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        Con la conclusione del restauro, rientrano nel Palazzo Delfico, da cui 
        erano usciti per generosa donazione del suo antico proprietario, i molti 
        libri che tra l'Otto e il Novecento hanno dato vita all'attuale 
        Biblioteca provinciale di Teramo. Una biblioteca che, con il suo ingente 
        patrimonio documentario e bibliografico, costituisce una delle risorse 
        più importanti e uno dei punti di riferimento culturale più consistenti 
        della società italiana meridionale. 
        
        L'avvenimento ci consente di lumeggiare un'attività significativa e per 
        certi aspetti affascinante della poliedrica personalità di Melchiorre 
        Delfico, non ancora studiata come si dovrebbe e come si sarebbe dovuto 
        nonostante i periodici e, a volte, perentori suggerimenti da parte degli 
        studiosi italiani e stranieri. 
        
        Melchiorre Delfico, oltre ad essere stato uno statista, uno storico, un 
        filosofo ed un riformatore illuminato, fu collezionista di libri antichi 
        e di monete romane e preromane assai apprezzato nel suo tempo. 
        
        "Malgrado la ricchezza degli studi su Delfico, sul suo pensiero e 
        sulla sua attività riformatrice, non molto si conosce – ha notato 
        recentemente e giustamente Anna Maria Rao nel volume collettaneo in 
        onore di Mario Agrimi – del Delfico collezionista e ancor meno della 
        sua opera di mediazione nel mercato antiquario"(cfr.a. M.Rao, Fra 
        il pubblico bene e le lettere. La corrispondenza di Melchiorre Delfico 
        con François Cacault e Pierre-Michel Hennin, in Filosofia 
        Storiografia Letterature. Studi in onore di Mario Agrimi, Lanciano, 
        ed. Itinerari, 2001, pp. 13 e sgg.).  
        
        Si appassionò al collezionismo agli inizi degli anni Ottanta del 
        Settecento – è lui stesso a rivelarlo – frequentando gli ambienti 
        raffinati della Corte napoletana e divenendone un esperto nel corso 
        degli anni grazie ai suoi rapporti con gli uomini più rappresentativi 
        della Curia romana e con gli intellettuali più apprezzati delle 
        università italiane e straniere. Il secolo XVIII, come è noto, è il 
        secolo di un collezionismo veri e intenso che per certi versi all'inizio 
        appare lo sbocco naturale del mecenatismo tipico di una ristretta 
        cerchia di potenti, cioè di sovrani e pontefici. 
        
        Con il tempo, al collezionismo esclusivo dei principi si aggiunse quello 
        degli aristocratici e pertanto, per la diversità e la qualità dei 
        ritrovamenti, divenne un fenomeno europeo complesso e di grandi 
        dimensioni. 
        
        Spesso i rappresentanti più ricchi e colti della piccola nobiltà e della 
        nascente borghesia approfittavano dei Grand Tour per fare incetta 
        di reperti storici, artistici ed archeologici più o meno certi. Le 
        persone si scambiavano di tutto e acquistavano tutto: quadri, tappeti, 
        mobili, ceramiche, reliquie, conchiglie; passavano dalle cose più 
        costose a quelle più modeste ed economiche. 
        
        Fu un fenomeno sociale e culturale di grande rilevanza e più diffuso di 
        quanto non si creda perché prodotto dai più svariati bisogni di 
        carattere estetico, sociale, scientifico e psicologico. Ma a parte le 
        finalità ludiche, tese ad occupare piacevolmente il tempo libero o ad 
        investire con oculatezza le piccole o grandi risorse economiche, le 
        collezioni non furono altro che le manifestazioni visibili di un 
        interesse scientifico vero o latente. 
        
        Talvolta il fenomeno è stato visto come un aspetto della decadenza 
        scientifica (semplice passatempo), altre volte come una crisi di valori 
        sociali in ordine al mutare delle sensibilità culturali ed economiche, 
        altre volte ancora come una smania irresistibile di novità rispetto alle 
        abitudini tradizionali e, infine, come il prevalere dell'apparire 
        sull'essere. 
        
        Non è stato così per gli intellettuali seri del Settecento, in quanto 
        dalle loro collezioni sono poi sorti i musei, le biblioteche, le varie 
        scuole di arti e mestieri, le pinacoteche ecc. 
        
        Molte volte erano i negozianti di tessuti, quelli di cuoio e gli 
        ecclesiastici, i quali ultimi – scrive Maurice Rheims – in quanto 
        bibliofili, avevano modo di arrotondare le loro magre entrate fungendo 
        da mediatori (cfr. M.Rheims, L'affascinante storia del collezionismo, 
        trad. it., Torino, 1964, p. 22; Francesca Fedi, L'ideologia del 
        bello. Leopoldo Cicognara e il classicismo fra Settecento e Ottocento, 
        Milano, 1980). 
        
        Oltre ai re, ai nobili e all'aristocrazia in genere, diventarono 
        collezionisti i banchieri, i giudici, i proprietari terrieri e i 
        signorotti di provincia così, ad esempio, a Teramo Giamberardino Delfico, 
        fratello di Melchiorre, il quale fu un accanito e fortunato raccoglitore 
        di epigrafi latine e di statue romane. 
        
        Giamberardino addirittura trasformò la casa e i suoi giardini in un 
        attraente museo archeologico all'aperto a disposizione degli amici. A 
        lui possiamo aggiungere Gianfrancesco Nardi di Tottea (ricorda 
        Coppa-Zuccari), Francesco Antonio Grue di Castelli e, naturalmente l'atriano 
        Gabriello Cherubini amico del Delfico e in qualche modo suo 
        collaboratore. (Novità numismatica, Atri, 1847). Dalla collezione 
        di Giamberardino, faticosamente raccolta nelle campagne e nella città, e 
        un tempo gelosamente conservata nel suo palazzo, è nato l'attuale Museo 
        civico (G. Delfico, Dell'Interamnia Pretuzia, Napoli, Stamperia 
        Reale, 1812).  
        
        Nella metà del Settecento, inoltre, si sviluppò un particolare tipo di 
        collezionismo che, appunto in riferimento ai protagonisti, si disse 
        "diplomatico". In effetti i funzionari politici si rivelarono assai 
        preziosi per loro e per i loro sovrani in quanto – come scrive Francesca 
        Fedi – "pur senza disporre di fortune principesche, riuscivano spesso 
        ad accaparrarsi le opere più preziose e più gelosamente custodite, 
        muovendosi appunto attraverso i canali diplomatici e i servizi consolari" 
        (cfr. F. Fedi, L'ideologia del bello, Milano, Franco Angeli, 
        1990, p. 60). 
        
