De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Melchiorre Delfico: Memoria sulle majoliche di Castelli

inviata al ministro Corradini

di Vincenzo Clemente

In Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L’attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1981, pp. 206-213

All’inizio dell’estate 1788 Delfico richiese ed ottenne licenza di ritornare in Provincia [da Napoli ove si trovava], rimanendo ancora esonerato dall’incarico di assessore militare per potersi liberamente muovere da questa residenza (47): sappiamo che intendeva accompagnare il nipote Orazio, figlio di Giamberardino, all’Università di Pavia, e che si disponeva egli stesso ad un prolungato soggiorno nell’Italia settentrionale.

Nelle ultime righe della supplica di esonero diceva che in questo periodo si sarebbe tuttavia ingegnato «a non essere inutile cittadino». A tale impegno Delfico faceva quindi risalire la visita di quella estate alla terra di Castelli, e la Memoria in forma di lettera inviata al Ministro Corradini direttore del Consiglio delle Finanze sulla nota industria di maioliche, in data 1 luglio 1788 (48).

  

«… Si tratta di una fabbrica che dà sussistenza ad un intera popolazione [Castelli] - si legge nella Memoria -che introduce nel Regno e nella più scarsa Provincia tanto numerario col solo capitale del proprio travaglio, e che compensa in parte il debito col Forestiere… Essa è stranamente aggravata di dogana, di passi, ed altri dritti poco convenientemente introdotti, che la fanno tutto giorno decadere… Nello stato vicino, ed a molta prossimità si è stabilita una nuova fabbrica ricolma di favori ecciò mirasi decisamente su la rovina della nostra… L’ignoranza attuale dei fabbricanti tende fatalmente a far cadere in dispregio l’industria… Anche gli abusi feudali contribuiscono ad aggravarla… Per ristabilire quella manifattura e quel commercio di altro non bisogna che di un piccolo sguardo del Sovrano… »

 

Questa per sommi capi la traccia della Memoria, di oggetto prettamente politico-economico e ricca di inediti ed interessanti dati provinciali. Memoria per molti versi ravvicinabile a quella dei Risi. Quantunque qui si tratti non già di una cultura, bensì di una industria, si fa pur sempre leva su una risorsa economica del territorio con un obbiettivo mercantile e finanziario, e la richiesta di riforma si applica ancora una volta alla eliminazione di impacci feudali e fiscali che rischiano di soffocarla. La Terra di Castelli, posta sopra un colle do argilla alle immediate pendici del Gran Sasso, è patria di una antica fabbrica di ceramiche, «molto conosciute in Regno e fuori d’Italia ancora col nome di majoliche dei Castelli». Situata in territorio ingratissimo e non suscettibile di agricoltura. L’industria degli abitanti ha da più secoli trovato il proprio sostentamento elaborandovi l’abbondante argilla e giovandosi del comodo delle altrettanto abbondanti acque e combustibile. Per la bontà intrinseca del prodotto resistente alle alte temperature la fabbrica ha «avuto la preferenza sopra tutte le altre del regno, e sostenuto anche il concorso colle fabbriche forestiere». Il prodotto annuo è di 6000 ceste, ossia tremila salme, di vario vasellame per uso domestico. Di queste prendono annualmente la via dell’esportazione 4.500, cioè i due terzi, che vengono collocate sui mercati di Ancona e di Senigaglia. Il giro di affari supera i 15.000 ducati annui, che immessi nella circolazione della Provincia costituiscono una voce non secondaria al suo attivo («rinfrancano in qualche modo le ingenti somme che [dalla Provincia] escono per provvedersi de’ generi necessarj»); che costituiscono inoltre una voce di credito «coi Forestieri, già di troppo nostri creditori», rendendosi perciò degna di tutta l’attenzione del Consiglio delle Finanze.

Delfico «rappresenta» lo stato di progressiva decadenza in cui versa questa manifattura, ed il rischio che, ove non si venga agli opportuni ripari, essa possa correre alla totale rovina. Parlando delle cause della crisi, le ricollega ad una condizione generale all’economia del Regno: «Due – dice – sono le principali cagioni delle distruzioni delle manifatture in questo regno: l’una fu nelle cattive leggi, e disposizioni economiche; l’altra nella feudalità, che deturpa ed avvelena lo Stato Politico, Economico, e Morale nel Regno».

