De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

Homa page 

La giovinezza di Verdi

narrata dal suo più celebre caricaturista

di Emidio Agostinoni

In  "IL SECOLO XX", anno VII, 1908

 

In questi giorni ricorre il settimo anniversario della morte di Giuseppe Verdi. Il nostro grande Maestro chiuse la sua vita gloriosa il 17 gennaio 1901, e ogni anno si commemora solennemente la morte di questo mago della melodia, di questa fulgida gloria italica, le cui opere continuano a trionfare sulle grandi scene di tutto il mondo. Sono quindi di viva attualità le pagine seguenti, che trattano di un nobile e genialissimo artista che fu intimo amico di Verdi ed è stato il più famoso de’ suoi caricaturisti, Melchiorre Dèlfico, che scrisse e illustrò una biografia del Maestro, rimasta incompiuta, e finora inedita. Sono sedici pagine, scritte con nitida calligrafia, che portano ai lati e nel mezzo delle gustose scenette, dipinte all’acquerello, che segano i primi passi del futuro autore della Traviata, del Rigoletto, del Falstaff. Le poche che riproduciamo bastano a dare un’idea del genialissimo lavoro e a farci rimpiangere che la morte abbia interrotto il libro curioso che, sia pur con simpatico umorismo, ci avrebbe fatto conoscere il Maestro negli episodi più caratteristici della sua onesta e modesta vita privata, oltre che nel fulgore delle sue giornate trionfali.

 

***

 

NOBILE RARO

 

Ero giovinetto e già insegnavo. Due scolari, un maschio ed una ragazza, della mia età o poco meno, mi tenevano in gran rispetto e mi costringevano a darmi un grave sussiego per poter poi giocar con loro senza seri pericoli per la dignità del mio grado.

Un giorno mi parve che i due scolari avessero dimenticato di lasciare in giardino la confidenza eccessiva. Nella sala accanto si provava un coro accompagnato da clamori e risa; i due ballavano sulle sedie e leggevano con le traveggole. Ero quasi disperato e non potevo infuriarmi; avrei voluto gridare contro i cantori ma non ero sicuro della loro colpa.

Non seppi più cercare un mezzo miracoloso. Mi sembrava che tutto fosse inutile ormai: che gli scolari non volessero più saperne di fingersi tali, che dovessimo inesorabilmente tornare compagni di giuoco, per sempre. Ero come trasognato, mi vedevo precipitato in fondo in fondo, in un abisso senza onori e senza onorario; e mi pareva che i due amici fossero lassù sull’orlo e ridessero forte e mi gridassero felici: "vieni! torna!... giocheremo sempre!... sempre!..."

La porta si staccò dalla vetrata malvolentieri con una scrollata di lastre, la folla gaia sboccò nella nostra stanza. Gli scolari si raccolsero fissi nella dignità di due modelli della compunzione perfetta. Io li guardai stupito e fissai rassicurato quelli che passavano. Il primo, un vecchio fresco e tutto bianco, mi fissò gli occhietti neri che ridevano sempre, e mi disse con un cert’aria solenne affidando tutta la serietà al suo bel naso: - Bravo professore, continuate…- I due non battettero ciglio e fecero onore come statue al nuovo titolo pomposo; il resto della comitiva passò senza neanche accorgersi della presenza d’un professore. Quando l’altra porta si chiuse dietro l’ultimo, non attesi un minuto, era troppo pericoloso; ordinai: - In giardino! – e credo fossi il primo a giungervi, libero come una farfalla…

La lezione non fu più ripresa quel giorno. La casa era tutta in festa. Giungevano fino al giardino le note allegre, spesso troppo confuse, a volte più chiare, portando insieme le ultime parole d’un ritornello preferito che tutti cantavano a gran fiato:

 

… Don Mà, don Mà

Ti faccio, ti faccio ti faccio…

Ti faccio sciuscià…

 

Era la canzone per "Don Mà" (il giornale napoletano Don Marzio) che aveva conquistate tante simpatie e tante gole a Piedigrotta. E il primo corista era l’autore in persona, Melchiorre Dèlfico, il vecchio di settant’anni sempre giovane, alto, diritto, irrequieto, fresco e tutto bianco, con gli occhietti vividi di nero e di luce.

 

 

UN TRIONFO

 

Non so dirvi con quanta gioia tornai a casa dopo la scoperta del personaggio che mi aveva gratificato del grosso titolo di professore. Non lo dissi alla mamma per timore che me lo sciupasse col suo sorriso benevolo. Ma in compenso le raccontai tutto il resto, ed essa come se avesse rivisto un amico: Ah Don Melchiorre!... Sfido io, è stato sempre la gioia di mezzo mondo, a Napoli, a Teramo… Dovunque arrivava tutti lo volevano, tutti lo ammiravano; tutti gli volevano bene, e lui era grande e buono con tutti… Ricordo quando venne a Teramo. Io era in casa del fratello, del conte senatore, allora. Lui giunse coi due figli maggiori, uno brutto e l’altro freddoloso, e venne nel palazzo ben fornito. La città era in grande attesa. Il carnevale sperava l’anima dal teatro, e il teatro attendeva la fortuna dal concittadino illustre.