        Nella figura dell'uomo politico colto, infatti, spesso si riunivano una 
        molteplicità di competenze e di aderenze, sia sul piano sociale sia su 
        quello economico, che costituivano altrettante garanzie. A differenza 
        del collezionista aristocratico, che per scelta si affidava ai gusti e 
        al parere degli esperti e dei viaggiatori, non sempre scrupolosi o 
        preparati, i collezionisti istituzionali e quelli più avveduti si 
        affidavano ai diplomatici delle ambasciate che avevano una buona cultura 
        di base e che dimostravano delle particolari sensibilità. Questi si 
        rivelavano ancor più preziosi poiché riunivano nelle loro persone i 
        ruoli di collezionista, di esperto, di estimatore e, quindi, di 
        mercante-mediatore con un enorme risparmio sui tempi e sui costi. 
        
        E' in questa veste che nel 1787 incontriamo Melchiorre Delfico e a 
        rilevarlo è stata Anna Maria Rao, pubblicando, nel ricordato contributo 
        in onore di Mario Agrimi, la sua corrispondenza, del tutto sconosciuta, 
        con François Cacault e Pierre-Michel Hennin. 
        
        La lettera del 26 gennaio 1787 al Cacault è senza dubbio significativa 
        per il destinatario finale, Pierre-Michel Hennin, ma lo è ancora di più 
        sul piano culturale poiché si caratterizza come un piccolo saggio sul 
        commercio, sulle strategie e sulle caratteristiche di un collezionismo 
        così costoso ed elitario come quello numismatico. 
        
        Intanto – scrive il Delfico – non bisogna avere "fretta" 
        nell'acquisto delle monete o delle medaglie perché "già non sempre se 
        ne trovano vendibili, e qualche volta vengono delle opportunissime 
        occasioni". In secondo luogo avverte che nella compra-vendita non 
        bisogna mai perdere di vista il mercato, che è quello che stabilisce il 
        prezzo e definisce la qualità. In nessuna cosa ci sono delle costanti e 
        meno che mai nell'antiquariato. Ci sono infatti delle medaglie d'argento 
        che si possono "comperare pel doppio del peso, e quelle di rame o 
        bronzo per una mezza lira di Francia per ciascuna, ed anche una lira 
        intera se sono di buona conservazione" fino ad un Luigi di Francia. 
        In terzo luogo, ricorda all'illustre francese, è bene togliersi dalla 
        testa l'idea di trovare con facilità le monete d'oro. "Di monete 
        d'oro non parlo, scrive, perché sono divenute tanto rare quelle 
        della Magna Grecia, che in più anni che io raccolgo, non me n'è capitata 
        alcuna". 
        
        Analogo discorso esprime per l'inedito e il raro. In tutta la sua 
        collezione, confessa, "non ne posseggo che una sola e riguarda la 
        città di Mesma o Medama come la chiamano comunemente i geografi". 
        
        In una successiva lettera del 21 agosto 1787 aggiunge altri 
        avvertimenti, come quello di stare lontano dagli esercenti pubblici come 
        i "brocanteur" che "mettono sempre prezzi impertinenti" e dai 
        collezionisti occasionali come i "viaggiatori fanatici", che per 
        mostrare una "intelligenza" che non hanno, sono disposti a pagare prezzi 
        esorbitanti pur di "riportare in Patria qualche frutto esotico, segno 
        del viaggio" piuttosto che "per gusto o per amore delle medaglie". 
        
        In un mercato così fluido e accidentato anche a causa dei falsi e delle 
        contraffazioni è più facile, consigliava il Delfico all'Hennin, 
        rivolgersi ai collezionisti privati in fase di "realizzazioni" immediate 
        che a quelli di professione. 
        
        "Vi è una Collezione vendibile di urbiche, di Consolari, e 
        d'Imperiali, suggerì, ma il possessore non vuole disfarsene nella 
        sola parte delle medaglie di Città, volendo vendere tutta la collezione 
        intera: Le urbiche in argento ed in bronzo passano le trecento, e ve ne 
        sono delle rare ed anche delle rarissime, e se tutto si potesse avere 
        per cento once o sia per cinquanta Luiggi [sic!]di Francia, sarebbe 
        sicuramente buon negozio". 
        
        L'intermediazione andò a buon fine e il Delfico, felicitandosi per 
        l'acquisto, gli scrive: "Mi ho presa poi la libertà di aggiungervene 
        due, che aveva duplicate nella mia collezione, cioè una di Siri in 
        bronzo, e l'altra di Nuceria Alfaterna nello stesso metallo, ed in 
        caratteri osci e che io amo meglio chiamar sannitici" (Napoli, 21 
        agosto 1787). 
        
        Tre anni più tardi, nel 1790, suggerì all'Hennin l'acquisto di nuove 
        medaglie appena scoperte e di gran pregio. 
        
        "Fortunatamente posso avvisarvi – gli fece sapere – di avere a 
        vostra disposizione cento medaglie della Magna Grecia e Sicilia, tutte 
        di buona conservazione, ed il prezzo delle quali importa sessanta ducati 
        della nostra moneta, che conto si possano ragguagliare a lire 
        centoquaranta, e mi lusingo che possiate esserne contento. Credeva 
        potervi anche mandare una medaglia dei Popoli Frentani, ch'è di 
        grandissima rarità, ma il possessore non avendo voluto liberarsene 
        neppure per dieci ducati,mi è convenuto lasciarla: Essa è di rame di 
        seconda grandezza, e nel dritto ha la testa di Mercurio, al rovescio un 
        Pedaso con un tripode sotto, e dall'una e dall'altra parte la leggenda" 
        (Napoli, 17 luglio 1790). 
        
        Nell'ambiente il Delfico era considerato un'autorità e un intermediario 
        d'eccezione nel senso che non si limitava a offrire monete o medaglie, 
        ma le illustrava anche nei dettagli facendo spesso ricorso a precise 
        indagini storico-filologiche. 
        
        Il suo non era un collezionismo di tipo venale o, peggio, fine a se 
        stesso, ma si articolava nell'ambito di una intensa partecipazione 
        civile e perfino patriottica, elaborando un concetto, quello di "bene 
        culturale" che per l'epoca era rivoluzionario. 
        
        Pur nell'ambito delle sue occupazioni presso la corte o nell'ambito del 
        Consiglio delle Finanze, il Delfico non lesinava consigli ed aiuti agli 
        amici come a semplici conoscenti. 
        
        E così, ad esempio, tra il 1790 e il 1792 inviò all'amico Gazola di 
        Verona, interessato ad ampliare la sua raccolta, alcuni esemplari di 
        conchiglie e di pietre di lava vesuviana e qualche anno più tardi offrì 
        all'archeologo Giuseppe Micali l'acquisto di alcune monete abruzzesi. 
        
        Le lettere datate rispettivamente 20 febbraio 1792 e 9 aprile 1792, 
        purtroppo, non ci dicono nulla di quali monete si tratti: se i duplicati 
        di quelle personali, proposte al francese Hennin, o quelle che andarono 
        perdute. 
        
