In questi giorni
ricorre il settimo anniversario della morte di Giuseppe Verdi.
Il nostro grande Maestro chiuse la sua vita gloriosa il 17
gennaio 1901, e ogni anno si commemora solennemente la morte di
questo mago della melodia, di questa fulgida gloria italica, le
cui opere continuano a trionfare sulle grandi scene di tutto il
mondo. Sono quindi di viva attualità le pagine seguenti, che
trattano di un nobile e genialissimo artista che fu intimo amico
di Verdi ed è stato il più famoso de’ suoi caricaturisti,
Melchiorre Dèlfico, che scrisse e illustrò una biografia del
Maestro, rimasta incompiuta, e finora inedita. Sono sedici
pagine, scritte con nitida calligrafia, che portano ai lati e
nel mezzo delle gustose scenette, dipinte all’acquerello, che
segano i primi passi del futuro autore della Traviata, del
Rigoletto, del Falstaff. Le poche che riproduciamo bastano a
dare un’idea del genialissimo lavoro e a farci rimpiangere che
la morte abbia interrotto il libro curioso che, sia pur con
simpatico umorismo, ci avrebbe fatto conoscere il Maestro negli
episodi più caratteristici della sua onesta e modesta vita
privata, oltre che nel fulgore delle sue giornate trionfali.
***
NOBILE RARO
Ero giovinetto e
già insegnavo. Due scolari, un maschio ed una ragazza, della mia
età o poco meno, mi tenevano in gran rispetto e mi costringevano
a darmi un grave sussiego per poter poi giocar con loro senza
seri pericoli per la dignità del mio grado.
Un giorno mi
parve che i due scolari avessero dimenticato di lasciare in
giardino la confidenza eccessiva. Nella sala accanto si provava
un coro accompagnato da clamori e risa; i due ballavano sulle
sedie e leggevano con le traveggole. Ero quasi disperato e non
potevo infuriarmi; avrei voluto gridare contro i cantori ma non
ero sicuro della loro colpa.
Non seppi più
cercare un mezzo miracoloso. Mi sembrava che tutto fosse inutile
ormai: che gli scolari non volessero più saperne di fingersi
tali, che dovessimo inesorabilmente tornare compagni di giuoco,
per sempre. Ero come trasognato, mi vedevo precipitato in fondo
in fondo, in un abisso senza onori e senza onorario; e mi pareva
che i due amici fossero lassù sull’orlo e ridessero forte e mi
gridassero felici: "vieni! torna!... giocheremo sempre!...
sempre!..."
La porta si
staccò dalla vetrata malvolentieri con una scrollata di lastre,
la folla gaia sboccò nella nostra stanza. Gli scolari si
raccolsero fissi nella dignità di due modelli della compunzione
perfetta. Io li guardai stupito e fissai rassicurato quelli che
passavano. Il primo, un vecchio fresco e tutto bianco, mi fissò
gli occhietti neri che ridevano sempre, e mi disse con un
cert’aria solenne affidando tutta la serietà al suo bel naso: -
Bravo professore, continuate…- I due non battettero ciglio e
fecero onore come statue al nuovo titolo pomposo; il resto della
comitiva passò senza neanche accorgersi della presenza d’un
professore. Quando l’altra porta si chiuse dietro l’ultimo, non
attesi un minuto, era troppo pericoloso; ordinai: - In giardino!
– e credo fossi il primo a giungervi, libero come una farfalla…
La lezione non
fu più ripresa quel giorno. La casa era tutta in festa.
Giungevano fino al giardino le note allegre, spesso troppo
confuse, a volte più chiare, portando insieme le ultime parole
d’un ritornello preferito che tutti cantavano a gran fiato:
… Don Mà, don Mà
Ti faccio, ti faccio ti faccio…
Ti faccio sciuscià…
Era la canzone
per "Don Mà" (il giornale napoletano Don Marzio) che
aveva conquistate tante simpatie e tante gole a Piedigrotta. E
il primo corista era l’autore in persona, Melchiorre Dèlfico, il
vecchio di settant’anni sempre giovane, alto, diritto,
irrequieto, fresco e tutto bianco, con gli occhietti vividi di
nero e di luce.
UN TRIONFO
Non so dirvi con
quanta gioia tornai a casa dopo la scoperta del personaggio che
mi aveva gratificato del grosso titolo di professore. Non lo
dissi alla mamma per timore che me lo sciupasse col suo sorriso
benevolo. Ma in compenso le raccontai tutto il resto, ed essa
come se avesse rivisto un amico: Ah Don Melchiorre!... Sfido io,
è stato sempre la gioia di mezzo mondo, a Napoli, a Teramo…
Dovunque arrivava tutti lo volevano, tutti lo ammiravano; tutti
gli volevano bene, e lui era grande e buono con tutti… Ricordo
quando venne a Teramo. Io era in casa del fratello, del conte
senatore, allora. Lui giunse coi due figli maggiori, uno brutto
e l’altro freddoloso, e venne nel palazzo ben fornito. La città
era in grande attesa. Il carnevale sperava l’anima dal teatro, e
il teatro attendeva la fortuna dal concittadino illustre.