La stagione procedeva fiacca, gli artisti vedevano buio, l’impresario studiava già la via più breve. L’unica salvezza era ormai affidata al Parafulmine, la nuova opera buffa, parole e musica del nobile compaesano tornato apposta da Napoli. Solo essa poteva parare i fulmini dei creditori, e i pericoli della troppa fame. La nuova opera fu armata con un miracolo di destrezza. L’autore era insieme poeta, musicista e caricaturista. Aveva scritto il libretto e fece da suggeritore, aveva composta la musica e fu direttore d’orchestra, aveva immaginato i costumi e guidò i sarti. Fu un successo enorme, clamoroso. Gli artisti si rimpolparono e i cittadini guarirono dal mal di nervi.

Ma per quanto fosse l’entusiasmo, la popolazione scarsa limitò il numero delle repliche. Bisognò passare al Trovatore. La cassetta scemò subito senza speranza, le rappresentazioni si trascinarono stentate, e per colmo di disgrazia si finì col malanno del tenore. Già si prospettava la calamità di una sottoscrizione pubblica per rimpatriare almeno i coristi, i comprimari e le sei ballerine, quando alcuni cittadini influenti ricordarono la bella voce di Don Melchiorre.

Si diedero l’aria di benefattori, corsero nel palazzo, spifferarono il progetto, ed ebbero la gioia di poter ordinare dopo dieci minuti l’aggiunta di una larga coda al manifesto incollato sui quattro muri più in vista.

Al posto del solito: Riposo per constatata indisposizione, si lesse col più lieto stupore: La parte del tenore sarà sostenuta dall’illustrissimo MARCHESE MELCHIORRE DELFICO, che gentilmente si presta.

Inutile dire che il botteghino fu preso d’assalto e il teatro gremito. Il poeta musicista e caricaturista, cantò senza prova come se avesse al suo attivo dieci anni di carriera, e fu tanta la sorpresa e la festa che vollero riportarlo a casa in trionfo, in alto sulle spalle, fra le luci violente d’una fiaccolata improvvisata, nel clamore di tutto un carnevale riconoscente.

 

 

VITA FORTUNOSA

 

I teramani lo rividero ancora rare volte. Giovinetto aveva sentito in sé qualche cosa più del solo nome comune col nonno celebre, col vecchio Melchiorre che seppe di lettere e di scienze, che fu caro ai nostri maggiori della fine del ‘700 e del principio del secolo seguente, che fu amico di Alessandro Volta e scrittore di economia agreste in lingua pura.

Il piccolo Melchiorre a sedici anni abbandonò Teramo, la casa comoda e la vita tranquilla. Arrischiò il viaggio di tredici giorni in diligenza per la gola di Valloscura, il piano di Cinquemiglia e i boschi di Montenero. Scese a Napoli e non volle più ripassare l’Appennino. Alla giovinezza spensierata seguì la vita difficile d’una grossa famiglia. E pure non ebbe un momento di tristezza, un istante di rimpianto. Le sue terre d’Abruzzo gli avrebbero concesso più pane, ma egli preferì la gioia dell’arte non sempre ben fornita. Sopportò ogni sacrificio ma volle tutto il sorriso di Napoli bella.

Il trionfo non l’ebbe solo in Teramo. Il Parafulmine e La Fiera (un’altra opera dello stesso genere) giunsero fino a Milano ed anche più lontano. Una sua Messa di requiem andò a confortare perfino i morti di New York, e tante canzoni sue passarono dai salotti nelle strade, per diffondersi nelle campagne.

Godette l’amicizia dei migliori musicisti, di verdi specialmente. Ma se la fama di lui non è del tutto spenta dopo dieci anni dalla morte, il merito non è certo della sua musica.

Verdi lo conobbe per la musica, ma l’amò per le caricature. Durante cinqunt’anni non vi fu avventura napoletana, trionfo o disgrazia nazionale che non fosse fissata comicamente dalla sua matita, non vi fu uomo mediocre  o grande che si salvasse dalla sua punta. Le donne furono meno perseguitate, ma non mancarono le proteste delle cantanti celebri e gli sdegni delle protettrici dei bars in voga.

Ogni settimana era il Caporal Terribile che frustava, motteggiava, lambiva, accarezzava per lui gli uomini e le cose, le gesta politiche e i pettegolezzi piccanti. Ogni anno era il suo Almanacco che passava in rassegna casi ed avvenimenti; e fu la sua Storia di Pompei animata dagli amici più noti, che fece conoscere a troppi ignoranti paesani tutto il valore di quei mozziconi eloquenti per gli stranieri soltanto.

Non vi fu mai satira più garbata e più acuta!