        A lui, invece, alcuni anni prima, il romano Pietro Borghesi propose 
        l'acquisto di monete e di medaglie italiane oramai introvabili. 
        
        Con Friedrich Munter (1761-1830), tedesco di Ghota, ma danese di 
        educazione, che soggiornò in Italia e soprattutto a Napoli per un lungo 
        periodo di tempo, il Delfico condivise a lungo la passione per la 
        numismatica (cfr. B. Croce, Federico Munter e la massoneria di Napoli 
        nel 1785-86, in Aneddoti di varia 
        letteratura, Bari, Laterza, 1954; Armando Di Nardo, Storia e 
        scienza in Melchiorre Delfico, Chieti, 1978, p. 125). 
        
        In una lettera del 1786, dopo essersi lamentato con lui per la lunga 
        assenza da Napoli, senza per altro mandargli alcun "pezzo" per la sua 
        collezione, il Delfico gli fece sapere che lui invece pur "in tanta 
        scarsezza di medaglie […] un piccolo acquisto […] un buon negozio col 
        comperarne centosei da un particolare per la somma di ducati 36, delle 
        quali 35 sono di argento e le restanti di bronzo. E mi spinsi 
        specialmente a questo contratto per avervi trovato una Bitontina ben 
        conservata, che a me costò ducati 7, una Barina e una Iuria inedita, e 
        la piccola Breggia colla […] ed insegne di Ercole che è rarissima. Il 
        Talani, lo informò, non da più le urbiche d'argento, che al 
        prezzo di 8 o 10 carlini l'una le comuni, ed a molto maggiore quelle che 
        sono un poco rare. D. Fortunato credo che acquisti per Valdek, perché 
        non mi porta più nulla, con tuttoché l'abbia sempre pagato 
        generosamente. La collezione, aggiunse, è cresciuta poco in 
        numero, ma in qualità assai, e con dispendio non indifferente; giacchè a 
        qualunque costo ho voluto aver da Carlo Cornè la Campana e la Posidonia 
        in argento; e dal Nevico Elia la medaglia di Reggio in argento, una di 
        Larino inedita, una di Atri, ed un'altra di Messina differente da quella 
        che aveva e più elegante, oltre di molte altre di minore importanza e 
        del Regno e di fuori, che insieme montano a più di 80 ducati. 
        
        Ultimamente, proseguì, ho fatto una corsa in Puglia fino a 
        Molfetta, non solo ad oggetto di vedere e osservare la celebre miniera, 
        ma per la Numismatica ancora: quanto però sono stato contento del primo 
        oggetto, altrettanto i miei desideri sono rimasti poco soddisfatti pel 
        secondo, perché non ho trovato nulla a comperare, e solo dalla 
        generosità di un amico ho avuto una monetina di Ugento OIAN un tipo che 
        mi mancava, e più intiera e conservata di quella pubblicata dal 
        Pellerin" (cfr. A. Di Nardo, 1978, p. 141-42). 
        
        Purtroppo erano finiti i tempi d'oro quando, come ricordava lo stesso 
        Munter in una lettera da Copenaghen, era facile trovarle: "Pensi, 
        scriveva, al nostro viaggio di Pesto, e alla divisione e ripartizione 
        delle medaglie comprate in istrada, che facevamo nella locanda di 
        Salerno". (Copenaghen, 8 agosto 1810, G. De Filippis-Delfico, 
        Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, libri due, Teramo, 
        1836, p. 97). 
        
        Il Delfico si teneva costantemente aggiornato, seguendo il Catalogo 
        Numismatico del Thott, che arrivava puntualmente a Napoli, 
        attraverso il quale nel 1790, acquistò alcune sia "pure piccole cose 
        e di poco momento" ma assai interessanti sul piano culturale. 
        
        Forse risale a questo periodo l'idea di scrivere qualcosa sulla 
        numismatica italiana perché in una lettera del 1790 confessò al Munter: 
        "Se riguardo però la collezione, vedo che ho un buon numero di 
        medaglie inedite e degne di veder la luce, e forse gli preannunciò
        un giorno comparirò con la divisa di Autore in questa parte della 
        Filologia, 200 sono le città che posseggo finora, ma delle città della 
        Grecia propriamente detta sono molto scarso", mentre possedeva due 
        preziose monete Captane o Campane in argento colla legenda KAMPANO "con 
        piccole differenze di segni monetali e colla leggenda – spiegava –
        in una da destra a sinistra, e l'altra al contrario, e questa con non 
        piccolo disturbo l'ebbi dal sig. Borghesi di Sevignano che era forse la 
        più copiosa raccolta fra i privati d'Italia, specialmente per le 
        medaglie delle Romane famiglie. In Venezia – concluse – ebbi 
        anche qualche cosa per via di permute ma non arrivai a comperare nulla" 
        (cfr. A. Di Nardo, 1978, p. 144). 
        
        Purtroppo non sapremo mai quante monete il Delfico raccolse nella sua 
        vita, a quale epoca risalissero e di quali città fossero. Tra le sue 
        carte si conserva una lista intitolata: "Note di medaglie romane che 
        si vogliono comprare, colla nota de' prezzi in moneta Napoletana, sin 
        dove deve estendersi il commissionato, a cui si raccomanda più di tutto 
        la buona conservazione, e l'indubitata antichità, lasciandosi anche 
        quelle, sopra le quali cada un menomassimo dubbio di falsità" di cui 
        però non sappiamo se, quando e quante ne acquistò. 
        
        Quelle possedute e personalmente acquistate e gelosamente custodite, 
        purtroppo, andarono perdute a Pescara durante la sua fuga precipitosa, 
        sotto il falso nome di Carlo Cauti, alla volta della Repubblica di S. 
        Marino per sottrarsi alla restaurazione borbonica postrepubblicana. 
        
        "Fra gli effetti che più rincrebbe al nostro profugo, in quella 
        disgraziata emergenza, sono da annoverarsi, ricorda il suo primo 
        biografo, le medaglie antichissime dette Urbiche, da lui raccolte non 
        senza molta cura e dispendio, coll'intendimento di provare per tal 
        testimonio quanto l'itala civilizzazione avesse preceduto l'epoca de' 
        Romani, i quali ci riguardò sempre con un determinato disdegno. E queste 
        medaglie perdute in Pescara – specifica – erano residuo pur ricco 
        ed importante d'un maggior numero di esse, ch'egli aveva dimezzato per 
        vendita fattane nel 1796 ad un Inglese in Livorno, e, prima, nel 1787, 
        anche a Napoli" (G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere 
        di Melchiorre Delfico, libri due, Teramo, 1836, pp. 52-53). 
        
        Con molta probabilità da allora smise di coltivare personalmente un 
        passatempo così difficile e dispendioso, anche se continuò a fare da 
        tramite con i suoi amici collezionisti, talora approfittando, specie 
        durante il periodo francese, della sua posizione in seno al governo. 
        
