De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Il giudizio sulla Rivoluzione Francese

Capitolo II° di "Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale", Pisa, Edizioni ETS, 1996

di Gabriele Carletti

Le considerazioni sulla Francia rivoluzionaria, non certo numerose e talvolta laconiche (1), sono per lo più rintracciabili nei suoi appunti, in brani di memorie inedite o non terminate e, soprattutto, nella corrispondenza con gli amici. Il carattere frammentario dei suoi giudizi non deve però indurre a credere in una scarsa o tardiva attenzione verso la grande rivoluzione, della quale, anzi, subirà presto l'influenza e la cui portata egli ritiene si estenda ben oltre i confini francesi.

Già prima dell'89 Delfico guarda alla Francia, al pari di altri illuministi napoletani, «non solo come alla potenza egemone dell'Europa continentale, ma come alla nazione guida in fatto di cultura, di costume, di moda» (2). Un interesse particolare mostra per le opere di Necker, la cui politica di riforme alimenta nuove e maggiori speranze in quanti, come lui, vedono nell'assolutismo illuminato la sola possibilità di rinnovamento del paese (3). Nei confronti del banchiere ginevrino («illustre» e «sublime autore», «miglior conoscitore dei rapporti della pubblica economia con la felicità nazionale» (4), che denuncia l'iniqua distribuzione delle fortune e  difende gli interessi dei non proprietari rivendicando l'intervento dello Stato per impedire che i privilegi della proprietà possano generare sommosse e rivolte popolari, il Teramano nutre una profonda ammirazione (5) che non gli impedisce tuttavia di muovergli qualche garbata critica, convinto che «senza una parità di circostanze» difficilmente le stesse leggi possono essere adottate indifferentemente in paesi diversi.     

Nel 1787 egli ha il presentimento di un prossimo sconvolgimento della società francese per le tante «difformità politiche ed economiche» ancora esistenti, a causa della incapacità di rimuovere vecchi «abusi radicati» (6). Nella persistenza degli abusi, primo fra tutti «l'addensamento» delle ricchezze nelle mani di pochi, lo scrittore abruzzese vede il formarsi di «dispotiche aristocrazie», spesso all'origine di «frequenti rivoluzioni», di «mostri politici» e di «feroci convulsioni negli Stati» (7).

Con l'annuncio della convocazione degli Stati generali [agosto 1788] e le richieste del Terzo Stato, la sua curiosità per le vicende d'oltralpe si fa ancora maggiore. Gli scrive Giuseppe Gorani (8) il 28 marzo 1789:

La Francia non s'occupa d'altro che de' suoi prossimi Stati Generali, i quali rigenereranno la monarchia. Da otto mesi in qua non si stampa in Parigi se non cose relative a quel grande avvenimento. E' da desiderarsi che non insorga in questo tempo alcuna guerra che possa disturbare le misure di Necker per lo stabilimento sicuro del credito della nazione francese e per la felicità permanente di quella grande monarchia. Il re è risoluto a sostenere il suo ministro e tutto sembra promettere una rivoluzione felice nel tempo istesso in cui tante altre monarchie tendono alla rovina (9).

Del dibattito politico che si svolge in Francia alla vigilia dell'apertura degli Stati generali Delfico non doveva essere del tutto ignaro tanto più che, in quel periodo vivendo in Lombardia (10), ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, Soave (11), i fratelli Verri, Parini, Spannocchi (12), Amoretti (13) ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia (14). Né certo gli sarà stato difficile, durante la permanenza nel Nord Italia, tenersi informato sugli avvenimenti francesi attraverso la stampa. Infatti, non solo le rivendicazioni del Terzo Stato, che incontrano favorevole accoglienza pure sui fogli più moderati come la stessa «Gazzetta Enciclopedica» di Milano redatta da Soave (15), ma anche la presa della Bastiglia, i primi decreti dell'Assemblea Costituente, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino trovano ampia risonanza sui numerosi periodici e gazzette allora in circolazione (16). E' lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardasse con simpatia a quanto stava accadendo oltralpe, come si ricava dalla lettera del 7 agosto 1789 di Spannocchi, il quale si rivolge a Delfico come ad un amico che condivide lo stesso entusiasmo per le «nuove» di Francia, quasi queste rappresentassero per entrambi la realizzazione di ideali comuni:

Cosa dite dei francesi? Danno de' bei colpi al Dispotismo e l'assemblea può finire tranquillamente il suo lavoro, tutta l'Europa ne sentirà in breve l'influenza. Anche i vostri due regni (17) parteciperanno di questo benigno influsso, e voi sarete il Neker [sic] della nazione (18)        

Nel Regno di Napoli il dibattito sulla feudalità era andato accentuandosi nel corso degli anni Ottanta. Prima con Genovesi, poi con Galanti, quindi con Filangieri l'attacco contro il sistema feudale si era fatto sempre più diretto ed esplicito (19). In particolare Filangieri, nel terzo libro della Scienza della legislazione, aveva accusato la feudalità di dividere «lo stato in tanti piccoli stati, la sovranità in tante piccole sovranità» (20) pur essendo egli per sua natura indivisibile e inalienabile. Lo stesso Delfico, come abbiamo visto, aveva partecipato al dibattito denunciando con le sue memorie i mali sociali provocati dal regime feudale. L'abolizione dei diritti feudali in Francia non può dunque non trovare in lui un estimatore. Come affermano Spannocchi e Verri, i «fatti» di Francia costituiscono un esempio per tutti i «Regnanti di questa terra» (21) e «servono di modello agli altri popoli» (22).  

Tornato a Teramo, Delfico decide di trasferirsi a Napoli sia perché «dopo aver goduto e veduto tanto di buono», scrive a Fortis (23), la vita di provincia gli sarebbe «insopportabile», sia, soprattutto, «per la patria che quanto più è tapina, tanto più ha bisogno degli uffizj di qualche anima che senta la commiserazione» (24) e fornisca lumi ad un governo che, già nell'estate dell'88, si era mostrato poco determinato nel perseguire una politica riformistica, intento ad occuparsi «moltissimo di baje» ed a trascurare invece «gli affari che sarebbero stati della massima importanza» (25). E' convinto, al contrario, che occorra intervenire al più presto e senza alcuna incertezza. A rafforzarlo in quest'idea è anche Spannocchi che gli scrive da Milano il 31 marzo 1790: «In Francia siamo alle strette, spero che non la scomunicheremo (26): veramente l'Europa è in una vera crisi, ma almeno l'oggetto interessa tanto l'umanità da prendere più in pace qualche malanno dei viventi» (27). Vi è nei due amici la fiducia che la rivoluzione francese favorisca il progetto riformatore e che, soprattutto nel Meridione, essa possa e debba «portare finalmente a maturazione le questioni da tanto tempo sollevate e discusse» (28). E' con soddisfazione dunque che Spannocchi accoglie la decisione del Nostro di pubblicare una memoria sui feudi, incoraggiandolo a non desistere mai dallo scrivere, poiché «questi - gli ricorda - sono i nostri cannoni per far succedere la luce alla barbarie» (29).    

Lo scritto, dal titolo Riflessioni su la vendita dei feudi, uscito a Napoli nell'estate del 1790, in cui si avvertono echi del dibattito costituzionale d'oltralpe, è l'occasione per portare più a fondo l'attacco contro le istituzioni e i privilegi dell'Antico Regime. La critica investe innanzitutto la persistenza di quelle «politiche mostruosità» che sono i  feudi, i quali impediscono la mobilità della proprietà, base del progresso economico, e provocano la concentrazione dei beni «quasi per una forza attrattiva nelle mani di pochi» (30), costringendo gli uomini a sottostare «ad altra autorità che a quella delle leggi» (31). Al governo Delfico affida il compito di rimuovere tali anomalie, attuando una politica antilatifondista, che favorisca, come aveva sostenuto anche Palmieri nelle Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli del 1787 (32), la creazione di una proprietà borghese, così che i proprietari potessero moltiplicarsi. A differenza di quella stabilita dalla natura, infatti, la disuguaglianza prodotta dalle leggi che regolano la proprietà può e deve essere, a suo avviso, non solo ridotta ma superata. E', questo, un concetto ribadito con insistenza dall'illuminista meridionale, che rifiuta l'idea di una società «naturalmente» divisa in «oppressi ed oppressori», non riconoscendo, al pari di Sieyès (definito ora «sublime» (33), ora «il più gran Filosofo politico che abbia l'Europa» (34) e di cui conosce gli scritti), nessun'altra divisione se non quella in «governanti e governati» (35). Al di fuori di questa gerarchia, per lui, come per l'abate francese, non esistono che cittadini uguali, dipendenti non già gli uni dagli altri, ma tutti, indistintamente, dalle leggi e dal sovrano (36).  La condanna della iniqua divisione delle ricchezze e la necessità che i proprietari aumentino non implicano nello scrittore abruzzese la negazione della proprietà, essendo contrario «ad un eguale ripartimento delle terre, o ad una legge agraria» (37) o ad un frazionamento delle proprietà, tale da comprometterne l'utilizzazione. Alla «frenetica uguaglianza che getta la società negli orrori dell'anarchia» (38) egli contrappone un'uguaglianza tutta politica e giuridica, convinto che ad influire «perversamente» sul costume, più che la disuguaglianza economica dei cittadini, sia la loro diversità di condizione di fronte alla legge. E' la distinzione dei «diritti» non dei «mezzi» che egli, riecheggiando Sieyès (39), intende abolire. La proprietà non soltanto non viene negata, ma resta un diritto che, come sostenevano i Francesi, tutte le leggi devono assicurare, anche perché da essa nasce «la vera affezione ed attaccamento alle leggi, alla patria, ed al sovrano» (40).

Ispirata al clima politico della Francia rivoluzionaria è la critica della giurisdizione baronale, che diviene, a partire dalla metà del 1790, più esplicita e radicale. Soprattutto l'abolizione dei privilegi feudali e il principio che nessun corpo o individuo possa più arrogarsi il diritto di esercitare un'autorità che non emani espressamente dalla sovranità, appaiono rivivere nelle argomentazioni di Delfico. Parte integrante della sovranità, e come essa «indivisibile» e «inalienabile», la giurisdizione non può non appartenere che al solo sovrano, inteso come istituzione politica (monarca o principe) e non come fonte della volontà generale, il quale, pur potendone affidare l'esercizio a «diversi individui o corpi», resta sempre «la fonte di ogni potere» (41). Dal principio di indivisibilità e inalienabilità del potere egli fa discendere la negazione di quella funzione mediatrice dei corpi intermedi in seno alla monarchia, riconosciuta da Montesquieu (42). «Non ci lasceremo abbagliare - scrive in un'altra Memoria del 1790 (43) - dai Panegeristi de' Feudi, né dalla celebrità del Presidente di Montesquieu, per sostenere che i Feudi sono i sostegni della Monarchia, e che i corpi intermedj impediscono gli eccessi del potere assoluto, ed indipendente». Al contrario, essi si distaccano dall'intero corpo sociale e formano «uno stato nell'altro», autonomo e illegale, a danno del sovrano e della nazione e rafforzano quello spirito di corpo  che li pone in contrasto con l'utile comune, così da costituire un fattore di dissoluzione della società (44).

Dal celebre autore dell'Esprit des lois, verso cui, tuttavia, nutre ammirazione (45), Delfico dissente sulla teoria della divisione dei poteri e del necessario equilibrio fra di essi. Di Montesquieu, che considera spesso «contraddittorio con se stesso», non condivide l'idea che, per impedire di «abuser du pouvoir, il faut que, par la disposition des choses, le pouvoir arrête le pouvoir» (46). Egli ritiene che  «chi dice Monarchia dice unità, e unità di tutte le parti che compongono il potere supremo; […] poiché l'indivisibilità del potere, e l'inalienabilità di qualunque parte giurisdizionale costituiscono nella sua vera integrità questa forma di governo» (47).   

