napoli 1975, p. 97.

(18) Sulla coesistenza di una componente razionalistica e di una relativistica, cfr. S. Armellini, Le due "anime" dell'illuminismo giuridico e politico italiano, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», a. LV (1978), n. 2, pp. 253-93, ora in Libertà e organizzazione. Il riformismo di Carlantonio Pilati, Jaca Book, Milano 1991, pp. 13-55. Per una ricognizione critica degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storica critica della storiografia delficina, in «Trimestre», a. XX (1987), nn. 1-2, pp. 5-40.

(19) C. Ghisalberti, Le costituzioni "giacobine" (1796-1799), Giuffrè, Milano 1957, p. 43. Cfr., in proposito, alcuni appunti delficini, dal titolo redazionale Idee per una costituzione, pubblicati da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, pp. 126-30.

(20) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, cit., pp. 167, 168, 174  e 190.

(21) Ivi, p. 117.

(22) Ivi, pp. 168, 183 e 189.

(23) Ivi, p. 157.

(24) Lettera ai fratelli da Napoli,  30 luglio 1791, in Archivio di Stato di Teramo, "Fondo Delfico", b. 24, fasc. 453c, n. 8.

(25) Ai fratelli, che attribuivano la sua esclusione al carattere antifeudale dei suoi scritti, spiegava il 24 settembre 1791: "Non vorrei che pensaste che le due operette dell'anno passato e di questo m'abbino potuto far male. Le avrei sicuramente fatte, ancorché questo fosse stato sicuro, e che avessero d'altronde potuto produrre qualche pubblico bene; ma sono sicurissimo che la rabbia baronale e la forense sono state affatto impotenti, e potrei dir anche vantaggiose" (in G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 102, nota 44). Infatti, all'inizio dell'estate aveva rifiutato un incarico ministeriale: "Il Governo - confidava a Fortis - ha tentato ritenermi con favorevole offerta che io ho creduto dover rinunciare e non l'ho fatto sapere agli amici, che mi avrebbero dato del matto mille volte: non sono però ancora fuori del pericolo, e mi fermeranno certamente se mi daranno ciocché mi può convenire, e che io solo credo dover desiderare. Forse non sarà, ed io resterò tranquillo, libero ed indifferente" (lettera da Napoli del 12 luglio 1791, in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 127). Si trattava, con ogni probabilità, di un posto nel ministero togato come risulta da una successiva lettera a Fortis dell'8 novembre 1791, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 308.

(26) Lettera di Delfico a Fortis, Napoli 13 settembre 1791, in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 124.

(27) Lettera di Domenico Di Gennaro a Delfico del 1° febbraio 1792, in Archivio di Stato di Teramo, b. 20, fasc. 281, n. 3. Cfr. anche la lettera del 23 dicembre 1791 (ivi, n. 2). Amareggiato il duca gli scriverà l'11 novembre 1792: "Caro amico se la nostra Costituzione tutta forense, e litigiosa, e per la quale va tutto a colare il denajo nazionale nella borsa dei Paglietti supremi, medii, ed infimi, non si cangia, e non se ne forma altra veramente politica, e statistica, si starà sempre male, nulla mai otterremo di buono, e ci stropicciaremo il cervello a scrivere e declamare inutilmente" (ivi, n. 6).

(28) Cfr. la lettera di Delfico ad Amaduzzi da Napoli del 29 novembre 1791, in Biblioteca Accademica dei Filopatridi di Savignano, Cod. n. 14, Camera I - III - 3/14, n. 52.

(29) Cfr. la lettera a Fortis da Teramo del 30 gennaio 1792, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 391-2.

(30) a. M. Rao, Note sulla stampa periodica napoletana alla fine del '700, in «Prospettive Settanta», a. X (1988), n. 2-3-4, p. 342.

(31) Cfr. la lettera a Fortis da Teramo del 30 gennaio 1792, cit.

(32) Lettera del 21 febbraio 1792, in Archivio di Stato di Teramo, b. 20, fasc. 281, n. 4.