        Nel 1807, ad una precisa richiesta, rispose al Munter: "Non ho di 
        nuovo che una bella Siracusana in oro, ed una Possidonia, con alcune 
        altre persiane di buona conservazione, e piccole altre cose di 
        pochissimo momento. Se tu vai a Parigi, potrai avere delle molte cose 
        Greche, perché non vi è Console che non sia raccoglitore" (cfr. A. 
        Di Nardo, 1978, p. 148). 
        
        Gli appunti, che comunque prese mentre le acquistava, le selezionava e 
        le confrontava, fortunatamente confluirono nel volume sulle monete 
        atriane. Di quest'opera ne esistono tre edizioni: due curate 
        personalmente dall'Autore (a due anni di distanza l'una dall'altra), 
        mentre la terza, da Giacinto Pannella all'inizio del Novecento per conto 
        dell'editore Giovanni Fabbri. 
        
        La prima porta il seguente titolo: Antica Numismatica della città di 
        Atri / nel Piceno con un Discorso preliminare su le origini italiche / 
        Con permesso; la seconda ha per titolo: Della Antica Numismatica 
        / della / Città di Atri / Nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini 
        italiche / Napoli / dalla tipografia di Angelo Trani / 1826. 
        
        I frontespizi divergono sia dal punto di vista della grafica che dal 
        punto di vista del formato. Quella più grande è del '26, quella più 
        contenuta del 1824. 
        
        Nell'edizione del 1826 c'è addirittura l'aggiunta del marchietto 
        dell'editore A(ngelo) T(rani), mentre quella del '24 si apre con una 
        lettera, senza data, ma firmata dal Delfico e dedicata – Alla Reale 
        Accademia Ercolanense di Archeologia ed a S. E. Reverendissima Monsignor 
        Rosini Presidente della medesima e della Reale Società Borbonica di 
        Napoli – e comprende la richiesta autorizzazione per la stampa, avanzata 
        dall'editore Ubaldo Angeletti al Marchese Tomacelli (11 maggio 1824), 
        concessa il 17 maggio 1824 su giudizio favorevole del canonico don 
        Giulio Quartaroli – Rettore del R. Collegio di Teramo. 
        
        L'edizione napoletana del '26, invece, si apre con la lettera – A Sua 
        Eccellenza Reverendissima Monsignor Colangelo Presidente della Giunta 
        per la Pubblica Istruzione – e si conclude con l'autorizzazione, 
        richiesta il 17 luglio 1826 e ottenuta il 18 luglio 1826 con tutte le 
        formule di rito. 
        
        Il volume si apre con una lettera de L'Editore a' Lettori, 
        prosegue con l'Introduzione e con alcune novità sui Rischiaramenti ad 
        alcune osservazioni fatte sull'opera della numismatica atriana. A S. E. 
        Il Signor Conte Giuseppe Zurlo (pp. 55-82), tutte di mano del 
        Delfico, ed è sempre dedicato allo Zurlo, e contiene, inoltre, il breve 
        trattato Delle antiche ghiande missili di piombo – Lettera a S. E. il 
        Signor Conte D. Giuseppe Zurlo – con la raffigurazione di undici 
        missili di cui sei con la scritta e cinque senza. Termina con la 
        riproduzione di tre recensioni: la prima apparsa su l'Antologia di 
        Firenze, firmata da Giuseppe Micali (aprile 1825), la seconda sulla
        Biblioteca Italiana di Milano e la terza sulla Rivista 
        Enciclopedica Francese (gennaio 1826).  
        
        Nelle intenzioni dell'Autore, quindi, la nuova edizione voleva essere 
        qualcosa di più che una semplice ristampa. L'edizione del Pannella è 
        modellata su questa del 1826 e contiene, oltre alle note del curatore, 
        alcune aggiunte iconografiche. Con il libro il Delfico intendeva 
        mostrare soprattutto l'enorme valore scientifico delle monete per la 
        conoscenza della storia dell'umanità nell'epoche antiche. 
        
        Tra la prima e la seconda edizione si diede molto da fare nel chiedere 
        aiuti, consigli, lumi, incoraggiamenti e notizie a tutti, agli amici e 
        agli specialisti come l'aquilano Giacinto Dragonetti, all'atriano 
        Francesco Sorricchio e ad altri. Leggendo velocemente le prefazioni e le 
        lettere sembra che il Delfico non attribuisse grande importanza alla sua 
        fatica. Al Dragonetti la presentò come "un'opera senile", al 
        Presidente della Reale Accademia Ercolanense uno "studio tranquillo", 
        adatto alla sua età (quasi che in fatto culturale si potesse fare una 
        graduatoria ideale fra i lavori senili, giovanili e di mezza età) 
        mentre, all'amico Giuseppe Zurlo come "un'opera quasi del tutto 
        concettuale", ma non era così. 
        
        Nelle due introduzioni chiese venia a tutti per le eventuali negligenze 
        e imperfezioni dovute all'età "che chiamasi decrepitezza" ma anche alla 
        pochezza dei libri a disposizione, spiegando come per questi motivi si 
        era dovuto mantenere "sobrio in citazioni ed in ragionamenti 
        congetturali, che sogliono far gran giuoco nel trattar tali argomenti". 
        
        Tutte queste espressioni hanno più il senso di una captatio 
        benevolentiae che non un valore limitativo. In questo "tranello" 
        cadde anche il redattore de' La Ricreazione scrivendo che il 
        trattato "Fu uno sfogo dell'età cadente l'andar ravvicinando le antiche 
        e moderne opinioni intorno a tale argomento. E trovandole involte nelle 
        favole, piuttosto create dagli autori che dalla natural fantasia, 
        figliole dell'ignoranza, volle occuparsi a rintracciare qualche indizio 
        del vero. Questa opera fu bene accolta in Italia e in Francia che, i 
        giornali ne fecero i più distinti elogi. Ma l'Autore avendo trovato in 
        quello di Firenze alcune osservazioni che stimò degne di essere 
        rischiarate, non si dispensò dall'eseguirle e furono pubblicate nella 
        seconda edizione che ne fece a Napoli, cui aggiunse una Memoria 
        epistolare sulle ghiande missili degli antichi. Di esperti studi 
        però si era molto occupato il Delfico nel corso della sua vita, si aveva 
        formato una sceltissima raccolta delle monete urbiche specialmente 
        dell'Italia, che nelle vicende della fine del secolo scorso fu costretto 
        ad abbandonare". (cfr. La Ricreazione, 7 agosto 1834, a. I, n. 23). 
        
        Il riferimento alla vecchiaia e alla pochezza delle informazioni è 
        deviante in quanto in quanto ad una lettura attenta si capisce come 
        l'Autore vi pensasse appunto fin dal 1795 e cioè da quando al Micali 
        chiese delle informazioni sul valore di alcune monete che aveva 
        recuperato. La storia delle monete atriane non fu un lavoro 
        estemporaneo, fatto per divertimento o per ingannare il tempo libero, ma 
        un'opera pensata che gli assorbì tempo, denaro e molti sacrifici e il 
        dominio di una pluralità di discipline e di tecniche per aver ragione di 
        una quantità di quesiti diretti e indiretti.  
        