Per il Nostro dunque la giurisdizione deve risiedere unicamente nel principe, in quanto «che che altri ne dica, anche nella divisione dei due poteri, ciò appartiene al potere esecutivo»,  che l'amministra attraverso «persone da esso scelte e destinate» (48). E' evidente il riferimento indiretto e piuttosto polemico alle tesi di coloro che durante il dibattito all'Assemblea Nazionale sul nuovo ordinamento giudiziario, tra il marzo e il maggio 1790, avevano sostenuto l'indipendenza di quel potere dal re, cui fu di fatto preclusa la nomina stessa dei giudici (49). L'attribuzione della sfera giudiziaria al potere esecutivo denota come Delfico abbia di mira esclusivamente gli ordini privilegiati e non intenda affatto minare il potere regio che ritiene, anzi, si possa rafforzare con l'eversione della feudalità. Convinzione, questa, che emerge più chiaramente dalla lettura di due sue memorie, rimaste interrotte ed ancora inedite, entrambe databili intorno alla metà del 1790 (50). Rispetto ai testi già noti, le due memorie presentano un tono decisamente più polemico e una condanna più perentoria e radicale del regime feudale. Per lo scrittore teramano i feudatari rappresentano «tanti esseri dissimili e contrarj all'ordine pubblico», i cui abusi e privilegi dopo aver generato in passato «particolari tragedie» sono ora causa di «infinite gravezze» e «disorganizzazione generale nella Società» (51). Non soltanto essi nutrono «interessi particolari» che contrastano «coll'interesse generale», ma, convinti di essere necessari allo Stato, impiegano tutti i mezzi per «ingrandirsi alle spese della Società» (52). Altrettanto dura è la replica delficina alle maliziose argomentazioni baronali in difesa della legittimità dei loro diritti tratte dalle vicende della Francia rivoluzionaria:

Chi sa la storia conosce, che non si è ivi attaccato il potere de' Grandi, per diminuir quello del Sovrano, ma si è alterato questo per distruggere un potere illegale; e se in Politica è lecito di profetizzare, vorrei pur dire che fra non molto il Re di Francia sarà più grande e potente di quello ch' è stato insino ad ora, e tanto più quanto non vi sarà un corpo intermedio, che interrompa la libera espansione del potere supremo (53).

Previsione presto contraddetta dagli sviluppi rivoluzionari, sulla quale non è da escludere abbiano influito le notizie riportate dalla stampa italiana che andava offrendo ai lettori «un'immagine rassicurante» degli avvenimenti di Francia (54). «La Rivoluzione della Gallia», continua Delfico, non solo non rappresenta una minaccia, ma costituisce «un esempio favorevole per i Principi savj, che non devono aspettare gli eccessi de' disordini pubblici, ma ristabilire in tutti i rami dell'Amministrazione la Giustizia relativa ai diversi oggetti di essa» (55). E' convinto infatti, anticipando un'interpretazione di Cuoco (56), che la causa della rivoluzione vada ricercata principalmente nella mancanza di un'ardita politica di riforme della monarchia francese:

Chi non sa quali e quanti erano i disordini della Francia, e che si trovava oberata senz'essersi pensato mai ad alcuna salutare riforma? Chi non sa che tutti i disordini erano cagionati dai pretesi corpi intermedj, e che ad essi se n'è voluto particolarmente, e si è venuto a limitare l'Autorità del Sovrano, acciò essi non possano abusarne (57).

Diverso è il caso di uno Stato dove lo scoppio rivoluzionario non è ancora divampato e può essere pertanto evitato a condizione che il «buon principe», negando qualsiasi utilità dei corpi intermedi e la loro pretesa di contenere gli eccessi del potere assoluto, apra la strada ad un sensibile mutamento politico e sociale del paese. L'esempio viene ancora una volta da Parigi dove, scrive a Fortis,

l'Assemblea dopo aver decretata l'emissione degli assegnati (58), la salute della Francia, la base reale della Costituzione (59), il maggior riparo contro la controrivoluzione, ha cominciato ora a fare delle divine disposizioni per le imposte territoriali. Sieno benedetti! (60).

All'attività dell'Assemblea Nazionale Delfico guarda con grande interesse, mostrando entusiasmo per il lavoro svolto e ottimismo per i provvedimenti da adottare. Egli stesso ne ammette esplicitamente l'influenza sul suo pensiero, dichiarando che il suo ultimo libro, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, è nato oltre che «dalle impressioni continue e continuamente ripetute della nostra Dispotica Anarchia», anche «da quelle che ci vengono da più lontana parte ed eccitano nell'animo salutari desiderj» (61). Ma poiché manifestare apertamente le proprie idee si era rivelato spesso pericoloso, aveva voluto comporre un'opera che somigliasse ad un apologo in cui «la Giurisprudenza Romana vi sta in senso proprio e vi sta in Allegoria» (62). A guardarlo bene, confida ad Amaduzzi, il libro «è un semplice desiderio patriottico» che bisognava «ornare di qualche erudizione acciò con la sua nudità non offendesse o scoraggiasse la Politica regnante» (63). 

Le Ricerche, che provocano subito «molto chiasso» (64), sia per le reazioni della classe togata (65), sia per gli elogi che ricevono da più  parti (66), rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (67),  cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» (68), che a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi presenti» (69). Evidente, nel discorso generale e in quest'ultimo passaggio in particolare, la convinzione della impossibilità di correggere «parzialmente» i difetti della legislazione, senza cioè «una cura integrale» (70), in polemica con quanti credevano invece che bastasse «somministrare particolari riparazioni» o fosse sufficiente richiamare all'onestà e alla virtù coloro che proprio dal disordine e dal caos giuridico traevano i maggiori vantaggi e si mostravano per questo diffidenti o contrari verso ogni novità. La necessità di un codice tutto nuovo nasce anche dal carattere di inadeguatezza che qualsiasi codificazione inevitabilmente assume nel tempo, a conferma della coesistenza in Delfico, come in altri illuministi napoletani, di una componente relativistica, di stampo montesquiano, e di un'esigenza razionalistica (71).          

Al pari di altri suoi scritti, l'opera presenta finalità pratiche. Attaccare la giurisprudenza romana, mostrare le nefandezze di cui si era macchiata nel corso dei secoli, significava mettere sotto accusa l'impianto legislativo presente, condannarne la «fangosa origine» e contestare la sua validità e legittimità fino a chiederne la completa abolizione. La stessa denuncia del carattere dispotico delle leggi romane suonava da monito al governo napoletano. Sull'esempio di quanto accadeva oltralpe,  lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione «che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento» (72). E' convinto che un codice di legislazione possa esistere solo in presenza di governi legittimamente costituiti, mentre sia incompatibile con quelli dispotici perché «distruttivo» dello stesso potere assoluto, la cui peculiarità è la totale ed arbitraria violazione delle norme esistenti. In altre parti dell'opera, l'esperienza dell'Assemblea Nazionale influisce in modo ancor più diretto. Basti pensare al principio della divisione dei poteri che, respinto fino all'anno precedente [1790], viene ora accolto come principale e più sicuro rimedio contro il dispotismo (73). L'unità della «potestà pubblica», più volte ribadita e successivamente riaffermata, trova nelle Ricerche una ferma smentita. Manifesta è soprattutto l'esigenza di autonomia del potere legislativo di cui rivendica la legittima appartenenza al popolo, che cessa così di essere considerato una massa amorfa (74), per assurgere ad un ruolo di primo piano sulla scena politica, chiamato com'è a «compir l'atto più degno, il più glorioso» quale quello di «dar leggi a se stesso» (75). L'attribuzione della potestà legislativa al popolo segna la negazione di un sistema politico concepito ad esclusivo vantaggio delle classi privilegiate. E' «una verità fondamentale che le leggi debbano essere l'emanazione della pubblica o della generale volontà», vale a dire «la vera espressione legittima del potere legislativo» (76). Ne consegue che, ogni qualvolta non siano emanate da questa autorità, esse non possono considerarsi tali perché non costituiscono «un atto del popolo» né tanto meno possono essere obbligatorie per i cittadini quelle leggi che nella loro formulazione abbiano avuto «più parte le opinioni private che la volontà generale» (77).

La lotta contro la vecchia società gerarchica e aristocratica e la difesa dei diritti non portano all'affermazione di una democrazia diretta di stampo roussoiano, ma di uno stato di tipo costituzionale e rappresentativo. Con Sieyès e contro Rousseau, Delfico ha modo di sottolineare che la «volontà pubblica» non è che «il risultato delle volontà particolari» (78). Dall'abate sembra poi discostarsi per quanto riguarda l'estensione del concetto di volontà generale. Pur avvertendo la necessità di norme che ne stabiliscano l'esercizio e le modalità, così che la libertà popolare non degeneri in licenza, egli individua nel diritto di suffragio l'elemento costitutivo della qualità di cittadino, fino a riconoscere vero il principio che «tanto più si è cittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale» (79). Nonostante sia contrario a quanti in Francia continuano a subordinare tale qualità al requisito censitario (80), lo scrittore teramano non giunge ad una esplicita formulazione del suffragio universale, limitandosi, più genericamente, ad auspicare che la volontà generale rappresenti «la volontà del maggior numero de' cittadini» (81). Il sistema politico che sembra delinearsi è basato sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo e sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango e di censo. Egli matura inoltre la convinzione, in tema di elezione dei magistrati, di lasciar «al pubblico stesso la libera scelta di coloro che devono servirlo» (82), in contrasto con quanto sostenuto in precedenza (83), e rivendica il decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali. La richiesta manifesta la volontà di superare la vecchia dicotomia centro-periferia, che tiene diviso il Regno «in due parti nella più strana maniera»: da un lato la capitale che «succhiando sproporzionato nudrimento cade in uno stato morboso per eccesso», dall'altro le province che «per difetto corrono ad una mortale atrofia». E conclude:

Una capitale è sempre un male, e tanto maggiore, quanto essa è sproporzionatamente più grande. […] Nella capitale si crede concentrata la sublimità della ragione e della giustizia. Se si dicesse della corruzione e della pigrizia, il tema sarebbe forse più vero (84).

Di fronte ad una crescita così fortemente differenziata, le conseguenze risultano ugualmente rovinose sia per le province, nelle quali qualsiasi progresso economico e culturale resta precluso, sia per la capitale, dove sempre più stridenti appaiono le contraddizioni tra «la miseria schifosa» dei diseredati e «il lusso stolto» delle classi improduttive e parassitarie (85).

Il Teramano, tuttavia, non si allontanò mai da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale. Alla politica illuminata del sovrano e ad una sua «certa sagacità ed attenzione» restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. A Ferdinando IV, «adorabile sovrano», che aveva in passato invocato i «pubblici lumi» consentendo a chiunque di venire «a' pie' del soglio» (86) ad esporre le proprie idee, avrebbe voluto presentare le Ricerche per «moltiplicargli le pruove e le ragioni su molti articoli» (87) e spingerlo al ristabilimento della giustizia, convinto che solo «sotto gli ottimi prìncipi risorgono  le speranze de' popoli» (88).

All'indomani della fuga e dell'arresto di Luigi XVI a Varennes nel giugno del 1791, di fronte al problema, assai discusso in Francia, della forma costituzionale da preferire, se erigersi in Repubblica o mantenere il Re «coll'assegnargli un Consiglio permanente», lo scrittore abruzzese manifesta le proprie simpatie politiche e si pronuncia a favore della seconda soluzione dichiarando di essere «stato sempre monarchico» e di ritenere la «vera Monarchia quella che ammette più diverse libertà» (89). Sul tentativo di fuga della famiglia reale, sul dibattito e gli avvenimenti che seguirono, egli si mostra piuttosto informato, sebbene il timore del contagio rivoluzionario avesse indotto la corte napoletana ad adottare sin dalla fine dell'89 misure repressive (90), preoccupata che si potessero «propagare per ogni dove le perniciosissime massime di una mal intesa libertà» (91).

Già nella seconda metà del 1791 è presente in Delfico un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Un primo segnale di tale involuzione egli riscontra nel Concordato che i Reali di Napoli, al loro rientro da Vienna, hanno stipulato con la Santa Sede, nell'aprile del 1791, su iniziativa dello stesso Acton:

I Vescovadi - spiega a Fortis - per i quali Roma ha avuta tanta influenza han fatto nascer subito de' scrittori Papalini, e quello ch'è stato più approvato da S.S. è veramente un libro infame. Attacca nominatamente i scrittori Realisti da sediziosi, rivoluzionari, e fin anche da club des jacobins, e spesso con la fede più nera (92).

Emblematica è anche la crisi del ruolo del Consiglio delle Finanze, un tempo cassa di risonanza di molteplici proposte riformistiche. Nonostante il rimpasto ministeriale del 1791, con il quale spera, invano, di ottenere un posto di consigliere soprannumerario (93), alimenti in lui un cauto ottimismo sull'attività futura del Consiglio, non nasconde una certa perplessità:

Con tutto ciò - scrive a Fortis - non nascono nel mio cuore molte speranze d'un migliore avvenire. Le persone non sono sufficienti per questo, e quando non si cangia lo stato delle cose, sussistendo le cagioni fondamentali, la differenza negli effetti non potrà essere molto sensibile (94).