Nella individuazione delle «cause malefiche» che colpiscono in specie questa produzione e smercio, indica in primo luogo la esorbitanza della dogana di esportazione, che gli risulta oltre tutto pagata anche dalla parte non destinata alla esportazione. La tesi economica del Delfico è che tale dogana dovrebbe cadere solamente sul valore intrinseco del genere lavorato, cioè la creta, e con esclusione dei materiali d’importazione (piombo, stagno, sale e colori necessari alla verniciatura e smaltatura), i cui dazj sono già stati previamente pagati. Ogni ulteriore tassazione, che verrebbe necessariamente a gravare sul lavoro umano, costituisce «un germe di distruzione delle arti e delle industrie, che invece si dovrebbe creare e sostenere, e dalle quali abbisogna tanto il nostro Regno» (49).

Ora, poiché le majoliche non hanno alcun valore intrinseco ma solo quello prodotto dall’arte, esse neppure dovrebbero essere soggette al dazio di esportazione. Per contro, negli ultimi vent’anni la dogana era stata prima imposta e poi addirittura triplicata da grana 3 1/3 a 9 2/3 per cesta, «quasi che la terra argillosa fosse cresciuta di valore, o si pensasse di sopprimere un’arte dannosa allo Stato». Al rincaro della dogana si dovevano aggiungere il rincaro della legna, del piombo e dello stagno d’importazione.

Ma l’esorbitanza della dogana non era che una delle cause di decadimento di quell’industria,

 

«… e già ognun sa quanto nel Regno si ripetino frequentemente le coazioni e le vessazioni su le industrie de’ cittadini. I vasellami de’ quali si parla, e de’ quali s’è detto che per più di tre quarte parti vanno fuori del Regno, devono essere trasportati sopra animali da soma insino al Mare, e specialmente nella Marina di Giulia. Ma non vi sono disgraziatamente strade in Regno nelle quali non s trovino violenti ostacoli al commercio per antichi abusi baronali, che sussistono tuttora con pubblico danno e vergogna, e contro le lagnanze generali e la ragione anche riconosciuta dal Governo. Tali sono i passi; ed i poveri Castellani in una giornata di tragitto devono pagarne tre, cioè alla Guardia del Vomano, a Notaresco, ed a Giulia, ciascuno di grana tre, che vale a dire di nove grana a salma, l’istesso che si paga pel dazio doganale».

 

I cd. passi o pedaggi sono antiche angarie feudali, ma il fatto che il feudo di Roseto fosse rientrato in pertinenza del Sovrano non aveva portato alla loro abolizione, semplicemente tramutandoli in rendite del regio fisco.

«Né questo è tutto - continua la Memoria -. Arrivati che sono al luogo dell’imbarco senza che la merce ivi si contratti devono pagare il dritto di piazza, la custodia, la bastaria, che supera altrettanto gli altri dazi annoverati, e tutte queste contribuzioni cadono non sul valore reale della merce ma sulla manodopera» per un ulteriore importo di quattro carlini a salma.

Calcolato il valore intrinseco della merce in grana venticinque per salma, Delfico rileva che la dogana e questi ulteriori diritti ammontano a quasi il doppio di tale valore. E non sono ancora finite le «gravezze» cui è assoggettata questa manifattura:

 

«In ogni imbarco si devono pagare molte persone che non servono né al fisco né ai commercianti, ma tendono certamente ad impedire il commercio, tanto perché lo aggravano, quanto perché lo ritardano: di tale specie sono diversi dritti che si ripetono in ogni carico, cioè cinque carlini cadauno a tre ufficiali di mare; e carlini sette per la licenza del Portulano; ma quel ch’è più strano cinque carlini per ciascuno ai Deputati della salma; e da alcuni anni a questa parte una lettera dal Tribunale di Teramo che si paga carlini quattro, ed un’altra lettera o licenza dell’Amministrazione delle Dogane, che cresce progressivamente, giacchè principiò col pagarsi due carlini, nell’anno passato crebbe a quattro, ed in questo è cresciuto fino a cinque».