        Oltre alla storia vera e propria, dovette tener conto anche dei 
        risultati raggiunti dalla geografia fisica, dalla politica, 
        dall'economia, dalla linguistica storica, dalla filosofia, passando per 
        la critica delle fonti, le tecniche monetarie e così via. L'argomento 
        non era facile, anzi era assai complesso e i problemi che direttamente o 
        indirettamente sollevava erano infiniti. Bisognava di volta in volta 
        isolarli, identificarli e trattarli uno alla volta per poi compararli 
        con altri e poi come in un mosaico riunirli senza perdere mai l'unità 
        della trattazione. 
        
        Da questo punto di vista l'opera, al di là delle conclusioni, vere o 
        presunte che siano, è un capolavoro di storiografia ottocentesca e una 
        dimostrazione concreta delle immense informazioni che si potevano trarre 
        con il metodo della storia comparata. Nonostante le apparenze, quindi, 
        non è una storia locale, studiata per attribuirne ad Atri un primato e 
        ai Romani una patente di arretratezza culturale e politica, ma un modo 
        importante per verificare l'attendibilità della filosofia vichiana. Il 
        trattato, che si configura come la prima opera postnapoletana, dava un 
        senso alla sua collezione, del resto disgraziatamente andata perduta, e 
        in secondo luogo, era un omaggio alla città di Atri dove, insieme ai 
        suoi fratelli, aveva appreso, prima di partire per l'Università di 
        Napoli, i primi rudimenti del sapere (E. Ruggirei, Biografia di 
        Angelantonia Rozzi, in fasc. n. 6 nov. dic. 1848 de' Il Gran 
        Sasso d'Italia, pp. 369-374, ci dice appunto che i fratelli Delfico, 
        Giovan Berardino, Gianfilippo e Melchiorre studiarono nel collegio dei 
        Gesuiti di Atri). 
        
        Con il volume sulle monete, inoltre, il Delfico contribuì a sviluppare 
        gli studi storici sulla preistoria regionale, indicando gran parte della 
        topografia delle genti d'Abruzzo, il numero dei centri storici romani e 
        preromani, il tipo di economia prevalente presso i popoli italici e il 
        valore delle testimonianze epigrafiche. Diversamente dalle monete, 
        Melchiorre acquistò libri per tutta la vita almeno per tre buoni motivi: 
        per portare avanti le sue ricerche, per soddisfare il suo amore per i 
        codici antichi e rari e per andare incontro ai desideri dei suoi amici 
        teramani e non. E' a tutti nota la lettera con la quale Giambattista 
        Mezucelli informava Berardo Quartapelle della condizione degli studi a 
        Teramo e della carenza di libri: "Noi continuamente godiamo della 
        compagnia dell'illustre D. Melchiorre, e profittiamo sempre dei suoi 
        lumi. Si aspetta a momenti il baule grande dei suoi libri, poiché 
        l'altro è già giunto. Egli, si legge ancora nella lettera, si 
        compiace darci qualunque libro ci bisogna. Il dovere dunque porta che 
        noi dobbiamo corrispondere coi nostri sforzi alle sue ottime intenzioni"(Teramo, 
        14 dicembre 1789, in Giacinto Pannella, Lettere inedite di M. 
        Delfico, G.B. Mezucelli e A. Tullj pubblicate nelle auspicatissime nozze 
        della nobile donzella Elisabetta Delfico de' Conti di Longano 
        coll'egregio avv. Luigi Paris, Teramo, p. 9). 
        
        Meno nota è l'altra, inviata al Fortis tramite il Pagani, nella quale fa 
        riferimento all'amico Vincenzo Comi e alle sue ricerche. "Esso 
        [il pacco] contiene, scrisse, tre tomi dell'Effemeridi, due di Leske, 
        tre copie della Chimica di Scopoli, cioè due di vostra commissione, ed 
        un'altra che regalerete a nome mio a D. Vincenzo Comi, insieme con i sei 
        tomi di questo Giornale di Fisica, ed un Almanacco per i Medici. Così 
        vedrete che cos'è questa Biblioteca di Fisica, che potrebbe essere 
        qualche cosa di meglio, ma intanto col dare delle cose inedite, e 
        notizie scoverte recentissime ha qualche merito. La spesa della medesima 
        è di £ 12 di Milano all'anno, ed ogni anno sei volumetti. Volta 
        [Alessandro] protegge questo giornale, ma non credo gli altri, perché 
        non sono estinti i germi della discussione" (Pavia, 20 febbraio 
        1789). 
        
        All'amico Pietro Custodi, che gli chiedeva di leggere qualche suo nuovo 
        lavoro, rispose che avrebbe voluto pubblicare qualcosa, ma non era nelle 
        condizioni di "comparire innanzi al pubblico". Per scrivere qualcosa, 
        gli ricordò, bisognava conoscere il pensiero degli altri sullo stesso 
        argomento e questo per il momento gli era possibile anche perché, gli 
        confessò, "devo pur dire che [l'acquisto dei libri] incomodano a 
        volte le mie Serafiche Finanze" (S. Marino, 16 novembre 1805). 
        
        Tuttavia pregava gli amici di non dimenticarlo. 
        
        Il bibliotecario romano Gaetano Marini, con il quale fu in grande 
        dimestichezza, gli fu di grande aiuto mentre stava elaborando le 
        Memorie storiche della Repubblica di San Marino poi edite a Milano 
        nel 1804. 
        
        Nel dicembre del 1802, ringraziandolo per le informazioni che gli aveva 
        fornito su alcuni codici, gli chiedeva come fare per avere le edizioni 
        più corrette di alcuni documenti e libri. "Nell'ultima vostra mi 
        parlate dell'istrumento del Card. Anglico [Grimoardi] di cui non conosco 
        che il pezzo pubblicato dal Borgia nelle Memorie di Benevento, e che 
        sarebbe ben averlo in maggiore integrità. Mi proponete anche le Carte 
        Albornoziane, per le quali vi pregai di volermene far estrarre le copie, 
        come tutt'altro che fosse relativo ai miei desideri. Se fosse tutto ciò 
        pronto, ad un vostro avviso, manderei a prenderlo da persona sicura. 
        Aggiungo poi un altro bisogno: cioè che avendo delle edizioni del XV 
        secolo, ve ne sono varie mancanti di qualche pagina, come il Lattanzio 
        del 1468, il Cesare del 1472, entrambi della Casa de' Massimi, e così 
        altri, e vorrei poterle riparare, o coll'imitazione o con supplirle da 
        altri libri, come meglio si potrà, e vi prego dirmi il vostro parere" 
        (Ascoli, 19 dicembre 1802, cfr. G. Morelli, Aprutium, 1996, pag 
        .21 e sgg.). 
        