(33) Si tratta di Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Sul periodo teramano del prelato, cfr. N. Palma, Storia della città e diocesi di Teramo, vol. III (1833), Cassa di risparmio della provincia di Teramo, Teramo 1980, pp. 487-509. In una breve memoria, probabilmente del 1797-98, Delfico dà giudizi severi e sferzanti sul Pirelli: "Il Vescovo di Teramo ha la disgrazia di aver un carattere inclinato alla maleficenza. Tutta la sua vita ne sarebbe una pruova; né si può coprire col manto dello zelo religioso, poiché com'è stato inteso a perseguitare la gente di garbo ed onesta così si è fatto un pregio di proteggere le persone spregevoli e di pessimo talento (…). Tutto il paese sa come ha perseguitato alcune persone di lettere benché fossero della più illibata condotta. (…) Per mettersi al coverto di ricorsi, che si potevano fare al Sovrano contro la di lui irregolare condotta, come il lupo della favola, prese il manto dell'agnello attaccando con relazioni e con denuncie di mano aliena la religione e la fedeltà de' Cittadini, accusandoli d'irreligiosità e di massime ed azioni contrarie al governo. Le più orribili calunnie non furono risparmiate, ma la Sovrana intelligenza e giustizia non ne restarono ingannati". E conclude: "Da tutto ciò si rileva che il Vescovo di Teramo è un vero spirito malefico, e che il piacere di maleficare e dominare a torto o a dritto fanno il suo gusto ed il suo carattere deciso" (Memoria delficina, in Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Ined., n. 411, ora in V. Clemente, Introduzione a Una cronaca teramana (1798-1814), in "Storia e Civiltà", a. IX (1993), n. 3-4, pp. 266-7).

(34) In M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3,  pp. 415-6. Da Napoli, il 7 dicembre 1793, il consigliere Codronchi comunica a Delfico l'esistenza di una nuova denuncia anonima nei suoi confronti affinché "possa produrre i suoi discarichi e dileguare qualunque dubbio potesse insorgere lesivo della Sua opinione" (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 452). Nella Relazione risponsiva alle accuse, inviata da Teramo il 18 dicembre 1793 a Nicola  Codronchi (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), il Teramano non nasconde il suo "rammarico ed una specie di umiliazione" a dover difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di "vaghe" e "calunniose imputazioni" di qualche delatore, pur essendo stato sempre "un buon servitor del Re ed un onesto e meritevole cittadino" (ivi, p. 86). La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riesce tuttavia ad impedire che Delfico succeda al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo.

(35) Lettera di Melchiorre al fratello Giamberardino del 12 aprile 1794, da Napoli, in Archivio di Stato di Teramo, b. 24, fasc. 453c, n. 11.

(36) Per una ricostruzione di quegli avvenimenti si veda lo studio di A. Simioni, La congiura giacobina del 1794 a Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXXIX (1914), fasc. II, pp. 299-366; fasc. III, pp. 495-535 e fasc. IV, pp. 788-808. Sul programma politico dei congiurati, cfr. M. Battaglini, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 18-39.

(37) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con aggiunte dell'autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, pp. 37-8.

(38) Cfr. T. Pedìo, La congiura giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, Levante, Bari 1986, il quale attraverso la pubblicazione dell'inedito "Fatto fiscale", contenente l'accusa a carico dei congiurati del '94, dimostra, contro la tesi del Cuoco, del Colletta, del Rodinò e di altri, l'esistenza a Napoli, in quegli anni, di un "vasto movimento rivoluzionario" che dalla capitale si estendeva alle province.

(39) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-67.