 

Siamo qui nell’ambito di quegli «uffici» e di quei «dritti» parassitari contro cui andrà in ultimo a convergere una parte essenziale del confronto antiburocratico di Delfico, ma che è già ben delineata nelle memorie dei Risi e della Grascia in note sulla venalità dei «bassi impieghi» provinciali, sulla corruttela delle leggi, e sugli abusi, eccessi, irregolarità e violenze dei dazi (50).

Il bilancio di questi ulteriori aggravi porta Delfico a considerazioni sulla necessaria diminuzione del lucro per gli addetti a quella delicata lavorazione, ed al conseguente decadimento dell’arte. Ed aggiunge: «così sono venute meno in questa Provincia le fabbriche de’ panni che prima ne facevano la ricchezza, l’industria delle calze di lana, e la coltivazione dello zafferano, che se fossero state riparate a tempo ancora felicemente sussisterebbero».

Esaurito con questo il tema delle «cattive leggi, e disposizioni economiche del regno» e passando alle gravezze feudali, la Memoria accenna alla angaria feudale delle acque che incide sui costi di fabbricazione:

 

«La fabbrica delle majoliche ha bisogno di acqua specialmente per i piccoli molinelli che macinano il bianco, o sia smalto dei vasellami; un piccolissimo getto di acqua basta a far muovere queste machinette appena di tre palmi di diametro; ma l’acqua si pretende sempre feudale (sia o non sia tale) e nell’incertezza stessa i poveri vassalli sono obbligati a pagare quindi per ogni molinello, o sia, macinando o no si devono pagare ducati sei. Sono ora quindici, e più sarebbero come più erano prima se non vi fosse questa non indifferente gravezza sull’arte che è per se stessa tapina»  (51).

 

Delfico, che già nella memoria dei risi ha sostenuto la tesi del libero uso delle acque, libero dono della natura, sostiene qui sussidiariamente che nelle liti per la demanialità delle acque – quale quella che si trascinava in Castelli – le Università o addirittura i «poveri particolari» non dovessero essere lasciati soli a fronteggiare le rivendicazioni baronali, ma dovessero essere sostenuti da «coloro che, essendo avvocati del Re, e del Real Patrimonio, devono esserlo anche della Nazione, che se in un aspetto è la famiglia, in un altro è il vero patrimonio del Sovrano».

Il discorso di politica economica generale trova un interessante sviluppo nella circostanza che ultimamente nel vicino Stato Pontificio e precisamente nella Città di Ascoli si era introdotta una fabbrica di ceramiche simile a quella di Castelli, senza dubbio intesa a sottrarle i mercati delle Marche. La manifattura ascolana godeva di una serie di vantaggi, che Delfico elencava come segue: «1. – il non essere assoggettata alla Dogana ed avere anzi una gratificazione del mezzo per cento sul valore della mercanzia; 2. – del non dover pagare i passi già da molti anni aboliti in quello Stato; 3. – il trasporto per terra assai più breve, più comodo e meno dispendioso»; e di un vantaggio particolare che derivava a quella fabbrica dalla particolare protezione del governo. Sappiamo che i Teramani seguivano la politica economica di Pio VI e gli indirizzi di sviluppo marchigiani con attenzione e spirito di emulazione – i Saggi del Nardi presentano in tal  senso più di uno spunto, ed è forse ancor più significativo che la visita del Galanti negli Abruzzi del 1791 comprendesse una attenta ricognizione nelle Marche, della quale attesta anche il diario di viaggio (52).

Dalla nuova politica economica pontificia, protezionistica e di incentivi all’industria il liberista Delfico traeva la seguente allarmata considerazione: «Già si sa che ora le Nazioni si fanno la maggior guerra col togliersi le industrie commerciabili, e che tolte che sono è impossibile il restituirle (53). Onde la cura de’ Supremi Amministratori dev’essere di gelosamente conservarle».