        In precedenza aveva avuto da lui due copie del "Breve di Giovanni XXII" 
        e del "Capitolo del Cardinale Albornoz" a lui quasi ignoti visto che 
        scrive "il primo non lo conoscevo che monaco, e l'altro [gli] era 
        noto solo dal Marini di S. Leo" (S. Marino, 15 settembre 1802). 
        
        Al centro dei suoi interessi, comunque, c'era sempre la ricerca delle 
        edizioni antiche e rare. Al Munter in una lettera spiegò che: "I 
        perigli sul finire del secolo [XVIII] mi fanno distrar dalla mia 
        raccolta di medaglie urbiche; ma come non si può star senza qualche 
        oggetto di passione letteraria, da più anni in qua vi surrogai 
        l'acquisto di libri del XV secolo, di cui ho già una raccolta 
        ragguardevole per numero e per qualità" (Napoli, 12 maggio 1813). 
        
        Nel 1808, commentando il Catalogo pubblicato dei libri del Duca di 
        Cassano, appena edito, disse al marini: "Il mio può essere più forte 
        in numero di soldati, ma non di capi" (Napoli, 22 aprile 1808, cfr. 
        G. Morelli, op.cit.). 
        
        Nel 1803, rispondendo al Marini, che gli aveva chiesto delle notizie 
        biografiche su Alberto Fortis, gli disse: "Intanto, per non rendere 
        l'amicizia oziosa, profitterò delle vostre cortesi esibizioni, facendovi 
        sapere, che io ha un poco il gusto delle edizioni del XV secolo. Sicché, 
        se ne avete in vista alcuna acquisibile, e che non fosse molto contro 
        l'economia, mi fareste somma grazia a darmene notizia; e così, come 
        volete, incomodarvi, vo do nuova prova de' sentimenti, che mi rendono 
        Vostro Serv. ed amico" (cfr. Pompilio Pozzetti, Commentario della 
        vita e delle opere di P.P. delle Scuole Pie con lettere a lui 
        indirizzate da celebri uomini e con veri elogi d'insigni scolopi in esse 
        ricordati, per Alessandro Checcucci dello stesso ordine, Firenze, nella 
        Tipografia Calasanziana, 1858, pp. 107-110). 
        
        Ha ricordato recentemente Giuseppe Morelli, in un puntualissimo studio 
        su alcune Lettere di Melchiorre Delfico nella Biblioteca Apostolica 
        Vaticana ("Aprutium", 1996, pp. 21 e ss.), che il Delfico e il Marini 
        si erano conosciuti a Roma nel 1795 e il carteggio tra i due si 
        interruppe nel 1808 quando quest'ultimo per dovere d'ufficio seguì a 
        Parigi gli Archivi della S. Sede, requisiti da Napoleone in seguito alla 
        diaspora con il Pontefice. 
        
        Ma, tornato a Napoli sotto i Francesi alla guida del dicastero delle 
        Finanze, gli chiese "bramerei le Familiari di Cicerone, se sono 
        quelle della prima stampa veneta: dico della prima di quella città, 
        poiché sapete che ve ne furono due nell'anno stesso 1469 e dello stesso 
        stampatore […] Più De Natura Deorum etc. del 1741, Venezia 1477, 
        Virgilio, Roma, 1473" (Napoli, 27 
        novembre 1806, cfr. G. Morelli op .cit., p. 9). 
        
        L'anno successivo, invece, si lamentò con l'amico Francesco Reina che a 
        causa dei numerosi impegni non poteva seguire con assiduità la sua 
        collezione, ma solo in maniera episodica "così per divertimento ad 
        acquistar qualche edizione del vecchio XV, ma qui non trovo neppure a 
        soddisfare questo mio gusto, poiché tutto è stato spazzato e passato in 
        mano forte o all'Estero" (Napoli, 19 febbraio 1807). Il Reina, 
        rispondendogli, lo informò che anche a Milano "le cose rare vanno 
        sparendo", mentre cresceva a "dismisura" il numero dei libri a stampa, 
        comunque gli promise  qualcosa: "Se però – scrisse – tornerete 
        fra le braccia degli amici vostri Lombardi, troverete ancora qualche 
        tesoretto nascosto" (Milano, 6 giugno 1807). 
        
        Un grosso ostacolo era costituito dal cambio monetario non solo per gli 
        operatori finanziari, per i commercianti, per gli importatori ed 
        esportatori, ma anche per i semplici acquirenti magari di libri e per "questo 
        motivo, notò il Delfico, si perde quasi metà delle somme". Lo 
        stesso Fortis da Venezia, nel marzo del 1796, in un'analoga situazione 
        politica e militare, così gli fece eco: "La compra fatta con parte 
        del credito in assegnati acquistati rappresenta 200 lire torinesi di 
        credito sul Gran Libro al 5 per 100. Per ora io sarò alla condizione di 
        altri venditori: ma a pace fatta i pagamenti si dovranno fare in 
        numerario o in assegnati al corso. Sarà oggetto di personale esame se 
        convenga meglio tenere una rendita di 10.000 lire o di cambiare il 
        capitale in terreni" (cfr. Stevka Smitran, Dalla corrispondenza 
        di Alberto Fortis a Melchiorre Delfico, in "Atti del Convegno di 
        studi storici- L'Abruzzo e la repubblica di Ragusa tra il XIII e il 
        XVII secolo", Ortona, 1988, p. 130). 
        
        Per aggirare l'ostacolo, nel 1810, il Delfico suggerì al Munter lo 
        scambio dei libri con altri collezionisti, "io mi lusingo che fra 
        breve si potranno dare delle combinazioni favorevoli ad attenuare…" 
        poiché per il momento non c'erano altre alternative. "Le combinazioni 
        che accenno, gli disse, le vedo negli invii de' ministri 
        in codesti regni Settentrionali: per mezzo di essi il cambio si potrà 
        ottenere quasi alla pari per i reciproci bisogni" (cfr. A. Di Nardo,
        Storia e scienza, op. cit., p. 150). Il cambio di oggetti 
        fra amici è stato  e resta sempre un modo per avere qualcosa che 
        diversamente non si ottiene, ma nel Settecento rientrava in una più 
        complessa pratica esoterica e lo si faceva solo tra gli affiliati. 
        
        "La consuetudine di scambiarsi favori, informazioni e perfino 
        "pupilli", osserva Francesca Fedi, apparteneva del resto tanto a 
        un codice massonico quanto a quello, non scritto, della società dei 
        collezionisti, la quale aveva poi in comune con la libera muratoria 
        altre due caratteristiche fondamentali: l'internazionalità e il 
        gradualismo" (cfr. F. Fedi, op. cit., p. 63). 
        