(40) "Fra le occupazioni, le noje, i dispiaceri, e il mal di capo non ti dee far meraviglia - confessa a Fortis - che io non mi sono rivolto a cercar della letteratura del paese. L'Analisi ragionata ed insensata è il solo giornale che io conosco e non leggo" (lettera del 23 settembre 1794, da Napoli, in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 163). L'«Analisi ragionata de' libri nuovi» aveva interrotto la pubblicazione nel 1793. Difficile quindi stabilire se Delfico si riferisse al «Giornale letterario di Napoli per servire di continuazione all'Analisi ragionata» o alle «Effemeridi enciclopediche per servire di continuazione all'Analisi ragionata», che costituirono entrambi, al di là delle differenze, la prosecuzione della precedente rivista. Non è da escludere neppure che egli alludesse a tutti e due i periodici, dal momento che avevano assunto nel corso del '94 una linea chiaramente reazionaria, in difesa dell'oltranzismo cattolico  svolgendo, soprattutto le «Effemeridi», un'aperta propaganda controrivoluzionaria, il che spiegherebbe perché il Teramano avesse definito "insensata" la rivista. Cfr., in proposito,  a. M. Rao, Napoli e la Rivoluzione (1789-1794), in «Prospettive Settanta», a. VII (1985), n. 3-4, pp. 474-6.

(41) Lettera da Napoli al fratello Giamberardino del 2 agosto 1794, in Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Misc.4, n. 934.

(42) Ibidem.

(43) Si tratta della richiesta del titolo di conte di Giulianova e della concessione di "alcuni beni di poco profitto" per l'erario, come ricompensa dei "dispendj sofferti" e dei "servigj" resi gratuitamente alla Corona. Cfr. il Carteggio per ottenere il titolo di Conte di Giulia e benefondi annessi, del 1794, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 492-502.

(44) Cfr. C. Petraccone, Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXI (1982), p. 208 sgg.

(45) Nel 1794  una nuova denuncia anonima è all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. "Molto più mi duole - scrive amareggiato ad Acton il 19 luglio 1794 - di essere stato e prima e nuovamente in questa occasione attaccato nel Supremo Consiglio dal dente dell'invidia, da un calunnioso ed anonimo delatore. (…) Se l'aver passata la mia vita in travagliare per la gloria del Sovrano e per la pubblica beneficenza non basta per assicurarmi da una ostinata ed efficace persecuzione, non mi rimarrebbe altro che condannar me stesso alla volontaria pena dell'ostracismo" (Carteggio per ottenere il titolo di Conte di Giulia e benefondi annessi, cit., p. 500). Egli non otterrà il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat gli conferirà quello di barone (Archivio di Stato di Teramo, b. 19, fasc. 231).

(46) Lettera a Giamberardino, da Napoli, del 13 settembre 1794, in Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Ep., n. 283.

(47) Lettera a Fortis del 23 settembre '94, cit.

(48) Lettera a Fortis, da Napoli, del 14 ottobre 1794, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 464 e lettera a Fortis, da Teramo, del 4 novembre 1794, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico cit., p. 417.

(49) "Nello stato attuale delle cose, - scrive Delfico a Fortis - in cui si fanno nascere sospetti senz'alcun principio governativo, crederei che ora dovessi sospendere il pensiero di quel viaggio che mi accennavi. La nazione è piena di malvagi gratuiti e spontanei, e naturali e costanti nemici del merito e della virtù. (…) È contro cuore che io ti fo queste riflessioni, ma par che avrebbe torto chi lasciasse un mare tranquillo per andare fra le tempeste" (lettera del 9 marzo 1795, da Teramo, in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 150). Ma subito si pentirà di "quegl'insoliti pensieri" dettati da "un momento di malumore" e pregherà l'amico di raggiungerlo senza alcun indugio. Cfr. la lettera del 28 aprile 1795 (ivi, n. 177).

(50) Cfr. B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, p. 24.

(51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46.

(52) Cfr. la lettera di Delfico a Luigi Angiolini da Firenze dell'8 dicembre 1795, in Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, Busta I, plico II, n. 32885.

(53) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini  del 26 dicembre 1795, in Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, cit.