La stagione
procedeva fiacca, gli artisti vedevano buio, l’impresario
studiava già la via più breve. L’unica salvezza era ormai
affidata al Parafulmine, la nuova opera buffa, parole e
musica del nobile compaesano tornato apposta da Napoli. Solo
essa poteva parare i fulmini dei creditori, e i pericoli della
troppa fame. La nuova opera fu armata con un miracolo di
destrezza. L’autore era insieme poeta, musicista e
caricaturista. Aveva scritto il libretto e fece da suggeritore,
aveva composta la musica e fu direttore d’orchestra, aveva
immaginato i costumi e guidò i sarti. Fu un successo enorme,
clamoroso. Gli artisti si rimpolparono e i cittadini guarirono
dal mal di nervi.
Ma per quanto
fosse l’entusiasmo, la popolazione scarsa limitò il numero delle
repliche. Bisognò passare al Trovatore. La cassetta scemò
subito senza speranza, le rappresentazioni si trascinarono
stentate, e per colmo di disgrazia si finì col malanno del
tenore. Già si prospettava la calamità di una sottoscrizione
pubblica per rimpatriare almeno i coristi, i comprimari e le sei
ballerine, quando alcuni cittadini influenti ricordarono la
bella voce di Don Melchiorre.
Si diedero
l’aria di benefattori, corsero nel palazzo, spifferarono il
progetto, ed ebbero la gioia di poter ordinare dopo dieci minuti
l’aggiunta di una larga coda al manifesto incollato sui quattro
muri più in vista.
Al posto del
solito: Riposo per constatata indisposizione, si lesse
col più lieto stupore: La parte del tenore sarà sostenuta
dall’illustrissimo MARCHESE MELCHIORRE DELFICO, che
gentilmente si presta.
Inutile dire che
il botteghino fu preso d’assalto e il teatro gremito. Il poeta
musicista e caricaturista, cantò senza prova come se avesse al
suo attivo dieci anni di carriera, e fu tanta la sorpresa e la
festa che vollero riportarlo a casa in trionfo, in alto sulle
spalle, fra le luci violente d’una fiaccolata improvvisata, nel
clamore di tutto un carnevale riconoscente.
VITA FORTUNOSA
I teramani lo
rividero ancora rare volte. Giovinetto aveva sentito in sé
qualche cosa più del solo nome comune col nonno celebre, col
vecchio Melchiorre che seppe di lettere e di scienze, che fu
caro ai nostri maggiori della fine del ‘700 e del principio del
secolo seguente, che fu amico di Alessandro Volta e scrittore di
economia agreste in lingua pura.
Il piccolo
Melchiorre a sedici anni abbandonò Teramo, la casa comoda e la
vita tranquilla. Arrischiò il viaggio di tredici giorni in
diligenza per la gola di Valloscura, il piano di Cinquemiglia e
i boschi di Montenero. Scese a Napoli e non volle più ripassare
l’Appennino. Alla giovinezza spensierata seguì la vita difficile
d’una grossa famiglia. E pure non ebbe un momento di tristezza,
un istante di rimpianto. Le sue terre d’Abruzzo gli avrebbero
concesso più pane, ma egli preferì la gioia dell’arte non sempre
ben fornita. Sopportò ogni sacrificio ma volle tutto il sorriso
di Napoli bella.
Il trionfo non
l’ebbe solo in Teramo. Il Parafulmine e La Fiera
(un’altra opera dello stesso genere) giunsero fino a Milano ed
anche più lontano. Una sua Messa di requiem andò a
confortare perfino i morti di New York, e tante canzoni sue
passarono dai salotti nelle strade, per diffondersi nelle
campagne.
Godette
l’amicizia dei migliori musicisti, di verdi specialmente. Ma se
la fama di lui non è del tutto spenta dopo dieci anni dalla
morte, il merito non è certo della sua musica.
Verdi lo conobbe
per la musica, ma l’amò per le caricature. Durante cinqunt’anni
non vi fu avventura napoletana, trionfo o disgrazia nazionale
che non fosse fissata comicamente dalla sua matita, non vi fu
uomo mediocre o grande che si salvasse dalla sua punta. Le
donne furono meno perseguitate, ma non mancarono le proteste
delle cantanti celebri e gli sdegni delle protettrici dei
bars in voga.
Ogni settimana
era il Caporal Terribile che frustava, motteggiava,
lambiva, accarezzava per lui gli uomini e le cose, le gesta
politiche e i pettegolezzi piccanti. Ogni anno era il suo
Almanacco che passava in rassegna casi ed avvenimenti; e fu
la sua Storia di Pompei animata dagli amici più noti, che
fece conoscere a troppi ignoranti paesani tutto il valore di
quei mozziconi eloquenti per gli stranieri soltanto.