        La cultura Massonica, infatti, innalzava il collezionismo e la sua 
        pratica alla ricerca della perfezione, nell'esperienza della "raccolta" 
        vissuta, nel dualismo di vita e ricerca, come scrive Goethe nella sua 
        terza lettera sull'educazione (cfr. Goethe, Il collezionista e i suoi, 
        in Scritti sull'arte, trad. di N. De Ruggiero, Napoli, Ricciardi, 
        1914, pp. 23-89). Un altro sistema era quello di pagare i libri facendo 
        ricorso alla buona volontà degli amici. Un caso del genere, che, 
        purtroppo, non tutto andò a buon fine è stato segnalato da Marcello 
        Sgattoni a proposito dei libri acquistati dal Canova per il Cicognara e 
        che il Delfico avrebbe dovuto pagare attingendo i soldi dalle prebende 
        acquisite [dal Cicognara] con l'aggregazione all'Ordine delle Due 
        Sicilie (cfr. M. Sgattoni, Cinque lettere di Melchiorre Delfico a 
        Leopoldo Cicognara, in "Notizie dalla Delfico, 1995, n. 1, p. 23"). 
        Gli ostacoli non gli impedirono comunque di continuare la ricerca poiché 
        nel 1813 al danese Munter comunicò con soddisfazione di aver una "raccolta 
        raguardevole per numero e qualità" di incunaboli. La lettera del 
        1813 è importante per diversi motivi: intanto perché indica la data 
        esatta della sua uscita dal Governo "giacchè era uno de' quattro 
        presidenti del Consiglio di Stato" e in secondo luogo, perché ci parla 
        dei suoi rapporti con la Società Reale e dei suoi progetti culturali 
        (Napoli, 11 maggio 1813). "In febbraio – scrisse – lessi 
        Memoria alla Società Reale "Su la sensibilità imitativa, considerata 
        come il principio fisico della socialità della specie e del 
        civilizzamento de' popoli". Fu gradita molto dai nostri Fisiologisti, 
        annotò con soddisfazione, e si stamperà nel prossimo mese nel primo e 
        secondo volume". La ricerca venne pubblicata nel 1819 dopo quella 
        sulla perfettibilità organica (cfr. M. Delfico, Ricerche su la 
        sensibilità imitativa considerata come principio fisico della 
        sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle 
        nazioni. Letta nella R. Accademia delle Scienze a dì 17 febbraio 1813.
        Sta in Atti della Reale Accademia delle Scienze. Sezione della 
        Società Reale Borbonica. Memoria, 1819, vol.I, pp. 343-376). In 
        relazione ai suoi interessi immediati lo informò che stava lavorando "sulla 
        Scienza Etimologica de' Romani" che era poca cosa ma che gli dava 
        possibilità e "luogo a non inutili operazioni su lo stato 
        intellettuale di quel popolo".  
        
        Tra le sue carte non mancano infatti appunti, annotazioni e qualche 
        riflessione approfondita con l'inizio di un piccolo vocabolario, in 
        lingua italiana (cfr. D. Striglioni Ne' Tori. L'inventario del Fondo 
        Delfico – Archivio di Stato di Teramo – Teramo, 1994). In 
        precedenza aveva ringraziato il Fortis per la scaletta dei libri da 
        studiare per un corso accelerato di economia politica (A. Lettieri, 
        op. cit., Teramo, 19 agosto 1788). Purtroppo, l'intero corpo degli 
        incunaboli, composto di quasi mille titoli, non si trova nella sua città 
        natale, ma a Napoli come suo contributo alla nascente Biblioteca 
        Borbonica Napoletana (A. Marino, Il contributo del Delfico alla 
        formazione della Reale Biblioteca Borbonica di Napoli, in Atti del 
        Convegno di Studi Gli archivi come fonte di Ricerca Storica, 
        Chieti, ed. Tinari, 1995, p. 49 e sgg.). Un gesto apprezzatissimo dai 
        suoi amici ed estimatori tanto che da Parigi (8 agosto 1811), ad 
        esempio, G. Melzi gli scrisse: "Il vostro dono veramente patriottico 
        fatto a codesta Regia Biblioteca è degno di voi, e mi conferma sempre 
        più nell'opinione di stima e di ammirazione che ho sempre avuto per voi. 
        Io mi rallegro con voi di un sì bell'uso che avete fatto della vostra 
        collezione" (cfr. M. Delfico, Opere complete, Teramo, 1904, 
        vol. 4, p. 230). In precedenza da Milano gli aveva detto: "Vi 
        confesso la verità, non avrei avuto io l'egual virtù di privarmi dei 
        miei quattrocentisti che avete fatto voi, ma giacchè faceste questo 
        sforzo, vi lodo che il sacrificio sia stato completo, mentre invece di 
        contrattare la vostra preziosa raccolta, l'avete donata. Voglio essere 
        sincero – aggiunse – io ho posto invidia alla R. Biblioteca di 
        Napoli principalmente, perché possederà il bello esemplare del Petrarca 
        1471 di Roma. Molte altre edizioni io stimo della vostra collezione 
        – concluse – ma questo cimelio sopra tutte" (M. Delfico, op. 
        cit, p. 226). 
        
        A Teramo, invece, lasciò la sua libreria, smembrata in più occasioni per 
        vendite o donazioni, ed ora fortunatamente ricomposta. Un primo 
        smembramento implicitamente si ebbe, come abbiamo riferito, con la 
        fornitura dei libri scientifici fatta in favore degli amici che ne erano 
        privi e, purtroppo, con quelli disgraziatamente perduti nel 1799 a 
        Teramo e a Montesilvano in occasione dei fatti legati alle vicende della 
        Repubblica Napoletana.  
        
        Un secondo si verificò nel 1824 allorché il Delfico stesso, tornato 
        definitivamente a casa sua, dopo l'esperienza parlamentare napoletana 
        (1821), donò i volumi prettamente ecclesiastici e religiosi ai 
        Cappuccini che avevano aperto nel loro convento teramano una fiorente 
        cattedra regionale di Teologia in alternativa a quella funzionante 
        presso il Convento dei Frati Minori della Madonna delle Grazie (cfr. 
        Filippo da Tussio, I frati cappuccini della monastica provincia degli 
        Abruzzi. Memorie cronologiche-biografiche, S. Agnello di Sorrento, 
        1880). 
        
        Un terzo si ebbe due anni dopo, nel 1826, in favore del Real Collegio, 
        istituito nel 1813 da Gioacchino Murat per venire incontro ad un'antica 
        aspirazione teramana. Non era la Piccola Università, richiesta dal 
        Delfico, concessa dai Borboni e osteggiata dal Vescovo Pirelli (Vincenzo 
        Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). 
        L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, 
        Roma, 1981, pp. 288 e sgg.), ma certamente qualcosa di importante in 
        quanto per alcuni periodi il Real Collegio rilasciò, almeno sino al 
        1857, titoli di studio simili alle lauree. 
        