(54) Giovanni Fantoni (1755-1807), poeta e studioso di classici latini, soprattutto di Orazio, nel 1776 entrò in Arcadia col nome di Labindo. Negli anni successivi alla rivoluzione francese aderì al giacobinismo, svolgendo nel triennio rivoluzionario un'intensa attività politica, per la quale fu nel 1799 arrestato e costretto all'esilio a Grenoble.  Fantoni conobbe e si legò a Delfico durante il suo soggiorno a Napoli nel 1785-88, dividendo con lui numerose amicizie tra cui quelle con Filangieri, Micali e Fortis. Cfr. G. Fantoni (Labindo), Epistolario (1760-1807), a cura di P. Melo, Bulzoni, Roma 1992, pp. 184-6, 513-4, 520-3, 663. Sul giacobinismo del Lunigiano si veda, da ultimo,  A. Andreatta, La virtù al potere. Aspetti del pensiero politico di Fantoni, in «Trimestre», a. XXII (1989), n. 2-4, pp. 59-94; L. Rossi, Un giacobino ormai in azione: Giovanni Fantoni, in Mazzini e la Rivoluzione napoletana del 1799. Ricerche sull'Italia giacobina, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1995, pp. 41-88, il quale pubblica diciassette lettere di Bartolomeo Boccardi a Fantoni (dicembre 1793-febbraio 1796), molte delle quali da Parigi.

(55) Il 28 aprile 1796 l'armistizio di Cherasco segnò la resa dei Piemontesi ai Francesi, i quali si diressero nei giorni successivi in Lombardia, giungendo a Piacenza e quindi, dopo aver battuto a Lodi gli Austriaci, a Milano dove Napoleone Bonaparte fece il suo ingresso trionfale il 15 maggio.

(56) "Chi sa quanti belli quadri e statue costerà a Roma la pace!" si chiede con ironia Delfico alla vigilia dell'occupazione napoleonica delle legazioni pontificie (cfr. la lettera ad Angiolini del 5 giugno 1796, in Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, cit.).

(57) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 26 luglio 1796, in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 169. Come è noto, alla fine di luglio 1796 Napoleone Bonaparte concentrò le sue divisioni lungo una linea che dalle valli bresciane andava sino al basso Adige. Iniziava così la seconda fase della campagna d'Italia che si protrasse fino al febbraio successivo e che registrò importanti vittorie del generale francese a Castiglione (30 luglio - 5 agosto) a Bassano (2-8 settembre) ad Arcole (14-17 novembre) e a Rivoli (13-16 gennaio 1797), cui seguì infine la resa di Mantova con la quale i Francesi si assicurarono il dominio dell'Italia settentrionale.

(58) Lettera di Delfico a Fortis del 2 agosto 1796, in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 76, parzialmente pubblicata da V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p 472.

(59) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 20 dicembre (1796), in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 174.

(60) Cfr. la lettera di Fortis a Giuseppe Toaldo del 20 marzo 1797 da Parigi, in Illuministi italiani, t. VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli 1965,  pp. 389-90.

(61) Si veda la lettera del 9 gennaio 1797 da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., p. 419.

(62) Lettera  a Fortis  datata Teramo, 7 marzo 1797, in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 172.

(63) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.

(64) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini del 15 agosto 1797, in Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, cit.

(65) Il pretesto è fornito da alcune lettere "rivoluzionarie" sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da Giamberardino "allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni". Avvenuta la restaurazione borbonica, egli fu infatti condannato dai Regi inquisitori nel processo contro "i rei di Stato" e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia. Ritornato in libertà in seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801 (cfr. Archivio di Stato di Teramo, "Reali Dispacci", b. 24, vol. 84, pp. 452-3) ottenne il dissequestro dei beni l'11 luglio dello stesso anno (cfr. Archivio di Stato di Teramo, "Fondo Delfico", b. 27, fasc. 597). Con ogni probabilità quindi la Memoria è collocabile tra il maggio e il luglio del 1801. Il testo è stato pubblicato da Vincenzo Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-85 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p. 375 sgg.

(66) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messi in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Cfr., inoltre, V. Moscardi, L'invasione francese nell'Abruzzo teramano nel 1798-99, in «Bollettino della Società di storia patria», L'Aquila, a. XII (1900), pp. 125-49.