Non vi fu mai
satira più garbata e più acuta!
Il Caporal
Terribile non possedeva troppe risorse, gli Almanacchi
non giungevano in troppe case, Pompei era troppo
aristocratico, i guadagni erano sempre scarsi e la famiglia
cresceva… Alcuni ammiratori inglesi lo chiamarono a Londra.
Guadagnava cinque sterline per ogni muso, ma vollero imporgli la
posa del soggetto. Non vi era abituato, aveva sempre lavorato a
memoria, era sempre stato libero nella scelta dei tipi.
Si annoiò
dell’insistenza dei protettori, s’infuriò contro la nebbia, e
tornò salvo nell’azzurro senza sterline…
L’ULTIMO LAVORO
Verdi l’amò
perle caricature che gli procurarono tante ore liete. Ogni opera
nuova del maestro era subito commentata da una composizione
allegorica, da una sfilata di tipi. Ogni nuova rappresentazione
in Napoli era illustrata con le facce troppo espressive degli
attori principali. Verdi non mancava mai fra le sue creature e
i suoi interpreti; v’era sempre, e sempre in un atteggiamento
caratteristico. Riunendo tutte le caricature verdiane del
Dèlfico si potrebbe rivedere l’anima del Cigno di Busseto.
Forse questa
speranza ispirò all’amico Melchiorre l’idea di narrare con
caricature tutta la vita di Giuseppe Verdi.
Tornato a
Napoli, qualche giorno dopo che m’ebbe salutato "professore",
scrisse al Maestro per chiedergli licenza di fare, e incominciò:
"Il viaggiatore
che percorre in strada ferrata il lungo tratto da Piacenza a
Parma…" ed egli si dipinse ritto a gambe aperte sopra un
minuscolo treno trottante lungo un vialone…
In questa guisa
arriva a Roncole. Là ci mostra la botteguccia dei coniugi Verdi
e ci fa fare, con la loro, la conoscenza di un bambino che non
si vede ma che già affatica due ufficiali francesi dello Stato
civile i quali potrebbero essere scambiati senza colpa per
guardie urbane. I tempi volgevano tristi, a stranieri
succedevano stranieri peggiori. Vediamo sfilare austriaci gialli
e russi impellicciati, vediamo la folla più debole rifugiarsi
nelle chiese, e incontriamo il piccolo Verdi sulle spalle della
mamma che fugge in alto su pel campanile.
Un quadretto
delizioso ci presenta il primo maestro dell’innocente scampato
con le campane. Un suonatore girovago "magro, intirizzito,
cencioso, che col suo violino appoggiato sotto il mento andava
spesso a suonare davanti alle invetriate della posteria".
Una frotta di piccoli ammiratori s’accalca a bocche aperte
tutt’intorno: fra i tanti v’era un bambino muto, pensoso…
Il consiglio del
suonatore invece affaccendato a servir messa e far da chierico,
lo sorprendiamo ruzzoloni giù per la scalinata dell’altare per
colpa di poca attenzione sua e di scarsa pazienza del
celebrante. Lo compiangiamo svenuto e medicato, lo salutiamo
contento davanti alla spinetta che costò tutti i risparmi degli
avventori.
Le caricature
seguenti accompagnano il ragazzo fra le prime difficoltà e le
prime gioie. Ce lo mostrano quando studia attento, quando ripete
al maestro-organista, quando sforza le dita per toccar l’ottava,
quando più non la trova e fracassa la famosa spinetta, quando
infine raggiunge le cime d’una scala lunga…
Più innanzi lo
vediamo a braccia conserte fisso ai lumi letterari lo vediamo a
braccia conserte fisso ai lumi letterari del canonico Saletta;
affaccendato in continui viaggi fra Busseto e le Roncole per
sonarvi l’organo almeno la domenica; sprofondato nel buio in una
pozzanghera; salvato da una contadina pietosa…
E ancora.
Fattorino d’un grosso negoziante, presidente della Società
Filarmonica di Busseto; partecipante apprezzato in tutti i
concerti di banda e d’orchestra; emulo ed ammiratore della
giovane figliuola del suo principale, suonatrice del pianoforte
viennese "Fritz"…
OBLIO
Con questa
pagina l’ultimo lavoro fu interrotto.
Vecchio sempre
giovane, che aveva fatto sorridere una generazione intera, morì
di mestizia, d’ipocondria. L’ultimo lavoro non ci avverte di
questa fine. L’arguta giocondità della sua matita giunge fino
alle ultime figure, all’ultima scena della prima giovinezza
dell’amico prediletto. I due innamorati che s’intendono senza
parlare, freschi e lieti come due fiori, non fanno pensare alla
mano d’un moribondo!
Il vecchio si
rinchiuse in sé e si spense in fretta…
Sulla sua casa,
nel cimitero di Portici ospitale, non v’è un segno che ricordi
Melchiorre Dèlfico fra tanti altri meno degni!...
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