Passando infine alle indicazioni di riforma, Delfico dice che rimedio «aggevole, pronto ed efficace» consisterebbe nell’«abolizione della dogana e de’ passi e degli altri non necessari ostacoli che impediscono il commercio». Tra altre considerazioni in favore dell’abolizione della dogana, si osserva che questa, tanto pesante per l’industria, risulta essere «molto leggiera cosa per l’Erario», e lo sostiene sull’autorità del Galanti della Descrizione delle Due Sicilie, secondo le cui rilevazioni gli introiti doganali non superavano i ducati 600 annui: «Oggetto molto piccolo, se si riguarda in se stesso, oggetto, oggetto decrescente, e di tanta poca importanza, che non ha bisogno di rimpiazzi. Molto meno, e forse neppur la metà sarebbe ciocchè si paga per i passi, che in questa Provincia appartenete al Sovrano sarebbe un bell’esempio di generosità e di giustizia il vederli aboliti». «Tolti quest’incomodi principali, gli altri dovrebbero cessar anche in parte o diventare meno importuni, e così si otterrebbe il ristabilimento di questa fabbrica cadente».

Sembra evidente che Delfico non intendeva portare il discorso sugli uffici parassitari e sulle cariche venali al di là della denuncia di principio. Per le angarie dei passi e delle acque richiedeva la totale abolizione nei territori acceduti al Regio fisco; per le controversie sulla feudalità delle acque intendeva che l’avvocato del Re e del Real Patrimonio si erigesse a rivendicatore della demanialità contro il Barone. Infine richiedeva la particolare protezione del Sovrano su questa manifattura: essa avrebbe potuto esplicarsi o dando alla fabbrica dei Maestri e delle istruzioni in modo da aggiornarne le antiquate tecniche e gusto, oppure facendo venire in Napoli alcuni dei locali ad istruirsi: «La somma generosità del nostro Sovrano mi fa fondatamente sperare, che tale ajuto non sarebbe lontano dai di lui abituali sentimenti; e se di tanto che si spende a sostenere la Real Fabbrica di Porcellana [di Capodimonte] si convertisse una piccola porzione a sostenere quella manifattura, ch’è stata madre della Porcellana istessa, sarebbe quasi una dovuta gratitudine filiale, tanto più che nell’uno o nell’altro modo il dispendio sarebbe di piccola importanza».

Risulta che un decreto del 5 giugno 1789 venne incontro a quella parte della Memoria che aveva richiesto il totale sgravio fiscale di quelle majoliche (De Filippis Delfico, pp. 25-26).

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(47) Ecco il testo della Supplica di esonero (è nel "Fondo Delfico" B.P.T., Biblioteca Provinciale "M. Delfico" Te), che il De Filippis Delfico, cit., [Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, Teramo, Angeletti], 1836, p. 24, data all’inizio di giugno 1788:

 

S. R. M.

Sig..re

D. Melchiorre Delfico Assessor Militare per la Provincia di Teramo umilmente l’espone: come fin dal mese di Giugno del 1785 essendosi portato in Napoli con Vostra real licenza per causa di salute, vi restò poi per assistere ad affari di pubblico interesse, com’è noto alla M. V. ed al Consiglio delle Finanze; cioè, per rendere profittevole, ed impedire i danni della Coltivazione del Riso della Provincia di Teramo – per l’abolizione dei tribunali di Grascia nelle Provincie confinanti del regno – per la piantagione degli ulivi nei Regi Stucchi di Apruzzo - per lo stabilimento del Tribunale collegiato nella Provincia di Teramo - per l’uniformità dei pesi e misure nel Regno – e finalmente ancora per un nuovo ragionevole Sistema pel Tavoliere di Puglia. In tale stato di cose fin dal passato Mese di Ottobre dello scorso anno ebbe l’onore di essere destinato dalla M. V. Convisitore col carico di Segretario con voto nella Commissione per le Calabrie; ma non avendo ricevuti ulteriori ordini della M. V. per tale oggetto, e supponendo che detta Commissione non sia eseguibile nella stagione Estiva: ed avendo avuta anche la consolazione di veder qualche felice effetto delle sue fatighe, essendosi la Grascia abbolita, i pesi e misure cominciati a ridurre ad uniformità, il Tribunale collegiato stabilito; e gli altri affari promossi, anche rischiarati, e portati a buon termine pel felice compimento, si fa ardito a domandare il Real permesso di tornare in Provincia, per quel tempo che sarà grado alla M. V. E perché Signore il supplicante sente il preciso bisogno di sospendere per qualche tempo le abitudini sedentarie, e non essere obbligato in Provincia ad uno stato residenziale, supplica la M. V. a volergli accordar la grazia, di non dover riprendere in questo intervallo le funzioni della sua carica di Assessor Militare, ma far seguitare l’interini che serve da tre anni con piena soddisfazione della M.V.; mente l’Oratore si studierà in qualche modo a non esser inutile cittadino; ed il tutto avrà per somma grazia e Clemenza. Melchiorre Delfico.