(67) Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. G. Carletti, La "Pescara" di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999, pp. 5-22. Spunti critici anche in F.  Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in "Trimestre", a. XX (1987), nn. 1-2, pp. 41-69;  M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una Repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 3-18, ora, con alcune integrazioni, in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 171-98

(68) C. Petraccone, Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXI (1982), p. 205.

(69) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.

(70) A. Saitta, Giacobini italiani, in «Cultura moderna», n. 26, giugno 1956, p. 6. Cfr. inoltre D. Cantimori (a cura di), Giacobini italiani, vol. I, Laterza, Bari 1956, p. 412. Sull'argomento cfr. da ultimo Il giacobinismo italiano nella storiografia, saggio introduttivo di Francesco Perfetti al volume di R. De Felice, Il triennio giacobino in Italia (1796-1799), Bonacci, Roma 1990, pp. 7-56. Spunti critici anche in Il mondo contemporaneo, vol. XI: Il modello politico giacobino e le rivoluzioni, a cura di N. Tranfaglia e M.L. Salvadori, La Nuova Italia, Firenze 1984, in particolare i saggi di Stefano Nutini, Claudia Petraccone e Salvo Mastellone.

(71) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 519  sgg.

(72) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-9. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799) con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-2). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La "Pescara" di Melchiorre Delfico, cit., pp. 51-5 e 57-8

(73) Per una ricostruzione dell'organizzazione giudiziaria napoletana cfr. a. M. Rao, L'ordinamento e l'attività della Repubblica napoletana del 1799, in «Archivio storico per le province napoletane», s. III, a. XII (1974), pp. 73-145;  M. Battaglini, L'amministrazione della giustizia nella Repubblica napoletana, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXII (1985), fasc. II, pp. 147-70, ora, con alcune integrazioni, in Napoli tra monarchia e repubblica, Edizioni AMAL, Roma 1996, pp. 150-78.

(74) M. Delfico, Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia, cit., p. 51.

(75) Inattendibile è la tesi sostenuta nella Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799 di una scelta obbligata del Teramano, che sarebbe venuto a trovarsi "nella dura necessità di ubbidire per non mettere in pericolo e vita, e sostanze, ed anche l'intera Città di lui Padria" (cit., p. 45), non solo perché la Memoria, contrariamente a quanto si è creduto, non è autografa di Melchiorre Delfico, ma soprattutto perché lo scritto, come è stato ricordato, ha una funzione puramente strumentale. Sull'impegno profuso da Delfico durante l'esperienza repubblicana cfr. la lettera che  invia a Fortis da Teramo il 30 germinale a. I della Repubblica napoletana (19 aprile 1799), in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 112-3.

(76) Sul dibattito che si sviluppa a Napoli sull'eversione della feudalità e sul tipo di Costituzione da dare alla nuova Repubblica, cfr. G. Galasso, La legge feudale napoletana del 1799, in «Rivista storica italiana», a. LXXVI (1964), fasc. II, pp. 507-29, ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., pp. 633-60. Sulla fiducia che il triennio giacobino potesse generare un momento di grande partecipazione politica, cfr. E. Pii, La ricerca di un modello politico durante il triennio rivoluzionario (1796-99), in Modelli nella storia del pensiero politico, vol. II, La rivoluzione francese e i modelli politici, a cura di V.I. Comparato, Olschki, Firenze 1989, p. 279 sgg.

(77) Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, pp. 695-6. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli 1995. Per una diversa valutazione dell'atteggiamento di Delfico durante l'invasione francese, cfr. L. Polacchi, Da Melchiorre Delfico a Clemente De Caesaris. Storia politica e letteraria del Risorgimento in Abruzzo sulla base della fortezza di Pescara 1798-1860, Tip. Stea, Urbino 1960, pp. 44, 55 e 102; G. Incarnato, Le "illusioni del progresso" nella società Napoletana di fine Settecento, vol. II, Tra rigori modernizzatori e aspettative di assistenza, Loffredo, Napoli 1993, pp. 196-7.