Timore che si rafforza di fronte all'ennesima (ambigua) esitazione del Consiglio di adottare provvedimenti contro la servitù degli stucchi, più volte da lui sollecitati (95), e che trova conferma nelle lettere che l'amico duca di Cantalupo gli invia tra la fine del '91 e quella del '92 (96).

Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso «scontentissimo» e in cui si accorge di quanto la «lentezza sciroccale» abbia contagiato perfino gli uomini migliori, diffondendo ovunque «un moto di desolazione» (97). Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano.

Nella lontana e tranquilla provincia Delfico lamenta subito la «tardanza» e la «scarsezza» delle notizie francesi (98), alle quali non riesce a supplire con la puntuale lettura dell'«Analisi ragionata de' libri nuovi» di Napoli e del veneziano «Nuovo Giornale enciclopedico d'Italia» che Fortis, il quale vi collabora, gli fa pervenire. E' probabile che del mensile napoletano (99) il Nostro non condividesse appieno l'orientamento. Il periodico, infatti, sebbene proiettato verso una «decisa opzione riformatrice saldamente ancorata alla monarchia assoluta» (100), aveva assunto sin dall'inizio un atteggiamento antifrancese. I fatti di Francia venivano giudicati come «effetto tutto di furor maniaco» (101), il popolo appariva «tiranneggiato» da «demagoghi», «adulatori» e «faziosi» (102), mentre l'intera nazione, per colpa di «libri pestiferi» e di filosofi, era piombata in uno  stato di «anarchia» (103) che minacciava ora di estendersi al resto dell'Europa. Le stesse Ricerche erano prese di mira perché piene di «francesismi» (104). Per il Teramano, invece, la Francia continua a rappresentare un polo d'attrazione, nonostante non nasconda una certa preoccupazione di fronte all'eccessiva celerità dei lavori assembleari:

Temo sempre per l'interno - confida a Fortis - e nulla dal di fuori per se stesso: ma alcune trascuraggini cadute nella Costituzione e l'aver dismessa l'Assemblea Costituente (105) affrettando delle risoluzioni che richiedevano esame più maturo, per cui l'organizzazione interna, ed il Sistema d'Amministrazione sono rimasti imperfetti, mi fa aver non solo delle trepidazioni, ma mi attrista per i disordini giornalieri (106). Sono stati avvisati da un pezzo, che lo stabilimento regolare della Forza pubblica era la pietra angolare della Costituzione: e pure è stato sempre negletto e tuttora si negligge (107).

Oltre che per la situazione interna, sempre più cresce la sua apprensione per la politica estera della nazione francese, specie all'indomani della dichiarazione di guerra all'Austria, nell'aprile del '92. Da Napoli il duca di Cantalupo, sulla base di indiscrezioni di corte, gli conferma che l'Europa è «alla vigilia di grandi avvenimenti e tutti funesti all'Umanità» (108), mentre un altro amico, temendo nuove ripercussioni nel Regno, invita ad abbandonare ogni progetto astratto per assumere un atteggiamento più realistico: «Sodezza, sodezza - afferma - e non novità che non porta altro che confusione, e desolazione. Fuori i Club, e tutto andrà bene» (109). La stessa ansia si coglie nelle lettere che Micali gli invia da Livorno (110). Nella capitale partenopea, intanto, la preoccupazione di frenare «l'invasione e l'irruzione di quelli orrorosi fanatici» francesi, attraverso «un vigoroso ed efficace riparo» (111), spinge il ministro Acton a farsi promotore di una lega italica (112), che non sarà però mai realizzata. Più fiducioso si mostra invece Spannocchi, per il quale la Francia continua a rimanere un valido esempio per i paesi europei (113). Ma di fronte alla caduta della monarchia e al pericolo di un'invasione francese degli stati italiani (114), ha presto modo di ricredersi:

Io contavo sopra un'ondulazione che rinfrescasse con un placido moto le acque che fossero ristagnanti, ma questo è un torrente che trae seco tutto ciò che se li para d'avanti. Chi sa se la nostra gran muraglia, e le nevi serviranno a farli argine. In caso che no, vediamo un diavolo di Kelerman (115) piantare l'albero della sedicente libertà nel Campidoglio» (116).

Si capisce allora come di fronte al deteriorarsi dei rapporti internazionali il Teramano, ignaro dei retroscena, abbia interpretato l'arrivo a Napoli della flotta francese e la sua immediata partenza (117) come un atto politico «amichevole» che potesse favorire il processo di pace (118), indotto forse dallo stesso duca di Cantalupo, il quale nel riferirgli l'episodio lo rassicurava quasi «nulla fosse accaduto» (119).

Più scettico e senz'altro più disilluso appare all'inizio del nuovo anno, dopo l'esecuzione di Luigi XVI e la dichiarazione di guerra della Francia all'Inghilterra e all'Olanda che avrebbe di lì a poco trascinato nella mischia anche il Regno di Napoli: «Sempre più - scrive a Fortis - mi vado disponendo all'inerzia intellettuale, per non aver il dispiacere di un'attività gittata al vento, giacché i rovesci della ragione crescono colle più veloci progressioni» (120). Nei mesi successivi, la sua maggiore preoccupazione sarà generata più che dagli sviluppi giacobini della rivoluzione francese, dalla politica repressiva del governo napoletano, a causa della quale sarà costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito ad alcune delazioni. Da Milano Spannocchi, che come lui scorge ovunque «argomenti di lutto», gli rinnova la propria stima per il costante impegno intellettuale alla ricerca del bene pubblico, mai condizionato «da alcuna setta, da alcun partito» e per la sua avversione per ogni forma di anarchia e di dispotismo (121). Si legge nella missiva del Nostro a Fortis del 7 novembre 1793:

Ti scrissi che de' malevoli di Napoli fra quali il Vescovo (122) in unione colla magistratura mi avevano formata la più estesa riputazione di giacobinismo. Si venne alla denuncia formale contro vari cittadini […], ma la prudenza e l'innocenza della mia condotta non diede campo ad essere neppure occasionalmente nominato nell'inquisizione. […] Io sono stanco di tanti orrori e spargimenti di sangue che si ascolta tutto giorno. Vorrei esser sempre in silenzio su questa materia; ma ora temo che dobbiamo piangere sul sangue de' nostri concittadini; poiché da Tolone (123) si sentono piuttosto cattive nuove (124).

E' un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico, avvertono i limiti della politica ferdinandea. Né varrà ad illuderlo qualche piccolo riscontro ottenuto presso le autorità locali sulla questione degli stucchi, tanto che si ripromette di non «impicciarsi mai più di simili affari» (125), amareggiato dal generale «avvilimento» che circonda la pubblica amministrazione. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nell'animo del Teramano. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno napoletano. Completamente abbandonato è ogni riferimento alla Grande Nation. La sua avversione per gli eccessi rivoluzionari  sembra anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da «tanti orrori». Non sorprende allora come egli abbia preso le distanze dall'opera di Soave, Vera idea della rivoluzione di Francia (126), che nel tentativo di denunciare i mali della «popolare licenza» (127) faceva proprie le tesi più retrive del conservatorismo italiano ed europeo e finiva per condannare in blocco la rivoluzione  considerando il 14 luglio nient'altro che una «giornata d'orrore», i rappresentanti dell'Assemblea Nazionale «tiranni», quelli del Terzo Stato «faziosi», i decreti dell'agosto '89 «sediziosi» e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino una «promulgazione sediziosa» e un «edificio informe e mostruoso» (128) di cui chiedeva la completa soppressione.

La sfiducia del Teramano diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione» (129). E' l'epoca della scoperta della congiura giacobina (130) che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini che, contrariamente a quanto si è a lungo creduto in seguito all'interpretazione di Cuoco (131), tanto «pochi» e così tanto «inesperti» oggi sappiamo non erano (132). Coinvolto è pure l'amico e concittadino Odazi (133) che Delfico considera innocente e spera invano venga presto scagionato. Cresce l'insofferenza per la capitale, che si traduce anche in un abbandono degli interessi intellettuali (134), ed egli capisce che non è più tempo di «restare con chi ha assunto un dispotismo assoluto» (135). Ciò nonostante, Delfico è ancora dalla parte del «buon Re», contro il «sedicente» Consiglio delle Finanze e quanti approfittano del disordine generale per «regolare le cose a loro piacere» (136). Dal Sovrano si reca per perorare (ancora una volta) la causa degli stucchi e per ottenere un beneficio personale (137), che evidenzia una certa contraddizione con alcune posizioni precedentemente assunte nella polemica antifeudale (138) anche se forse tale richiesta era un tentativo per fugare ogni dubbio sulla sua fede monarchica, di nuovo messa in discussione da un'ennesima denuncia anonima (139).

L'inizio del processo contro i rei di Stato segna, infine, il definitivo distacco da un mondo divenuto per lui «più che mai odioso», dove «tutto è orrore» e in cui, scrive al fratello, non si può che «o lasciarsi opprimere o in altro modo più fatale soccombere» (140). Persuaso «che non è più tempo di promuovere certi oggetti, e che si fa anzi male» (141), anticipa la partenza dalla capitale e decide di non farvi più ritorno fino a quando non fosse avvenuto un «cangiamento di circostanze» (142) che avesse ristabilito «l'ordine, la calma, la sicurezza e tutto ciò che può rendere aggradevole un soggiorno» (143), sconsigliando chiunque a recarvisi (144).

Altrettanto scettico si mostra sulla possibilità di un accordo fra le potenze belligeranti, che gli sembra anzi sfumare con la scomparsa del leader giacobino: «Io ho parlato per la pace - spiega a Fortis - fino all'imprudenza ma i tentativi fatti e dileguati nella morte di Robespierre non pare che possano aprirci il cuore a nuove speranze» (145), quasi intravedesse nella opposizione di Robespierre alla politica espansionistica della Repubblica francese lo spiraglio per una  soluzione pacifica del conflitto europeo. Prima ancora che psicologica, la pace è un'esigenza politica, una condizione necessaria per la ripresa del processo di sviluppo sociale delle nazioni e di graduale miglioramento del genere umano. Lo preoccupa il destino dell'Italia e il timore che i Francesi possano da un momento all'altro invadere il Piemonte (146). «Tutti i miei pensieri sono intorno alle speranze di pace e sono scontento di me per non poterne escogitare i mezzi sicuri». Vantaggi ne trarrebbe anche il Regno giacché «tutte le nostre cose si ripristinerebbero alla loro tranquillità, ed il nostro buon Re potrebbe rivolgere intieramente l'attenzione su tutti i rami della pubblica Amministrazione, che ne sentono tanto il bisogno» (147).

L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina nel Nostro, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (148) o repubblicano, anche perché il Teramano, a differenza di molti di loro, non vedeva più nella Francia del '93-94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'atteggiamento di assoluto isolamento che finisce per assumere di fronte alle forze politiche e sociali esistenti, non segna però l'inizio di una profonda sfiducia nei confronti della politica quale possibile strumento di progresso, ma testimonia semmai la rassegnata attesa di tempi e condizioni più favorevoli per una ripresa del processo riformatore solo momentaneamente interrotto. Nel «guazzabuglio» generale, reso ancor più turbolento da una nuova ondata di arresti di altri sospetti rei di Stato (149), che suggerisce di scrivere «con moderazione» e limitarsi a «far intendere» quello che spesso non può essere detto apertamente (150), le sue sole speranze sono, anche agli inizi del '95, tutte per un «favorevole accoglimento» della pace (151) e perché qualcuno (come Pommereul) «prenda il partito dell'Umanità» (152) e scongiuri il pericolo di una nuova campagna militare.

Alla fine di ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva (153) A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, condivisa tra l'altro da Fortis (154) e suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Scriveva con entusiasmo all'amico Angiolini (155) appena giunto a Firenze:

 Nei paesi dove la discussione è libera la libertà va ad installarsi col tempo, e questa Nazione merita bene una tal Sovrana. Non farò gli elogj della Toscana per ora, poiché non nascerebbero da propria conoscenza, e quando avrò acquistato questa non potrò forse far altro, che ripetere ciocché fondatamente si è detto (156).