Il Caporal Terribile non possedeva troppe risorse, gli Almanacchi non giungevano in troppe case, Pompei era troppo aristocratico, i guadagni erano sempre scarsi e la famiglia cresceva… Alcuni ammiratori inglesi lo chiamarono a Londra. Guadagnava cinque sterline per ogni muso, ma vollero imporgli la posa del soggetto. Non vi era abituato, aveva sempre lavorato a memoria, era sempre stato libero nella scelta dei tipi.

Si annoiò dell’insistenza dei protettori, s’infuriò contro la nebbia, e tornò salvo nell’azzurro senza sterline…

 

 

L’ULTIMO LAVORO

 

Verdi l’amò perle caricature che gli procurarono tante ore liete. Ogni opera nuova del maestro era subito commentata da una composizione allegorica, da una sfilata di tipi. Ogni nuova rappresentazione in Napoli era illustrata con le facce troppo espressive degli attori principali.  Verdi non mancava mai fra le sue creature e i suoi interpreti; v’era sempre, e sempre in un atteggiamento caratteristico. Riunendo tutte le caricature verdiane del Dèlfico si potrebbe rivedere l’anima del Cigno di Busseto.

Forse questa speranza ispirò all’amico Melchiorre l’idea di narrare con caricature tutta la vita di Giuseppe Verdi.

Tornato a Napoli, qualche giorno dopo che m’ebbe salutato "professore", scrisse al Maestro per chiedergli licenza di fare, e incominciò:

"Il viaggiatore che percorre in strada ferrata il lungo tratto da Piacenza a Parma…" ed egli si dipinse ritto a gambe aperte sopra un minuscolo treno trottante lungo un vialone…

In questa guisa arriva a Roncole. Là ci mostra la botteguccia dei coniugi Verdi e ci fa fare, con la loro, la conoscenza di un bambino che non si vede ma che già affatica due ufficiali francesi dello Stato civile i quali potrebbero essere scambiati senza colpa per guardie urbane. I tempi volgevano tristi, a stranieri succedevano stranieri peggiori. Vediamo sfilare austriaci gialli e russi impellicciati, vediamo la folla più debole rifugiarsi nelle chiese, e incontriamo il piccolo Verdi sulle spalle della mamma che fugge in alto su pel campanile.

Un quadretto delizioso ci presenta il primo maestro dell’innocente scampato con le campane. Un suonatore girovago "magro, intirizzito, cencioso, che col suo violino appoggiato sotto il mento andava spesso a suonare davanti alle invetriate della posteria". Una frotta di piccoli ammiratori s’accalca a bocche aperte tutt’intorno: fra i tanti v’era un bambino muto, pensoso…

Il consiglio del suonatore invece affaccendato a servir messa e far da chierico, lo sorprendiamo ruzzoloni giù per la scalinata dell’altare per colpa di poca attenzione sua e di scarsa pazienza del celebrante. Lo compiangiamo svenuto e medicato, lo salutiamo contento davanti alla spinetta che costò tutti i risparmi degli avventori.

Le caricature seguenti accompagnano il ragazzo fra le prime difficoltà e le prime gioie. Ce lo mostrano quando studia attento, quando ripete al maestro-organista, quando sforza le dita per toccar l’ottava, quando più non la trova e fracassa la famosa spinetta, quando infine raggiunge le cime d’una scala lunga…

Più innanzi lo vediamo a braccia conserte fisso ai lumi letterari lo vediamo a braccia conserte fisso ai lumi letterari del canonico Saletta; affaccendato in continui viaggi fra Busseto e le Roncole per sonarvi l’organo almeno la domenica; sprofondato nel buio in una pozzanghera; salvato da una contadina pietosa…

E ancora. Fattorino d’un grosso negoziante, presidente della Società Filarmonica di Busseto; partecipante apprezzato in tutti i concerti di banda e d’orchestra; emulo ed ammiratore della giovane figliuola del suo principale, suonatrice del pianoforte viennese "Fritz"…

 

 

OBLIO

 

Con questa pagina l’ultimo lavoro fu interrotto.

Vecchio sempre giovane, che aveva fatto sorridere una generazione intera, morì di mestizia, d’ipocondria. L’ultimo lavoro non ci avverte di questa fine. L’arguta giocondità della sua matita giunge fino alle ultime figure, all’ultima scena della prima giovinezza dell’amico prediletto. I due innamorati che s’intendono senza parlare, freschi e lieti come due fiori, non fanno pensare alla mano d’un moribondo!

Il vecchio si rinchiuse in sé e si spense in fretta…

Sulla sua casa, nel cimitero di Portici ospitale, non v’è un segno che ricordi Melchiorre Dèlfico fra tanti altri meno degni!...

Il Secolo XX, pag 120

Il Secolo XX, pag 120

Il Secolo XX, pag 121

Il Secolo XX, pag 121

Il Secolo XX, pag 122

Il Secolo XX, pag 122

Il Secolo XX, pag 123

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Il Secolo XX, pag 124
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Il Secolo XX, pag 125

Il Secolo XX, pag 125
Il Secolo XX, pag 126
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Il Secolo XX, pag 127

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Il Secolo XX, pag 128

Il Secolo XX, pag 128