        L'ultimo smembramento si ebbe alla sua morte, quando i volumi superstiti 
        e rimasti in casa confluirono nella costituenda Biblioteca provinciale (cfr. 
        Adelmo Marino, Illuminismo e preromanticismo nella biblioteca di M. 
        Delfico, in Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Chieti, 
        Solfanelli ed., 1986, pp. 143 e sgg.). La donazione dei libri al Real 
        Collegio, al di là degli aspetti burocratici e testamentari che 
        impegnarono non poco il Delfico e gli amministratori locali, è senza 
        dubbio inferiore per numero e valore economico a quella napoletana degli 
        incunaboli, ma è sicuramente superiore per concezione e organicità, 
        anche se ciò non appare dall'elenco, redatto in ordine alfabetico dal 
        notaio Gaetano Grue. 
        
        I libri sono in linea con la cultura scientifica del periodo, gli autori 
        sono quasi tutti del Settecento e dei primi anni dell'Ottocento con 
        esclusione quasi totale delle opere del secolo precedente. Compaiono i 
        libri posteriori a quelli presenti negli scaffali delle biblioteche 
        abruzzesi, ad esempio, del marchese de' Sterlich o di Federico Valignani 
        (cfr. Giuseppe F. de Tiberis, Federico Valignani in L'Abruzzo nel 
        Settecento, Chieti, 2000, pp. 473-498; Annamaria De Cecco, 
        Federico Valignani. Fonti archivistiche, in L'Abruzzo nel 
        Settecento, Chieti, 2000, pp. 490 e sgg.), mentre non mancano quelli 
        degli autori regionali come Sallustio, Ovidio, Antinori ecc. Sono 
        presenti anche quattro libri del Delfico, forse quelli che lui stesso 
        riteneva più significativi. Essi sono: i Pensieri sulla Storia 
        (1814), le Memorie Storiche della Repubblica di San Marino 
        (1804), la dissertazione Sul vero carattere della giurisprudenza 
        romana e dei suoi cultori (1815) e l'Elogio di Francescantonio 
        Grimaldi (1784). 
        
        Tutti si situano all'interno di una intensa dinamica pedagogica 
        articolata e nell'ambito di una cultura europea. Ci sono, infatti, libri 
        in italiano, in latino, in madre lingua o in traduzioni pregevoli, senza 
        alcuna restrizione ideologica e religiosa e comunque provenienti dalle 
        più accreditate case editrici europee. Scorrendo l'elenco si ha la 
        sensazione che il Delfico seguì un suo progetto universitario in 
        riferimento ai cambiamenti sopravvenuti in Europa e in vista delle nuove 
        sfide. Non va sottaciuto che egli era informato dei problemi scolastici, 
        avendo partecipato a più riprese ai lavori del Consiglio di Stato 
        (1809-1810) per la stesura dei progetti di riforma dell'istruzione 
        pubblica napoletana (cfr. G. Lisciani, Melchiorre Delfico. Scritti 
        pedagogici. Con alcuni inediti. Prefazione di Mauro Laeng,1969). 
        
        Le Osservazioni a un progetto di riforma, che prevedeva una 
        diversa articolazione sia delle materie sia dei programmi in ordine ai 
        titoli e alle professioni, l'abbiamo trovato tra le sue carte (cfr. 
        Biblioteca Provinciale "M. Delfico" Teramo, Fondo Delfico, 
        Miscellanea n. 2, nn. 851-852). L'articolato prevedeva dei nuovi 
        percorsi formativi teorici e pratici che gli studenti avrebbero dovuto 
        seguire negli anni insieme a una serie di impegni e di controlli che lo 
        Stato doveva garantire. Per il momento Melchiorre Delfico si limitò a 
        fornire al Real Collegio quei sostegni bibliografici utili alle sole 
        cattedre attivate e previste nell'art. 2 del Regio Decreto n. 1767 del 
        16.5.1813 che erano: Grammatica inferiore e media (denominata anche 
        "Latinità inferiore e media"), Retorica ed Eloquenza, Filosofia e 
        Matematica elementare, Grammatica superiore, denominata anche "Latinità 
        sublime". Nel 1820 l'organico al completo era così composto: Timoteo 
        Wagnon (Grammatica e Lingua italiana), Fulgenzio Lattanzi (Retorica e 
        Poesia), Agostino Giosia (Latinità inferiore e media), Gennaro Seguino 
        (Latinità superiore o sublime), Luigi Paris (Matematica sublime e 
        Fisica) e Berardo Taraschi (Filosofia e Matematica elementare) (cfr. 
        Giovanni Di Giannatale, Il personale docente del Real Collegio di 
        Teramo nei suoi primi anni di vita (1814-1819), in "Notizie dalla 
        Delfico", Teramo, 1993, n. 1, p. 4 e sgg.). 
        
        La libreria, comunque, non rientrava nel quadro di un superficiale 
        filantropismo culturale bensì nell'ambito di una consolidata visione 
        massonica e, quindi, sulla stessa linea culturale sia del ricordato 
        Cicognara sia di Cesare Beccaria, i libri proposti erano importanti non 
        per il loro pregio formale (ricchezza e preziosità della veste 
        tipografica) ma per il valore del loro contenuto. Il Delfico, infatti, 
        non era un avido bibliomane, che con la sete di investimento sottraeva 
        il libro alla libera circolazione e quindi alla sua intrinseca finalità, 
        che è quella di essere letto, ma un bibliofilo scrupoloso al servizio 
        degli studiosi (cfr. L. Cicognara, Vita di San Lazzaro monaco e 
        pittore, preceduta da alcune osservazioni sulla bibliomania, 
        Brescia, 1807; C. Beccaria, Il Bibliomane, in Scritti 
        filosofici e letterari, a cura di L. Firpo, G. Francioni e G. 
        Gaspari, Milano, 1984, vol. II). Personalmente, non gradiva la scomparsa 
        dei libri innanzitutto perché ciò avrebbe interrotto il naturale 
        "gradualismo" della scienza e in secondo luogo perché avrebbe ritardato 
        di molto lo sviluppo della "perfettibilità" della specie umana e quindi 
        – come scriveva Schiller nelle Lettere sull'educazione estetica 
        dell'Uomo, un autore che lui conosceva benissimo – impediva la 
        conquista di una "propria umanità integrale" (cfr. F. Schiller,
        Saggi estetici, a cura di C. Baseggio, Torino, UTET, 1968, pp. 
        203-323). 
        
        In conclusione, Melchiorre Delfico operò con la donazione certamente in 
        funzione e negli interessi di un ceto amministrativo illuminato, ma non 
        dimenticò le sue aspirazioni laiche, le sue battaglie riformiste e la 
        sua passione civica. Il collezionismo di libri o di monete non fu la 
        manifestazione di un gioco vacuo di società o un modo intelligente di 
        investimento finanziario, bensì l'espressione di una cultura storica in 
        continua evoluzione e sempre nella prospettiva di una profonda 
        trasformazione della società.  |