Nel capoluogo toscano, dove finalmente può tornare a condurre la sua vita preferita, fatta di frequentazioni di ambienti e uomini di cultura (si legò in particolare a Corsini (157)) e ricca di sollecitazioni e curiosità (158), egli sembra ritrovare la tranquillità necessaria per disporsi di nuovo favorevolmente nei confronti della vita e degli uomini. Ed è col «massimo dispiacere» che si allontana da Firenze, dolente di non potersi trattenere ulteriormente (159), ma felice di poter rincontrare a Pisa Giovanni Fantoni (160), non prima di aver riabbracciato a Livorno l'amico Micali in partenza per la Francia. Entusiatiche sono le impressioni che questi ne trae. «Il mio amico Micali - riferisce Delfico al fratello - scrive da Parigi, che vi stà nella massima allegria ed abbondanza, ed è stato specialmente sorpreso nel traversar la Francia, in avervi vedute le campagne così coltivate, che non vi scorge punto lo stato di guerra di più anni» (161). I rapporti amichevoli tra la Francia e il Granducato lo inducono a dare poco credito alla voce, nella primavera del '96, che i Francesi vogliano rompere la pace e invadere la Toscana con il «pretesto» che Ferdinando III «accordi più favore agli Inglesi che ai Repubblicani» (162).

Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata napoleonica in Piemonte e in Lombardia (163). Ma non ne resta affatto sorpreso, forse perché a conoscenza della difficoltà che Francesi e Piemontesi avevano incontrato nel concludere un accordo prima dell'invasione: «Per gli affari d'Italia - confida ad Angiolini - sono stato pur troppo profeta, come avrebbe potuto esserlo ognuno che leggeva la gazzetta, e che non voleva farsi illusione» (164). E' impaziente di conoscere i risultati delle trattative di pace col Piemonte e auspica che ad esse seguano presto quelle col Regno di Napoli, le cui truppe avevano combattuto in Lombardia a fianco degli Austriaci. Di qui la richiesta al ministro Acton di «essere impiegato nella negoziazione della pace» (165), poi conclusa il 10 ottobre di quell'anno. Riceve invece l'incarico di organizzare un reggimento di volontari in provincia, una pesante incombenza per le sue precarie condizioni fisiche che accetta tuttavia «volentieri» nella convinzione che sotto di lui non accadranno più «né vessazioni, né avanie, e che questo sia del miglior servigio del sovrano» (166).

Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati (167). Avuta notizia dell'entrata dei Francesi in Romagna e della successiva tregua di Bologna commenta: «Non vedo il momento di apprendere a quali condizioni sarà accordata la pace alla S.S.; e si vuole che costerà cara. A chi? Non vedo in questo la morale  Repubblicana, né la vantata amicizia per le Nazioni. Staremo a vedere» (168). E' pertanto con sollievo che alla fine di luglio vede allontanarsi il pericolo di un'incursione in Abruzzo, dato «che i Francesi - scrive a Fortis -  hanno del tutto evacuata la Romagna. Se è vero che i Francesi sieno calati in gran numero, ci è speranza, che possano ancora tener occupati i Repubblicani dal rivolgersi a questa parte, e che frattanto le cose cangino di aspetto» (169), anche se non sembra riporre molta fiducia nelle negoziazioni che Gallo (170) stava conducendo per conto del governo napoletano. Ciò che conta è che comunque «i Repubblicani non si rivolgeranno per ora da questa parte» (171).

Nella seconda metà del 1796 si riaccende nel Teramano l'interesse per la Grande Nation. Non tanto perché a Parigi risiedono alcuni suoi amici, come Corsini, Micali e lo stesso Fortis, quanto perché nella vita politica del Direttorio vede delinearsi la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina. Non gli sembrano neppure irrealizzabili le «spirituali profezie» di Condorcet (172) contenute nel suo testamento ideologico (173), sulla perfettibilità del genere umano e sul cammino progressivo e inarrestabile della civiltà. Ma è necessario che si elabori una «nuova vera» Costituzione onde evitare che si verifichi ancora «qualche disordine» (174). L'idea di una recrudescenza degli eccessi rivoluzionari lo atterrisce e, come Fortis, spera che «le male arti de' giacobini» (175) non abbiano il sopravvento. Sulle vicende d'oltralpe tuttavia egli è «quasi al buio» dal tempo del soggiorno in Toscana, dove aveva avuto modo di leggere «i giornali di Parigi» (176) grazie soprattutto all'amicizia con Miot (177), da Rambaud definito «un esprit très fin, modéré, actif, sinon hardi, ennemi déclaré du jacobinisme» (178). Soltanto da Fortis continua a ricevere, ora direttamente ora attraverso il comune amico Toaldo (179), «piccoli cenni» (180) e a lui si rivolge per avere anticipazioni sulla politica del Direttorio in Italia e chiedere notizie degli amici Pommereul, Savioli (181), Corsini e Micali (182). All'abate padovano confida poi di essere particolarmente interessato ai «nuovi metodi» e ai «progressi politici» della Francia e di sospirare il momento della pubblicazione del nuovo Codice di legislazione (183), manifestando, tra l'altro, il desiderio (mai realizzato) di compiere un viaggio transalpino: «Io penso a questa mossa, - gli scrive all'inizio del 1797 - e più vi penso da che posso contare sopra di te, ma prima dell'estate o dell'autunno io non la vedo realizzabile» (184). Ma se da un lato cresce l'entusiasmo per i progressi interni della Francia, dall'altro Delfico ne condanna la politica espansionistica, tanto da biasimare quanti in Italia continuano a riporre nell'occupazione francese le proprie illusioni rivoluzionarie: «Io compatisco quei luoghi - afferma - ne' quali si è danzato intorno all'albero della libertà, e dovranno ritornare allo stato antico» (185). Critico è anche nei confronti del comportamento dei Francesi:

Già sai - scrive a Fortis - che abbiamo ancora vicini i Repubblicani e sai ancora quello che hanno fatto. Nulla ci è che ridire su ciò, ma non s'intendono le omissioni […]. Perché dunque parte [dello Stato papale] ripristinato alla natia libertà e parte abbandonato al suo destino? Non conosco ragioni generali per questa differenza, e non mi accomoderei delle particolari (186).

Immutato è il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (187), non scorge alcun cambiamento nella sua politica e conclude con amarezza che «l'Africa sarà Africa ancora per lunga pezza» (188). Sempre meno sopporta l'«incommodo» del continuo accantonamento in provincia di truppe regie (189) e la «sospettosa curiosità» (190) delle autorità verso ogni forma di corrispondenza. Ciò spiega talune parole di stima nei confronti di alcuni suoi nemici (191). Dalle loro gelosie dovrà guardarsi soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per una nuova infondata accusa di giacobinismo costruita ai suoi danni. «Non è  una bella vita», confessa a Fortis, specie per «certe graffiature» da parte dell'«Assemblea malignante» (192), sebbene si auguri: «Il Cielo ci liberi di peggio» (193).  Ma in seguito si alimenta sempre più il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre successivo sarà tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (194). Liberato l'11 dicembre 1798 dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (195), è posto a capo della Municipalità della città per poi essere investito agli inizi del 1799 di importanti cariche nelle istituzioni repubblicane di Pescara e di Napoli (196).

Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale in definitiva egli da sempre confida. Non crediamo invece che tale partecipazione segni il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (197). Egli non tiene presente, infatti, quello che può definirsi il momento «eroico» della rivoluzione francese, le idee e la prassi dei jacobins, che Saitta ha identificato «con il modello e il momento robespierrista» (198); né l'esperienza provoca quella vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che Galasso ha riscontrato invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (199). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia (200), l'atto legislativo del Consiglio Supremo pescarese da lui presieduto (201), col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il decentramento dell'autorità giudiziaria, la giustizia amministrativa garantita a tutti i cittadini, la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione della giustizia, il controllo dell'attività giudiziaria e la possibilità di ricorrere in appello costituiscono infatti i tratti salienti di un programma che Delfico avrebbe potuto sottoscrivere già negli anni 1790-91 (202).

Non va dimenticato inoltre che la forma di governo non rappresenta una pregiudiziale per il pensatore abruzzese, che già nel 1782 aveva avuto occasione di precisare che «tutti i più sublimi sentimenti di virtù e le più nobili idee della ragione» (203) possono ugualmente esistere in qualunque specie di governo, sia esso monarchico, che aristocratico o democratico. Ciò che effettivamente a lui preme sono il bene pubblico («primo scopo della politica»), il progresso del genere umano, la sua elevazione ed emancipazione, perseguibili attraverso buone leggi ed un saggio governo, la cui "bontà", tuttavia, è determinata più che dalla forma, dalla linea politica adottata. Si può notare come tale posizione, se da un lato rispecchia la logica riformistica che, come giustamente ha notato Venturi, porta nel '700 italiano ad «accettare sostanzialmente la situazione politica esistente» (204), dall'altro induce l'Autore a non riconoscersi a priori in un governo precostituito, bensì solo in quello la cui manovra politica non si riveli inconciliabile con le sue aspirazioni di rinnovamento sociale. Questa ragione spinge Delfico a prendere le distanze dalla corte napoletana e a ricoprire cariche anche nelle istituzioni repubblicane. La collaborazione  con i Francesi, tutt'altro che imposta o fittizia, si rivela sin dall'inizio libera e attiva (205), non solo per motivi di prestigio o perché la loro presenza pone fine ad una incresciosa vicenda personale, quanto soprattutto perché sembra fornire l'occasione per imprimere una svolta politica nel Napoletano. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio della Repubblica partenopea di cui fa parte e a cui muove l'accusa, in seguito ribadita da Ricciardi anche a proposito della situazione delle altre province del Regno (206), di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (207). A Napoli lo scrittore teramano si sarebbe senz'altro inserito nel dibattito sull'eversione della feudalità e sul tipo di Costituzione da dare alla nuova Repubblica (208). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese [27 settembre 1796] sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia? (209) Elabora, invece, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario (210), una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (211) la cui stesura non è da escludere possa risalire proprio alla vigilia del suo mancato trasferimento presso il governo centrale della Repubblica partenopea. La Tavola, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ritiene la legge l'espressione della volontà generale e afferma, in linea con quanto sostenuto anche nel Piano di giustizia, la responsabilità dei funzionari pubblici. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.

Il 28 aprile 1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino, dove rimarrà fino al 1806 (212).

Durante il soggiorno sammarinese lo scrittore abruzzese si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come Lomonaco (213), Arrighi (214) e soprattutto Cuoco, con il quale è in contatto (215), critica l'«immatura ed intempestiva» manifestazione (216), come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo». La confusione dei principî, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli fecero nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non poterono a lungo sopravvivere. Si credette di

dimostrare che quel ben essere civile che si chiama libertà, e ch'è naturalmente fondato su l'eguaglianza de' dritti, non possa combinarsi e costituirsi coll'esistenza di quelle famiglie le quali vantano più antica data nella società, o maggior numero di servigj renduti alla patria e alla nazione (217).

Tali idee «esclusive» impedirono di comprendere che occorreva abolire i corpi aristocratici, la distinzione dei cittadini fondata sul rango e sulla ricchezza,  la nobiltà ereditaria e privilegiata che «viene dai feudi, dai titoli, dalle croci, dalle insegne» e non già quella che nasce dalla virtù e dal merito. Fu la Francia, afferma, a far «sorgere dei canoni politici falsi e irregolari. Si disse - presto e male - e forse questo fu giusto nella loro situazione; ma quando non è dettato dalle circostanze, è una misura contraria al fine» (218). Alla condanna dell'astrattezza dei «dogmi dei politici novatori» segue il rifiuto di derivazione montesquiana del loro «portentoso progetto di estendere questa forma di civile associazione su tutto l'universo» e di voler applicare a tutti i popoli e a tutti gli stati «le leggi di questa politica cosmogonia» (219). Per quanto riguarda  l'Italia,

abbagliata ed attonita non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia (220).

Nella scarsità di idee e nella loro non perfetta corrispondenza con la realtà storica risiede dunque a suo avviso la causa del fallimento dei nuovi esperimenti politici. Di fronte agli «interni disordini» e  all'«esterna violenza» i popoli preferirono alla fine «i danni nascenti dalla natura delle cose» a quelli «che dovevano nascere da una volontà illimitata, permanente, insaziabile» (221).

Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (222). A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e «gli esempli recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità, alla sua felicità» (223). La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve in definitiva più che in un «politico scetticismo», nella ricerca di una linea politica «saggia» e realistica, che non miri alle «magiche trasformazioni» ma proceda per «proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale (antifeudale e anticuriale), «cui è lecito di aspirare» (224). Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana (225), nei «governi umani», di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società» (226).