(48) De Filippis Delfico indica la Memoria tra le opere inedite del Delfico con il titolo: Al ministro Corradini sule maioliche de’ Castelli. Tuttora inedita, tra le carte Delfico della B.P.T. vedila qui riprodotta in appendice al capitolo.

(49) Per ciò che riguarda il lavoro umano, Delfico lo ritiene già tassato «per mezzo delle funzioni fiscali generali in tutto il Regno». Di grande interesse si presenta invece il sottile sdoppiamento tra lavoro ed impresa (arte, industria), che Delfico ritiene un dovere del Governo il creare e sostenere, in quanto fondamento della ricchezza e del benessere nazionale. Per quanto riguarda gli effetti della Dogana, Delfico fa il caso delle fabbriche di panni: «… già si sa che le fabbriche di panni si sono distrutte in Regno per la cattiva anzi pessima intelligenza del Dazio doganale… l’esempio delle sete lavorate che escono dalla dogana di Napoli senza pagar più dazio alcuno e l’abolizione di tuttociò che si chiamava minutillo provano già abbastanza, quali siano le idee del nostro intelligente e clementissimo Sovrano e quelle ancora de’ supremi di lui Ministri per non estendermi in ulteriori deduzioni… per mostrare che il dazio doganale per le majoliche come per qualsiasi altra manifattura Nazionale è ugualmente contrario alla Giustizia ed alla vera utilità dello Stato.»

(50) «E’ noto al Supremo Consiglio che la maggior parte di tali officj sono nella origine di vergognosa ricordanza, ed il pubblico è portato a credere, sulla innata bontà del Sovrano, che non sarà l’ultima cura del suo animo il pensare all’abolizione dei medesimi. Ma la lettera del Tribunale, e la licenza dell’Amministrazione accennata sono fenomeni di nuova data, che non si possono supporre che opere de’ Subalterni per estendere l’autorità ed i prodotti delle loro offficine…»

(51) «Hanno tentato sottrarsi da quella vessazione o aggravio indicando che l’acqua non era stata infeudata agli attuali possessori del feudo. Ma quando chi è potente non può far altro, stanca gli Avversarj nell’orribile lunghezza de’ Giudizj, ed ottiene così ciocchè non può ottenere con una ingiustizia decisa…» La Memoria di Delfico ebbe tra l’altro l’effetto di rinfocolare la controversia tra i majolicari di Castelli e la marchesa della Valle Siciliana Emanuelle Alarçon y Mendoza feudataria di quel territorio, per il diritto sulle acque. La controversia resta documentata in una memoria a stampa segnalata dal Bindi (V. Bindi, Fonti della storia abruzzese. Supplemento alle biblioteche storico-topografiche degli Abruzzi di  C. Minieri Riccio ed A. Parascandolo, Napoli 1884): Memoria per la Sig.a Marchesa della valle Siciliana… con i majolicari del suo feudo di Castelli. L’Ill.re Principe di Sirignano Sig. D. Tommaso Caravita regio Consigliere, Commessario (pp. 12) data a Napoli il 15 dic. 1790 a firma dell’avv. Francesco Saverio Pepe «Fra i Corpi feudali, che la Marchesa della Valle Siciliana possedeva nel suo feudo di Castelli in Abruzzo, eravi i diritto di esigere annui ducati 6 per ciascun molinello da macinar colore e bianco delle majoliche che in quel feudo si fabbricano. Nonostante il pacifico ed immemorabile possesso di tale diritto, i majolicari nel 1789 decisero di appoggiarsi ad una determinazione del Supremo Consiglio delle Finanze del 5 Giugno 1789 con cui si ordinava, che la fabbrica delle majoliche di quel luogo si esentasse da tutte le gravezze e servitù, da qualsiasi fonte derivassero: a’ majolicari spettava solo l’obbligo di spedire l’opera in dogana, come tutte le altre derrate, senza bisogno né di mandati di portolano, né di licenza qualunque, ma col solo antico dazio di grana 3 a soma. Ora, a mantenere salvi i diritti della Marchesa, l’A. con la presente memoria dimostra, con ragioni storiche e giuridiche, che la Sig,ra Marchesa della Valle è nell’antico possesso di esigere…; che il possesso è giusto e legittimo, perché derivante dall’uso delle acque feudali del fiume Gamogna; che finalmente le eccezioni de’ majolicari non reggono» (pp. 43-44). Risulta in tutta evidenza la delibera del Consiglio delle Finanze del 5 giugno 1789 e l’implicazione antifeudale che ad essa si intendeva dare.