(78) Cfr. C. Ghisalberti, Le costituzioni "giacobine", cit., pp. 209-15.

(79) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, cit., pp. 138-9.

(80) Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935.

(81) Cfr. F. Lomonaco, Analisi della sensibilità, delle sue leggi e delle sue diverse modificazioni considerate relativamente alla morale e alla politica (1801), in Opere, Ruggia, Lugano 1834, vol. V, p. 103 sgg. Successivamente l'Autore pubblicherà i Discorsi letterarj e filosofici, Silvestri, Milano 1809 in cui difenderà la monarchia come la migliore forma di governo, immaginando di rivolgersi ad alcuni protagonisti della Repubblica napoletana, tra i quali Galdi, Russo, Cuoco e "l'incomparabile" Delfico. Quest'ultimo verrà ricordato nel cap. III, Dello spirito d'imitazione (pp. 81-109), in cui Lomonaco si scaglierà contro le "tragicomiche scene rappresentate da giacobini" italiani per aver voluto seguire pedissequamente i Francesi nonostante questi avessero vissuto realtà ed esperienze completamente diverse dalle loro. Robespierre, scrive, "elevò insensatamente il grido: democrazia universale; e mezza Europa più insensatamente ripeté: democrazia universale. In mezzo all'eclissi dell'umana ragione chi ponderò lo stato fisico, economico, morale e politico del suo paese? (…). Tutti riputandosi solenni politici, leggevano, rileggevano e tornavano a leggere la stravaganza di Rousseau, l'homme est né libre. Nessuno studiava Aristotele il quale sentenziò, che alcuni sono fatti per comandare, altri per ubbidire (…). Nessuno aveva digerita la massima di Machiavelli, che quando uno stato è corrotto, bisogna che una mano regia tenga a freno gli scapestrati cittadini (…). L'anarchia delle idee produsse l'anarchia delle passioni, l'anarchia delle passioni quella dei costumi, più tremenda dell'anarchia delle leggi" (pp. 96-8).

(82) Cfr. G.M. Arrighi, Saggio storico per servire di studio alle rivoluzioni politiche e civili del Regno di Napoli, t. III, Stamp. del Corriere, Napoli 1813, pp. 211-21. I primi due tomi uscirono sempre a Napoli nel 1809.

(83) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, seconda edizione con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 96 sgg. I due s'incontreranno a Milano nel 1804, in occasione della pubblicazione delle Memorie storiche di San Marino. Per un confronto tra Delfico e Cuoco, cfr. F. Tessitore, Da Cuoco a De Sanctis. Studi sulla filosofia napoletana nel primo Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1988, pp. 12-24; P. Viola, Delfico, Cuoco e la libertà antica e moderna, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie III, vol. XVIII (1988), 2, pp. 589-97.

(84) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp. 249-50.

(85) Foglio di appunti inedito (Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Misc. 2, n. 625).

(86) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.

(87) Ivi, p. 472.

(88) Ibidem.

(89) Foglio di appunti di Delfico pubblicato da A. Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un "celebre" concorso (1796), vol. I, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1964, p. XXV, la cui stesura più che al 1796 risale probabilmente al periodo sammarinese per una sua certa affinità con alcuni concetti espressi nelle Memorie storiche.

(90) M. Delfico, Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima (1814), in Opere complete, cit., vol. III, p. 511.

(91) Cfr. G. Vico, Principj di Scienza nuova (17443), in Opere a cura di F. Nicolini, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, lib. IV, p. 772.

(92) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.

(93) Il testo è stato pubblicato da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, pp. 111-2.

(94) Ivi, p. 111.

(95) Ivi, p. 112.

(96) Ibidem.

(97) Ivi, p. 111.

(98) Lettera di Delfico a Neroni, s.d. (ma Teramo 1835), in Archivio di Stato di Teramo, b. 24, fasc. 464, n. 1. Pubblicata in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 126-28, e assegnata inspiegabilmente dai curatori al 24 aprile 1835, la lettera è la prima di tre in cui Delfico discorre degli "Stabilimenti di Beneficenza".