Non mancano, tuttavia, momenti di  sconforto (227). L'esilio, lo stato politico dell'Europa ancora incerto, la difficoltà di un ritorno alla normalità nel Regno di Napoli e l'assenza di una benché minima prospettiva politica per cui impegnarsi sembrano alimentare nel Teramano un certo disinteresse per la politica e una visione fatalistica della stessa. Scrive amareggiato:

Perché occuparsi della Politica? Perché tormentar lo spirito e le facoltà intellettuali sopra i più sozzi materiali di frodi, di ingiustizia, di sceleratezza? I dati sono sempre indipendenti da noi, ed i calcoli fuori della strada della ragione. Le divinazioni dei più cattivi sono quelle che più si approssimano alla verità; e spesso gli elementi che determinano le azioni dipendono da eventualità imprevedibili e quasi impercettibili (228).

Ma si tratta solo di uno sfogo, che contrasta con quanto afferma nelle stesse Memorie storiche, in cui biasima l'apatia politica come il «principal dissolvente dei corpi civili» e un «morbo quasi letale della libera politica esistenza» (229). Radicata invece è la convinzione che l'ordine sociale esistente sia ancora talmente lontano dal costituire  il «miglior essere», che egli si accontenta «di augurare alle Nazioni, che sieno presedute da buoni individui» (230). E «buon individuo»  riterrà certamente Giuseppe Bonaparte che, divenuto re di Napoli, nel giugno del 1806 lo chiama al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.

Non sembra che negli anni successivi Delfico sia più ritornato sugli avvenimenti del 1799, mentre sulla rivoluzione francese ha lasciato solo alcuni appunti che recano come intestazione Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione (231). In essi l'Autore distingue il valore politico dal valore storico della rivoluzione dell'89. Sul piano politico, scrive, «la Rivoluzione non ha dato alcuna nuova verità o teoria politica» (232). Sul piano storico, invece, la rivoluzione di Francia ha assunto per l'umanità un significato di grande rilievo per una serie di cambiamenti introdotti nella politica, nella morale, nell'istruzione e nella religione. Per quanto riguarda più specificamente la politica, l'idea più importante «è risultata la preferenza per l'abolizione dell'Aristocrazia e per lo stabilimento del sistema rappresentativo» (233). Sebbene l'istituto della rappresentanza non fosse del tutto nuovo ai popoli, la rivoluzione francese ha mostrato che «la facoltà di far le leggi appartiene al corpo della Nazione» e che pertanto mentre «prima la formazione delle leggi era seguita da qualche magistratura suprema sotto l'indicazione sovrana o ministeriale, ora, anche dove non vi è rappresentanza, i progetti di legge si appongono all'esame di qualche Consiglio di natura differente dal giudiziario» (234). Queste idee sono divenute così generali da appartenere ormai allo spirito del secolo.

L'esperienza quasi decennale nell'amministrazione francese porterà lo scrittore teramano ad individuare nel moderatismo uno spazio praticabile tra la conservazione e la rivoluzione e lo persuaderà che in politica i veri cambiamenti si realizzano gradualmente, attraverso piccole trasformazioni, mentre «i grandi fenomeni sono sempre distruttori» (235). Concetto questo che Delfico ribadirà nel 1835 quando rimprovererà alla rivoluzione di Francia di aver preteso tutto «troppo presto» al punto che il moto rivoluzionario finì per volgere «altrove gli sguardi della umanità e della ragione». Ed egli «si arrestò nell'aspettativa di tempi migliori» (236).

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(1) Spunti critici si trovano in RICCOBONO, Contributo, cit., pp. 392-420, e in AGRIMI, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia, cit., pp. 75-108.

(2) C. CAPRA, Il giornalismo nell'età rivoluzionaria e napoleonica, in La stampa italiana dal cinquecento all'ottocento, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, vol. I, Laterza, Bari 1976, p. 376.

(3) Sull'ammirazione che molti riformatori italiani nutrono per Necker, cfr. a. M. RAO, Napoli e la Rivoluzione (1789-1794), in «Prospettive Settanta», a. VII (1985), n. 3-4, pp. 411-20; M. CUAZ, «Le nuove strepitose di Francia»: l'immagine della rivoluzione francese nella stampa periodica italiana (1787-1791), in «Rivista storica italiana», a. C (1988), fasc. III, p. 457 sgg.

(4) DELFICO, Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, cit., p. 194.

(5) Cfr. DELFICO, Memoria sul Tribunal della Grascia, cit., p. 319.

(6) DELFICO, Memoria sulla necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del Regno, cit., p. 338.

(7) DELFICO, Indizi di morale, cit., p. 47.

(8) Giuseppe Gorani [1740-1819], scrittore politico milanese, legato all'ambiente dei riformatori lombardi, soprattutto a Beccaria, e a quello degli illuministi francesi, a Bonnet e a Voltaire in particolare, aderì alla rivoluzione dell'89 e si trasferì nel 1790 a Parigi, dove due anni dopo prese la cittadinanza francese. Delfico aveva conosciuto Gorani nel 1786 durante un viaggio del conte nel Meridione e ne era rimasto favorevolmente impressionato, tanto che tra i due era sorto subito un rapporto di amicizia. Cfr. DE FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 98, n. 18. In occasione del rifacimento della sua opera Il vero dispotismo, pubblicata a Ginevra nel 1770, Gorani chiese a Delfico, che in quel tempo si trovava in Lombardia, di esaminare il manoscritto e di comunicargli le sue impressioni (cfr. la lettera di Delfico a Fortis da Pavia del 20 aprile 1789, in LETTIERI, Epistolario di Melchiorre Delfico a San Marino, cit., pp. 27-28). E sentito che «molti rilievi e cambiamenti» egli aveva da fare, lo scrittore milanese diede al suo amico «carta bianca» e lo autorizzò a «prestarsi a tutte quelle correzioni che si sarebbero giustificate opportune» (lettera di Gorani a Delfico da Nyon del 29 aprile 1789, in BPT, Ep., n. 109). Sebbene notevolmente ridotta, l'opera, che uscì a Losanna nel 1790 col titolo di Ricerche sulla scienza dei governi, non piacque a Delfico che la considerò un insieme di «tanti saggi senz'ordine» (cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 30 ottobre 1790, in BGSM, n. 106). L'episodio, nonostante avvenga alla vigilia della rivoluzione francese, non sembra assumere nello sviluppo del pensiero politico delficino quella particolare rilevanza che gli è stata attribuita da VENTURI, Nota introduttiva [a M. Delfico], cit., p. 1180. Dalle lettere di cui disponiamo è evidente come la richiesta di Gorani, più che l'avvio di un dialogo politico appaia a Delfico come una fastidiosa incombenza, né d'altro canto il dibattito si protrarrà ulteriormente. Negli anni successivi l'amicizia tra i due scrittori andrà sempre più affievolendosi fino a scomparire, soprattutto per volontà di Delfico che disapproverà gli improvvisi e molteplici cambiamenti ideologici e politici del Milanese, tanto da affermare di non aver «fatto mai gran conto dei talenti del Cittadino Gorani» e di dubitare «che possa dare al pubblico qualche buona idea nuova», mostrandosi addirittura preoccupato di restare danneggiato da sue dichiarazioni compromettenti come quelle presenti nei Mémoires secrets et critiques des cours, des gouvernements et des moeurs des principaux Etats de l'Italie [Paris 1793] in cui Gorani lo ricorda più volte per «son patriotisme». Cfr. la lettera di Delfico a Fortis da Teramo del 30 gennaio 1792, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 391-92 e, soprattutto, quella da Chieti del 7 novembre 1793, in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp. 413-16 corredata di numerose note esplicative della curatrice.

(9) In VENTURI, Nota introduttiva [a M. Delfico],  cit., p. 1181.

(10) «Nel mese di Novembre [1788] - scrive Delfico all'amico archeologo e vescovo danese Friedrich Münter - partii per Pavia per accompagnarvi il mio nipote [Orazio], che desiderava istruirsi nelle Scienze naturali sotto la direzione dei celebri Professori Volta e Spallanzani; e poichè quel soggiorno non mi dispiacque, feci compagnia a mio nipote per tutto l'anno scolastico, cioè a tutto Giugno. Di là per Cremona e Mantova passai a Verona dove restai due mesi: dindi Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara mi trattennero per altro tempo, e mi ritirai qui a Novembre [1789]» (lettera del 10 febbraio 1790, in DI NARDO, Storia e scienza in Melchiorre Delfico, cit., p. 143). Secondo quanto riferisce De Filippis-Delfico, il nostro autore e suo nipote sarebbero partiti alla volta di Pavia prima del mese di novembre, «il dì 8 ottobre 1788» (Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 25). Delfico conobbe Lazzaro Spallanzani [1729-99] negli ultimi giorni del 1788, dopo che il celebre biologo, amico di Alberto Fortis ed autore nel 1765 del Saggio di osservazioni microscopiche, aveva fatto ritorno a Pavia da un viaggio nel Regno di Napoli, durante il quale aveva visitato anche Teramo e compiuto un'escursione sul Vesuvio con il naturalista teramano Vincenzo Comi di cui racconterà nell'opera Viaggi alle due Sicilie ed in alcune parti dell'Appennino, t. I, Stamp. B. Comini, Pavia 1792, p. 10 sgg. Sull'amicizia tra Spallanzani e Comi, cfr. G. PANNELLA, Vincenzo Comi e le sue opere [Napoli 1886], Amministrazione Provinciale di Teramo, Teramo 1992, pp. 21-30.

(11) Francesco Soave [1743-1806], filosofo e pedagogista, tradusse nel 1775 il Saggio sull'intelletto umano di Locke e scrisse nel 1791 le Istituzioni di Logica, Metafisica ed Etica, con le quali contribuì alla diffusione del sensismo in Italia. Contrario sin dall'inizio alla rivoluzione francese, espresse la propria avversione nel volume Vera idea della Rivoluzione di Francia [1793]. Riparato a Lugano all'arrivo dei Francesi [maggio 1796], ricoprì cariche nel settore educativo nella Repubblica italiana presieduta da Napoleone [1802].

(12) Giovanni Buonaventura Spannocchi [1742-1832], giurista senese, fu nominato nel 1782 presidente del Tribunale di prima istanza della Lombardia e, successivamente, del Tribunale di appello. Con i Francesi ricoprì diverse cariche giudiziarie, fino a divenire ministro della Giustizia nella seconda Cisalpina.

(13) Carlo Amoretti [1741-1816], noto studioso di scienze agrarie ed economiche, amico di Soave e di Alberto Fortis, fu nel 1783 nominato segretario della Società patriottica milanese. Di idee moderate, non simpatizzò per la Repubblica Cisalpina (venendo per questo estromesso dalla Società stessa), mentre aderì più tardi al governo napoleonico, dal quale ricevette cariche ed onorificenze.

(14) Sulla permanenza di Delfico nel Nord Italia e sulle amicizie che egli strinse, cfr. DE FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit. , pp. 25-34.

(15) Si veda CUAZ, «Le nuove strepitose di Francia», cit., p. 466. Un atteggiamento completamente opposto il periodico assumerà dopo il 14 luglio, quando condannerà, con toni spesso aspri, sia la rivoluzione che i tumulti popolari che seguirono.

(16) Ivi, p. 469 sgg.

(17) Spannocchi si riferisce probabilmente al Regno delle due Sicilie.

(18) In Opere complete, cit., vol. IV, p. 145. I «bei colpi» non sono che i provvedimenti del 4 agosto con i quali l'Assemblea Nazionale dichiarava «interamente» abolito il regime feudale. In realtà, solo una parte dei diritti e doveri feudali, quelli inerenti alla manomorta reale o personale e alla servitù personale, che gravavano cioè sulla persona, venivano soppressi senza indennità. Tutti gli altri diritti come i canoni, i censi, i vincoli, gli oneri, che gravavano sulla proprietà, venivano dichiarati riscattabili, per cui continuavano a sussistere.

(19) Cfr. VILLANI, Il dibattito sulla feudalità nel Regno di Napoli dal Genovesi al Canosa, cit., pp. 252-331.

(20) FILANGIERI, La scienza della legislazione, cit., lib. III, cap. XVIII, p. 572. «Uno deve essere il fonte del potere, uno il centro dell'autorità», poichè «senza questa unità di potere non vi può essere ordine nel governo, o, per meglio dire, non vi è più governo, giacché l'anarchia non è altro che la distruzione di questa unità» (ivi, p. 571).

(21) Lettera di Spannocchi a Delfico da Milano del 13 settembre 1789, in AST, b.20, fasc. 294, n. 6.