Nel redigere la descrizione della Provincia, Galanti scrive, evidentemente sulla scorta delle notizie raccolte dai Delfico: «… A Castelli, luogo posto alle falde del Gran Sasso, vi è una fabbrica di maiolica che ha molto spaccio a Venezia e nello Sato Pontificio, perché meglio delle altre resiste al fuoco, E’ però pesante e di minor apparenza di quella di Fabriano nello Stato papale. Questa fabbrica è oppressa dal barone, il quale esige dritti esorbitanti per l’uso delle acque. In questa perpetua collisione sono le arti tra di noi. Il Re con avere soppressi i dritti doganali procura ravvivarla, e forse spingerà più avanti le sue beneficenze con concedersi le acque alla fabbrica mercé una prestazione al barone…» (Galanti-Cortese cit., p. 144). Il brano ci anticipa il risultato della iniziativa di Delfico.

(52) Una lettera di Michele Torcia a Giamberardino Delfico del 4 aprile 1789 (in Opere complete di M.D., IV, pp. 148-150) ricorda l’ospitalità goduta a Teramo presso la casa di questi l’estate precedente, e si dilunga sulla fabbrica di Castelli da lui allora visitata. Dice testualmente: «… quanto lacrimevole sarà questo anno la fiera di Senigaglia per quei buoni maestri [i ceramisti castellani che aveva conosciuti], per l’editto pubblicato in Roma col 18 per cento di aumento di dazio sopra tutte le maioliche estere per favorire quelle di già introdotte nel paese. Voi dovreste farvi venire da Roma con destrezza un tale dritto e […] mandarmi un altro memoriale per mezzo de’ due loro paesani da me conosciuti Grue e Gentili alla porcellana del Re ed alla fabbrica del ponte…». Alla visita di Torcia a Teramo ed alla parte montuosa della Provincia accenna anche Nardi (Saggi…, cit., pp. 96-7), che ve lo aveva accompagnato e che gli aveva poi mandato la sua opera ancora manoscritta. Di ciò accenna la lettera citata, che menziona anche molto familiarmente il Barone Tullj, il Michitelli, il Preside di Teramo [Crell] «e tutta la sua onesta compagnia».

(53) «… Nel vicino Stato pontificio s’è introdotta una simile [manifattura] nella città di Ascoli, ed ha tutti i favori del governo per farla riuscire. Se prima che essa prenda piede e si estenda (ciocchè in principio è sempre difficile ad una nuova manifattura) la nostra sarà soccorsa e liberata dalle gravezze, onde possa sostenere coll’altrui un concorso, si deve credere che resterà confermata, senza che l’altra possa andare avanti; ma altrimenti vedremo con dispiacere trasmigrare i stessi nostri fabbricanti e col tempo rimanerci la sola memoria di un’arte che era tanto utile alla Provincia ed alla stessa Nazione».

Appendice I: Lettera di Melchiorre Delfico al Ministro Corradini, direttore del Consiglio

 delle Finanze sulla nota industria di maioliche, in data 1 luglio 1788

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Trascrizione della lettera

(da Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777 - 1798), pp. 222 - 229. L’attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze. Roma, Ediz. Storia Letteraria, 1981)

Trascrizione della lettera, pag. 222

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Trascrizione della lettera, pag. 226

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Trascrizione della lettera, pag. 227

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Trascrizione della lettera, pag. 228

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Trascrizione della lettera, pag. 229

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Proprietà della Biblioteca Provinciale "Melchiorre Dèlfico", Teramo