(22) P. VERRI, Alcuni pensieri sulla rivoluzione accaduta in Francia, pubblicati in C. MORANDI, Pietro Verri e la Rivoluzione francese, in «Archivio storico lombardo», a. LV (1928), fasc. IV, p. 536.

(23) Alberto Fortis [1741-1803], naturalista veneto, nel 1774 pubblicò la sua opera principale, Viaggio in Dalmazia, che gli procurò risonanza europea. Nel 1780 ricoprì la carica di mineralogista presso la corte napoletana, ma la rivalità e la gelosia che sorsero in seguito alla scoperta da lui fatta di una grande nitriera naturale fecero naufragare l'iniziativa. Viaggiò molto per motivi di studio e di ricerca e fu autore di numerose memorie scientifiche. Altrettanto intensa fu la sua attività giornalistica: collaborò a diversi periodici tra cui il «Nuovo Giornale enciclopedico» e «Notizie letterarie», e fu promotore del «Genio letterario  d'Europa», che uscì a Venezia dal 1793 al 1794. Coinvolto in un precedente processo per sentimenti filo-francesi e successivamente accusato di giacobinismo, nell'estate del '96 riparò in Francia dove pubblicò nel 1798 De la Toscane, in cui ribadiva la propria ammirazione per il riformismo leopoldino. Nel 1801 fu nominato prefetto della Biblioteca dell'Istituto di Bologna e due anni dopo segretario dell'Istituto nazionale italiano. Delfico conobbe Fortis nel 1779 in occasione di un viaggio che questi fece nel Meridione (cfr. la lettera di Delfico a Pompilio Pozzetti del 3 dicembre 1803 in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., p. 393). Tra i due nacque subito una profonda amicizia, che durò tutta la vita. Di questo legame è testimonianza una intensa corrispondenza (senza dubbio la più rilevante dell'intero epistolario delficino) attraverso la quale il riformatore abruzzese ed il naturalista veneto si scambiarono idee su argomenti di diversa natura, nonché notizie e considerazioni riguardanti avvenimenti del tempo. Parte di questa nutrita corrispondenza è stata già pubblicata. Cfr. DELFICO, Opere complete, cit., vol. IV, pp. 109-14 e 205; BALSIMELLI, Epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp. 15-42; RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp. 403-20, la quale fornisce nell'Introduzione ulteriori ragguagli sul rapporto di amicizia tra i due scrittori; LETTIERI, Epistolario di Melchiorre Delfico a San Marino, cit. pp. 15-30; S. SMITRAN, Dalla corrispondenza di Alberto Fortis a Melchiorre Delfico, in Atti del convegno di studi storici L'Abruzzo e la Repubblica di Ragusa tra il XIII e il XVII secolo, t. I, Associazione Archeologica Frentana, Ortona 1988, pp. 121-32. Numerosi stralci di lettere, inoltre, sono stati pubblicati da vari studiosi di Delfico, in particolare da CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit. La parte più cospicua delle lettere ancora inedite è conservata nella Biblioteca Governativa di San Marino e nell'Archivio di Stato di Teramo.

(24) Lettera del 26 dicembre 1789, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 300.

(25) Lettera di Delfico ad Amaduzzi del 12 agosto 1788 da Teramo, conservata presso la BAFS, Cod. n. 14, Camera I - III - 3/14, n. 47. Giovanni Cristoforo Amaduzzi [1740-92], originario di Savignano di Romagna, visse a Roma dove fu professore di greco e ispettore della tipografia del Collegio di Propaganda. Noto filologo, legò la sua fama agli Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, usciti a Roma in quattro volumi dal 1773 al 1780.

(26) Spannocchi sembra qui temere possibili reazioni della Chiesa contro i provvedimenti fino allora adottati dall'Assemblea Costituente nel settore ecclesiastico-religioso. Dopo aver infatti soppresso l'11 agosto 1789 le decime di qualsiasi natura, comprese quelle ecclesiastiche, l'Assemblea aveva decretato, il 2 novembre 1789, che tutti i beni del clero venissero messi a disposizione della nazione e aveva disposto, il 13 febbraio 1790, la soppressione degli ordini e delle congregazioni regolari e la proibizione dei voti monastici.

(27) AST, b. 20, fasc. 294, n. 9.

(28) VENTURI, Nota introduttiva [a M. Delfico], cit., p. 1173.

(29) Lettera del 28 luglio 1790, in AST, b. 20, fasc. 294, n. 11.

(30) DELFICO, Riflessioni su la vendita dei feudi, cit., p. 420.

(31) Ivi, p. 408.

(32) Sulla necessità per Palmieri di una trasformazione dei feudatari in proprietari borghesi, cfr. A. LEPRE, Contadini, borghesi ed operai nel tramonto del feudalesimo napoletano, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 41-51.

(33) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 23 agosto 1791, in BGSM, n. 123.

(34) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 20 dicembre [1796], in BGSM, n. 174.

(35) Cfr. DELFICO, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., vol. I, pp. 211-12,  e  E.-J. SIEYÈS, Essai sur les privilegès [1788], trad. it. Saggio sui privilegi, in Opere e testimonianze politiche, t. I, Scritti editi, vol. I, a cura di G. Troisi Spagnoli, Giuffrè, Milano 1993, pp. 96-98.

(36) Cfr. DELFICO, Riflessioni su la vendita dei feudi, cit., p. 420.

(37) Ivi, p. 419.

(38) Ivi, p. 409.

(39) «Le diseguaglianze di proprietà e di professione sono della stessa natura di quelle d'età, di sesso, di taglia, di colore, ecc. Esse non snaturano affatto l'eguaglianza civile […]. La legge non accorda nulla, protegge ciò che già esiste finché non venga a nuocere all'interesse comune» (E.-J. SIEYÈS, Qu'est-ce que le tiers état? [1789], trad. it. Che cos'è il Terzo Stato?, in Opere e testimonianze politiche, t. I, Scritti editi, vol. I, cit., p. 280).

(40) DELFICO, Riflessioni su la vendita dei feudi, cit., p. 420.

(41) Ivi, p. 426.

(42) Cfr. De l'Esprit des loix, cit., tome premier, livre II, chap. IV, pp. 29-35.

(43) DELFICO, Sull'importanza di abolire la giurisdizione feudale, e sul modo, cit., p. 355. Datata da Venturi al 1788 (Nota introduttiva [a M. Delfico], cit., p. 1173), la memoria è più correttamente fatta risalire dalla Rao al 1790, alla vigilia del viaggio dei Reali napoletani a Vienna [agosto 1790 - marzo 1791] cui Delfico fa riferimento nella lettera con la quale presenta lo scritto alla regina (L'«amaro della feudalità», cit., pp. 69-70).

(44) Anche per Sieyès, un corpo intermedio «non avrà minimamente a che fare con le funzioni essenziali del potere pubblico» poiché esso è «una massa estranea, nociva, sia perché intralcia dei rapporti diretti fra governanti e governati, sia perché grava sul meccanismo della macchina pubblica» (Saggio sui privilegi, cit., p. 99).

(45) Piuttosto frequenti sono i riferimenti a Montesquieu, che viene di volta in volta definito «grande uomo» (Saggio filosofico sul matrimonio, cit., p. 115), «immortale Autore» per aver stabilito i principi di governo (Indizi di morale, cit., p. 35), «illustre moralista» e «nome immortale per i progressi della filosofia» (Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 247), fino ad essere considerato, assieme a Rousseau e Sieyès, «il più grande filosofo politico del secolo» (Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 472). Ma col Presidente di Bordeaux egli si trova non di rado in disaccordo. Gli rimprovera innanzitutto di aver creduto che la virtù fosse un principio necessario alla repubblica e non alla monarchia, che riteneva invece avesse più bisogno dell'onore (Sull'importanza di abolire la giurisdizione feudale, e sul modo, cit., p. 358), di cui il Teramano dà peraltro una diversa accezione (Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, cit., p. 172). Critico è anche nei confronti sia della classificazione montesquiana delle forme di governo che, soprattutto, dell'ammirazione che il Francese nutriva per i Romani, nei quali troppo spesso «in favor suo credeva trovarci la ragione», cadendo «pure sovente in contraddizioni, paradossi, ed errori, per aver voluto argomentare su le parabole della storia» (Memoria sulla libertà del commercio, cit., p. 47 e Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., pp. 85-86). Contrario, infine, alla teoria climatica (Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., p. 98), egli muterà in seguito opinione, riconoscendo a Montesquieu il merito di aver provato «l'influenza de' climi su la morale e su la politica» (Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 459), per poi rifiutarla di nuovo, ritenendo «falsa ed insussistente l'idea di una politico-geografico-fisica determinatrice delle forme dei governi pel solo effetto dei gradi di latitudine» (Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., pp. 82-83). Molte delle critiche delficine a Montesquieu sono anticipate nelle Note che Genovesi appose alla seconda edizione napoletana [1777] dello Spirito delle leggi. Cfr. DE MAS, Montesquieu, Genovesi, cit., sp.  pp. 104-28 e 149-56. Sul rapporto tra Delfico e Montesquieu, cfr. BERSELLI AMBRI, L'opera di Montesquieu nel Settecento italiano, cit., pp. 160-62.

(46) MONTESQUIEU, De l'Esprit des loix, cit., tome premier, livre XI, chap. IV, p. 256.

(47) Lettera di Delfico al duca di Cantalupo del 1° aprile 1795, sui feudi, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 15-16. Cfr. inoltre Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p. 354; Riflessioni su la vendita dei feudi, cit., p. 426.

(48) DELFICO, Sull'importanza di abolire la giurisdizione feudale, e sul modo, cit., p. 358.

(49) Già avviata alla fine del 1789, la discussione sull'organizzazione del potere giudiziario fu ripresa dall'Assemblea Nazionale il 24 marzo 1790. Il 30 aprile fu riconosciuto l'istituto della giuria alle sole cause penali, respingendo la tesi dei democratici, in primo luogo di Robespierre, di estendere tale istituto anche alle cause civili. Il 24 maggio 1790 l'Assemblea decretò la facoltà di impugnare le sentenze giudicate in ultima istanza presso la Cassazione e il 25 maggio iniziò a discutere del Tribunale di Cassazione, del quale Robespierre, seguito da altri deputati del Terzo Stato, sostenne l'appartenza al corpo legislativo, di cui doveva considerarsi un completamento, essendo il suo compito quello di sorvegliare i giudici e impedire la violazione della legge. Si veda in proposito il discorso all'Assemblea Nazionale, Sur l'organisation du Tribunal de cassation, del 25 maggio 1790, trad. it., Il diritto del parlamento di giudicare in materia di cassazione, in M. ROBESPIERRE, I principî della democrazia, a cura di a. M. Battista, Trimestre Editrice, Pescara 1989, pp. 133-35. Per un'analisi dell'iter giuridico-politico della costituzione francese del 1791, cfr. A. SAITTA,  Costituenti e costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale (1789-1875), Giuffrè, Milano 1975, pp. 27-85.

(50) In BPT, segnate rispettivamente Ined., n. 402 e Misc. 3, n. 849. La corrispondenza di molti brani delle due memorie con quelli dell'altra già edita, Sull'importanza di abolire la giurisdizione feudale, e sul modo, inducono a credere che si tratti di due precedenti stesure di quest'ultima.

(51) Inedito delficino, cit., n. 402.

(52) Ibid. «Ogni corpo - continua Delfico - desideroso d'ingrandirsi, altro non ha in mira, che ottenere considerazioni, ricchezza e potere; e la propria realità è la sua prima legge e di tutti i suoi membri, poiché tutti credono partecipare ai vantaggi comuni. I differenti corpi dunque che si formano in uno stato cercano di tirare a loro i vantaggi che dovrebbero essere comuni a tutta la società. Il bene generale serve intanto di velo alla loro ambizione, è il pretesto di tutti i loro sforzi, e facilmente ne impongono perché agevolmente ne persuadono se stessi, e sicuramente immaginano che la loro gloria sia quello dello Stato, e che se essi non fioriscono, tutto debba essere in languore. In conseguenza tutti sagrificano al loro ingrandimento. Ogni corpo ha quindi i suoi principj ed i suoi segreti, che sono i mezzi che impiegano per ingrandirsi alle spese della Società; perciò li custodiscono con gelosia, ne formano l'opinione comune che diventa l'abitudine dei loro pensieri, e ciò è che si chiama propriamente spirito di corpo». Alcune di queste considerazioni riecheggiano il Sieyès del Saggio sui privilegi, cit., p. 94 sgg.

(53) Inedito delficino, cit., n. 402.

(54) Cfr. CUAZ, «Le nuove strepitose di Francia», cit., p. 485. 

(55) Inedito delficino, cit., n. 849.

(56) Cfr. CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cit., p. 45 sgg. Dello stesso autore si veda la recensione all'Essai sur l'art de rendre les révolutions utiles di Jean Esprit Bonnet [Paris 1801], pubblicata da S. NUTINI, Vincenzo Cuoco a Milano (1800-1806), Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1989, pp. 215-18, il quale sottolinea (pp. 211-14) alcuni punti di contatto tra la recensione e il Saggio storico. Definito dallo stesso Molisano un «libro pieno di buon senso» (Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cit., p. 64), il volume di Bonnet costituisce una importante fonte cuochiana. Sulla presenza nel Saggio storico di spunti teorici dell'Essai, cfr. M. PARIGI, Per una rilettura del «Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799» di Vincenzo Cuoco, in «Archivio storico italiano», a. CXXXV (1977), n. 491-92, pp. 250-56.

(57) Inedito delficino, cit., n. 849.

(58) L'Assemblea Nazionale, dopo aver decretato il 2 novembre '89 l'appartenenza dei beni ecclesiastici alla Nazione, ne autorizzò la vendita per 400 milioni da utilizzare per estinguere il debito pubblico. Per assicurare un rapido introito nelle casse dello Stato, il 19 dicembre 1789 furono emessi dei buoni del Tesoro, gli «assegnati» appunto, che fruttavano un interesse del 5% ed erano rimborsabili in terre anziché in moneta. Ma contrariamente a quanto sembra credere Delfico, gli «assegnati» non sortirono l'effetto sperato, poiché il pubblico non accordò loro molta fiducia, in quanto il clero, sebbene spossessato dei suoi beni, continuava di fatto a conservarne l'amministrazione. Sulla vicenda degli assegnati, cfr. J. LAFAURIE, Les assignats et les papiers-monnaies émis par l'Etat au XVIIIe siècle, Le Léopard d'Or, Paris 1981.

(59) Delfico si riferisce probabilmente all'incarico che il 23 settembre 1790 l'Assemblea affidò al Comitato della Costituzione di «esaminare tutti i decreti resi dall'Assemblea Nazionale, separare quelli che propriamente formano la costituzione da quelli che sono semplicemente legislativi o di regolamento, fare in conseguenza un corpo di leggi costituzionali, rivedere gli articoli al fine di rettificare gli errori che potessero esservisi introdotti». Cfr. SAITTA, Costituenti e costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale, cit., p. 232.

(60) Lettera da Napoli del 6 novembre 1790, in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., p. 409.

(61) Lettera ai fratelli da Napoli del 25 giugno 1791, in B.P.T., Ep., n. 281.

(62) Ibid.

(63) Lettera da Napoli del 2 luglio 1791, in BAFS, n. 49.

(64) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 12 luglio 1791, in BGSM, n. 127. L'opera, di cui venne fatta nel 1791 «un'edizione numerosa», fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815. Il 15 settembre 1791 Fortis ne tesse l'elogio sul n. 37 delle «Notizie letterarie», non mancando di sottolineare l'impegno intellettuale e teorico dell'Autore, che con il suo libro aveva voluto «rendere efficace il desiderio di tutti i veri filosofi», qual era quello di un legislatore che «propagasse al suo popolo leggi chiare, brievi, intelligibili, e soprattutto adattate all'indole, alla natura, alla religione, ai costumi, allo stato, ed al governo della nazione» (p. 284). La recensione uscì anche sul «Nuovo Giornale enciclopedico d'Italia» nel fascicolo di novembre 1791, pp. 3-13. A Fortis lo scrittore abruzzese aveva inviato diverse copie delle Ricerche perché le diffondesse nell'Italia settentrionale e, forse, anche un estratto che l'abate gli aveva richiesto per poterlo «diriggere oltre Monti» (cfr. la lettera a Fortis del 2 agosto 1791, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 390). In Francia il libro era giunto abbastanza presto, come lo stesso autore comunicava a Fortis: «A Parigi dev'essere capitata qualche copia e credo a Condorcet ed al sublime Syeies [sic]» (lettera del 23 agosto 1791, cit.). Altre sette copie il Teramano aveva spedito a Roma ad Amaduzzi perché, trattenutene due, provvedesse a far pervenire le altre agli amici della Romagna (cfr. la lettera di Delfico ad Amaduzzi del 2 luglio 1791, cit.). A Milano, dove ebbe ampia diffusione, il libro ricevette  molti  elogi  (cfr. la lettera di  Amoretti a Delfico del 13 dicembre 1791, in VENTURI, Nota introduttiva [a M. Delfico], cit., p. 1179). Grande era l'ammirazione che gli esprimeva Spannocchi, anche se non mancava di muovergli qualche rilievo (cfr. la lettera da Milano del 26 dicembre 1791, in AST, b. 20, fasc. 294, n. 14). Ma alla replica di Delfico qualsiasi divergenza tra i due amici era pressoché scomparsa, tanto che Spannocchi lo invitava a «imbarazzarsi» più che di lui, «della facoltà legale dell'università di Pavia, scandalizzatissima, che abbiate osato toccare al Santuario, e che freme in sentire che il vostro libro sia assai ricercato oltre i monti, e in specie nella Germania» (lettera da Milano del 13 giugno 1792, in Opere complete, cit., vol. IV, p. 146, erroneamente datata 1790). Della reazione della Facoltà legale di Pavia Delfico rimase alquanto sorpreso e non nascose il proprio disappunto a Fortis nella lettera da Teramo del 26 giugno 1792, in BGSM, n. 142. Dell'opera si parlò anche sul periodico napoletano «Analisi ragionata de' libri nuovi» [febbraio 1792], dove apparve un lungo estratto, seguito da un commento altrettanto lungo ad opera di  Giovan Leonardo Marugi. Nel suo intervento, il medico pugliese, nato a Manduria nel 1753, principale ispiratore della rivista, muoveva più di una critica al libro del Teramano, il cui stile riteneva abbondasse di «Francesismi» (p. 63). Ma soprattutto cercava di limitarne il carattere eversivo, sostenendo che dalla «mostruosità» di certe leggi romane non si dovesse dedurre, attraverso un «parallogismo», la mostruosità di quelle attuali (p. 48) e che le Ricerche dimostravano in definitiva molto più «la malizia de' Giureconsulti» che non «quella de' Patrizj, o degli Imperatori, come vuoleva darci ad intendere il N.A.» (p. 58).

(65) Cfr. la lettera di Delfico ai fratelli del 25 giugno 1791, cit., nella quale prevede l'opposizione dei magistrati per essersi espresso contro l'incremento economico a loro favore nella Memoria contro l'aumento dei soldi ai Magistrati, cit., pp. 394-96. Si veda, inoltre, la lettera al Fortis del 5 luglio 1791, in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp. 411-12.

(66) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 19 luglio 1791, in BGSM, n. 113. L'opera, che riceve gli «elogi de' Francesi patrioti» (lettera a Fortis del 12 luglio 1791, cit.), pur avendo, scrive il Teramano, «dei detrattori nella classe tabularia, ha de' panegeristi nella marziale, e fra essi sento che sia il Sig. Pommereul, che sicuramente non mi conosce» (lettera a Fortis del 5 luglio 1791, cit., p. 412). François René Jean de Pommereul [1745-1823], generale francese, dopo aver partecipato alla conquista della Corsica, nel 1787 fu chiamato a Napoli dal ministro Acton per riorganizzare l'artiglieria sul modello di quella francese. Dalla capitale partenopea si allontanò dopo che il Regno napoletano era entrato in guerra con la Francia [luglio 1793], per fare in seguito ritorno in patria, dove si mise al servizio della Repubblica. Nei confronti del Francese il Nostro nutriva da tempo grande stima (cfr. le lettere di Delfico a Fortis da Pavia del 10 aprile 1789, in BGSM, n. 92 e del 20 aprile successivo, cit., p. 27). Con gli anni questo sentimento si rafforzerà al punto che il Teramano gli sottoporrà il suo Discorso sulla pena di morte, redatto molto probabilmente nell'estate del '95 e non più rintracciato, Discorso che lo stesso Pommereul si impegnerà a tradurre perché fosse conosciuto in Francia (cfr. il brano della lettera di Delfico a Micali da Firenze del 19 novembre 1795 riportato dallo stesso Micali nella lettera che invia a Gregorio de Filippis da Firenze il 10 giugno 1836, in Opere complete, cit., IV, pp. 288-91).

(67) GHISALBERTI, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, cit., p. 432. Sullo sviluppo in Italia nella seconda metà del Settecento di una letteratura critica della legislazione romana, cfr. R. BONINI, Crisi del diritto romano, consolidazioni e codificazioni nel Settecento europeo, Pàtron, Bologna 1988, in cui viene analizzata anche la posizione  di Delfico (pp. 145-67).

(68) DELFICO, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., p. 225.

(69) Ivi, p. 105.

(70) Ivi, p. 100. Cfr., in proposito, A. DE MARTINO, Tra legislatori e interpreti. Saggio di storia delle idee giuridiche in Italia meridionale, Jovene, Napoli 1975, p. 97.

(71) L'idea di una legislazione «adattabile allo stato attuale de' governi e delle nazioni» (Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., p. 189) è una tesi più volte espressa nel corso dell'opera e ancor più lo sarà nelle successive Memorie storiche di S. Marino. Di conseguenza, la stessa accusa di astrattezza di cui si è talvolta troppo frettolosamente tacciato il Teramano per aver rivendicato un codice «secondo i principj della natura e della ragione» (Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., p. 161), la cui validità trascendesse i limiti di tempo e di spazio, crediamo vada in qualche modo rivista. Sulla dicotomia razionalismo/relativismo presente in alcuni illuministi napoletani cfr. retro, p. 12, nota 52. 

(72) C. GHISALBERTI, Le costituzioni «giacobine» (1796-1799), Giuffrè, Milano 1957, p. 43.

(73) Cfr. DELFICO, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., pp. 167, 168, 174  e 190.

(74) Cfr. DELFICO, Memorie sul Tribunal della Grascia, cit., p. 287; Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, cit., pp. 210 e 216.

(75) DELFICO, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., p. 158.

(76) Ivi, p. 117.

(77) Ivi, pp. 168, 183 e 189.

(78) Ivi, p. 157.

(79) Ibid.

(80) In opposizione a quanto stabilito dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, l'Assemblea Nazionale aveva votato, tra l'ottobre e il dicembre 1789, la legge elettorale che riconosceva la distinzione tra cittadini passivi, titolari dei soli diritti naturali e civili, e cittadini attivi che godevano dei diritti politici, secondo una classificazione operata da Sieyès nei Préliminaires de la Constitution française. Reconnaissance et exposition raisonnée des droits de l'homme et du citoyen, Baudovin, Paris 1789. Avevano diritto di voto solo coloro che pagavano un'imposta annua pari almeno al valore di tre giornate lavorative. A costoro non spettava eleggere i deputati, ma solo scegliere gli elettori, categoria limitata anch'essa sulla base del censo, della quale potevano far parte i cittadini che versavano un contributo corrispondente al valore di dieci giornate lavorative, mentre gli eleggibili dovevano essere proprietari e pagare un contributo pari al valore di un marco d'argento.

(81) DELFICO, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., pp. 158-59.

(82) Ivi, p. 220.

(83) Vedi retro, p. 77.

(84) DELFICO, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., p. 216.

(85) Ivi, p. 217.

(86) M. DELFICO, Memoria per l'abolizione o moderazione della servitù del pascolo invernale detto de' regj stucchi, s.d., s.l. [ma Napoli 1791], p. V.

(87) Lettera di Melchiorre ai fratelli del 25 giugno 1791, cit.

(88) DELFICO, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, cit., p. 212.

(89) Lettera ai fratelli da Napoli,  30 luglio 1791 in AST, b. 24, fasc. 453c, n. 8.

(90) Le prime reazioni della corte napoletana colpirono soprattutto le fonti d'informazione. «Sin dall'agosto il governo fece sopprimere l'articolo riguardante le notizie di Francia nella ristampa napoletana della "Gazzetta universale" di Firenze. La sorveglianza sui libri e le stampe che si potevano introdurre nel Regno e sui discorsi che si facevano in pubblico intorno alle cause e ai progressi della rivoluzione fu intensificata nei mesi seguenti. Nell'ottobre venne ordinato di intercettare le corrispondenze sospette e si vietò ogni riunione segreta delle logge dei Liberi Muratori; il 15 dicembre 1789 venne proibita "nel modo più rigoroso" l'introduzione dell'opuscolo dell'abate Mably, Dei diritti e dei doveri del cittadino» (CUAZ, «Le nuove strepitose di Francia», cit., p. 484). Sull'atteggiamento del governo napoletano verso gli stranieri, cfr. la Correspondance inédite de Marie Caroline reine de Naples et de Sicile, avec le marquis de Gallo publiée et annotée par M.H. Weil et C. Di Somma Circello, Emile Paul, Paris 1911. Per un'analisi della stampa partenopea all'indomani dei fatti dell'89, cfr. a. M. RAO, La Rivoluzione francese nella stampa periodica napoletana, in «Prospettive Settanta», a. XI (1989), n. 1-2,  pp. 44-61.

(91) Lettera di Acton al ministro napoletano a Madrid del 7 dicembre 1790, in A. SIMIONI, Le origini del Risorgimento politico dell'Italia meridionale, Principato, Messina-Roma 1925, vol. I, p. 385 sgg. Sulla preoccupazione governativa di una sollevazione antimonarchica a Napoli nel 1790, cfr. i Racconti storici di Gaetano Rodinò  ad Aristide suo figlio, a cura di B. Maresca, in «Archivio storico per le province napoletane», a. VI (1881), fasc. II, p. 270.

(92) Lettera da Napoli del 27 settembre 1791, in BGSM, n. 120.

(93) Ai fratelli, che attribuivano la sua esclusione al carattere antifeudale dei suoi scritti, spiegava il 24 settembre 1791: «Non vorrei che pensaste che le due operette dell'anno passato e di questo m'abbino potuto far male. Le avrei sicuramente fatte, ancorché questo fosse stato sicuro, e che avessero d'altronde potuto produrre qualche pubblico bene; ma sono sicurissimo che la rabbia baronale e la forense sono state affatto impotenti, e potrei dir anche vantaggiose» (in DE FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 102, nota 44). Infatti, all'inizio dell'estate aveva rifiutato un incarico ministeriale: «Il Governo - confidava a Fortis - ha tentato ritenermi con favorevole offerta che io ho creduto dover rinunciare e non l'ho fatto sapere agli amici, che mi avrebbero dato del matto mille volte: non sono però ancora fuori del pericolo, e mi fermeranno certamente se mi daranno ciocché mi può convenire, e che io solo credo dover desiderare. Forse non sarà, ed io resterò tranquillo, libero ed indifferente» (lettera da Napoli del 12 luglio 1791, cit.). Si trattava, con ogni probabilità, di un posto nel ministero togato come risulta da una successiva lettera a Fortis dell'8 novembre 1791, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 308.

(94) Lettera da Napoli del 13 settembre 1791,  in BGSM, n. 124.

(95) Sin dal 1786 Delfico aveva chiesto l'abolizione del «diritto del pascolo invernale» nei paesi costieri dell'Abruzzo, ma sempre con scarso successo. Alla fine del '91 ne sollecitava di nuovo, ma invano, la soppressione nella Memoria per l'abolizione o moderazione della servitù del pascolo invernale detto de' regj stucchi, cit. Amareggiato, scriveva ad Amaduzzi: «Vorrei poter far più spesso simili opuscoli per godere d'un tanto piacere, ma in un paese come questo, cadono le braccia a chi si occupa della pubblica utilità più che della Gloria […]. Spesso ho dovuto dolermi della mia attività perduta, e non è stata poca quella che ho dovuta impiegare per l'affare presente; e dopo un anno e mezzo di assistenza ed altri antecedenti, parto da Napoli senz'alcuna conchiusione, giacché nel Consiglio di ieri dopo molti dibattimenti fra i deliberanti, de' quali uno solo [il duca di Cantalupo] fu per la ragione, nulla si conchiuse, se non che prepararsi per una decisione infelice» (lettera da Napoli, s.d. [ma 29 novembre 1791], in BAFS, n. 52). Uguale amarezza manifestava a Fortis in una lettera del medesimo giorno (in BGSM., n. 119). Lo stesso abate riteneva «fra le imprese difficili, situate al confine dell'impossibile, il far cose buone a Napoli, stante la venalità della Segretaria, la loro illimitata influenza, e la paura che ognuno ha quando si tratti di dire ai Sovrani delle verità, che urtino gli interessi dei più tristi fra' loro servidori» (lettera di Fortis a Domenico Cotugni del 14 agosto 1791, in G. CALABRO', Tradizione culturale gesuitica e riformismo illuministico. Juan de Osuna e le «Notizie letterarie» (1791-92), in Saggi e ricerche sul Settecento, cit., p. 557).

(96) A Teramo, il duca gli scriverà il 23 dicembre 1791: «Il Marchese Palmieri [nuovo direttore del Consiglio delle Finanze] a me pare che voglia fare al contrario di quello che ha stampato. I suoi sentimenti nel Consiglio si oppongono diametralmente alle di lui massime scritte. Io ne rimango sorpreso, e mi quieto riflettendo, che quella sede di direttore sarà la cagione del cangiamento subitaneo». E il 1° febbraio 1792: «A ragione il fu abate Galiani rassomigliava il Consiglio delle Finanze alla notte di Natale, nella quale si mangia assai, e poi tutto termina in una fiera indigestione. Così nel Consiglio grandi progetti, ordinazioni di piani, riforme, ben pubblico, commercio, agricoltura, arti, mestieri, ecc. Ed indi o sempre da capo senza concludersi cosa, o si conclude il peggio. Caro D. Melchiorre, voi è vero mi persuadeste a non lasciar mai d'intervenire in Consiglio. Ma intanto che ne ho cavato di profitto colla mia assistenza? Quattro forensi tenaci nel loro dispotismo dispongono a voglia propria degli affari che ivi si propongono». E ancora l'11 novembre 1792: «Le noie, e seccature forensi sono state le medesime, anzi maggiori […]. La pratica giornaliera dimostra, che l'esecuzione in questo nostro Paese  fa odiose tutte le operazioni più utili, e le avvelena in modo, che si bestemmiano e da chi le ha proposte  e da chi le ha ordinate. Quindi è nata fra noi quella grandissima, micidiale e reciproca diffidenza che passa fra il governo e li sudditi, e per cui si ama piuttosto il disordine antico, che l'uscirne fuori col timore d'inciampare nel peggio. Caro amico se la nostra Costituzione tutta forense, e litigiosa, e per la quale va tutto a colare il denajo nazionale nella borsa dei Paglietti supremi, medii, ed infimi, non si cangia, e non se ne forma altra veramente politica, e statistica, si starà sempre male, nulla mai otterremo di buono, e ci stropicciaremo il cervello a scrivere e declamare inutilmente». Le lettere, parzialmente pubblicate dal Clemente (Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 309-10), sono conservate presso l'AST, b. 20, fasc. 281, rispettivamente nn. 2, 3 e 6.

(97) Cfr. la lettera di Delfico ad Amaduzzi da Napoli del 29 novembre 1791, cit.

(98) Cfr. la lettera a Fortis da Teramo del 30 gennaio 1792, cit.

(99) La rivista, che aveva iniziato le pubblicazioni nell'ottobre del '91, uscì fino al dicembre 1793. Tuttavia, in seguito a contrasti interni, nell'agosto del '93 si giunse ad una scissione che portò, a partire da quel mese, alla pubblicazione, accanto all'«Analisi ragionata», di un altro periodico, il «Giornale letterario di Napoli per servire di continuazione all'Analisi ragionata de' libri nuovi», che uscì fino al gennaio 1799. Vera prosecuzione dell'«Analisi ragionata» furono però le «Effemeridi enciclopediche per servire di continuazione all'Analisi ragionata de' libri nuovi» pubblicate a Napoli dal gennaio 1794 al dicembre 1796. Sulla nascita e le vicissitudini di queste riviste, cfr. a. M. RAO, Note sulla stampa periodica napoletana alla fine del '700, in «Prospettive Settanta», a. X (1988), n. 2-3-4, pp. 333-66. Un vero e proprio giornalismo politico a Napoli, come altrove, si avrà soltanto con l'esperienza repubblicana. Cfr. Napoli 1799. I giornali giacobini, a cura di M. Battaglini, Libreria A. Borzi, Roma 1988.

(100) RAO, Note sulla stampa periodica napoletana alla fine del '700, cit., p. 342.

(101) Cfr. Storia dell'Umana Società, in «Analisi ragionata», ottobre 1791, pp. 17-18.

(102) Cfr. Ou sont-ils les defenseurs du peuple, in «Analisi ragionata»,  novembre 1791, pp. 54-56.

(103) Cfr. Realtà del progetto filosofico Anarchia e Deismo pubblicata da M. Mercier nel sogno Profetico intitolato l'«Anno 2440» interpretato da altro soggetto, in «Analisi ragionata», dicembre 1791, pp. 4-5. Nella Introduzione al volume, il cui vero titolo è Realtà del progetto filosofico Anarchia e deismo pubblicata da Monsieur Mercier intitolato Anno 2440 interpretato ora da un altro sogno, s.e., s.l., 1791, Louis-Sébastien Mercier finge di presentare un libro, scritto nel 1768, contenente quelle idee e finalità dei Filosofi che stavano trovando attuazione nella Francia del 1791. Sulla scia di quei principi filosofici, sostiene l'Autore, «vuolsi cancellare dalla mente, e sradicare dal cuore ogni idea di Religione rivelata, voglionsi sbalzare dal Trono tutti i Regnanti; vuolsi finalmente una libertà senza limiti d'autorità divina od umana. […] Ma l'evidenza dei fatti, il linguaggio dei Filosofi, lo spirito di vertigine, che dappertutto prevale nella Francia, convince ognuno, che sotto le belle apparenze di patriottismo, d'umanità, e di libertà nascondeasi l'infausto progetto di sbalzare dal Trono il Monarca, cancellando ogni vestigio di Religione, per introdurvi poscia il deismo, e piantar l'Anarchia». E conclude affermando che «tempo è ormai di riflettere sopra il resto dell'Europa», minacciata dallo stesso destino «che ora opprime la Francia» (Introduzione, cit.,  pp. IV, XXII e XXIV).

(104) «Analisi ragionata», febbraio 1792, p. 63. Per il giudizio della rivista sulle Ricerche, cfr. retro, p. 81, nota 64.

(105) Come è noto, con il giuramento di fedeltà alla Costituzione da parte di Luigi XVI [14 settembre 1791] si ritenne conclusa l'attività della Costituente, la quale si sciolse il 30 settembre successivo, non prima di aver eletto l'Assemblea legislativa, che si riunì il 1° ottobre 1791.

(106) L'Autore si riferisce probabilmente ai disordini del 17 luglio 1791, quando la Guardia nazionale aveva sparato sulla folla recatasi al Campo di Marte a reclamare la Repubblica, provocando numerosi morti. Violente manifestazioni nelle città e nelle campagne si verificarono anche nell'autunno e nell'inverno successivi contro il carovita e per la completa soppressione del regime feudale.

(107) Lettera da Teramo del 30 gennaio 1792, cit.

(108) Lettera del 21 febbraio 1792, in AST, b. 20, fasc. 281, n. 4.

(109) Brano di lettera non autografa riportata di seguito alla lettera del duca di Cantalupo a Delfico del 21 febbraio 1792, cit.

(110) Si vedano le lettere del 20 febbraio 1792, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 173-75, del 9 aprile 1792,  in  AST, b. 20, fasc. 290a, n. 2  e  quella del 13 maggio 1792, in BPT, Ep., n. 190. Giuseppe Micali [1769-1844], storico e archeologo, fu noto soprattutto per le ricerche sulla civiltà etrusca, che ebbe il merito di rivalutare. Recatosi a Parigi al tempo del Direttorio, vi rimase fino al 1798. Ritornato in Toscana riprese gli studi sulla storia antica e pubblicò le sue due opere principali, L'Italia avanti il dominio dei Romani [1810] e la Storia degli antichi popoli italiani [1832]. Conobbe Delfico ancora prima della rivoluzione, durante uno dei suoi viaggi a Napoli.

(111) Lettera di Acton a Gallo del 12 ottobre 1792 in G. NUZZO, Italia e rivoluzione francese. La resistenza dei principi (1791-1796), Liguori, Napoli 1965, pp. 104-105.

(112) Sull'iniziativa del ministro napoletano, cfr. G. NUZZO, Giovanni Acton e un tentativo di lega italiana, in «Rassegna  storica napoletana», a. IV (1936), n. 2, pp. 113-37 e n. 3-4, pp. 170-236, ora in La Monarchia delle Due Sicilie tra l'ancien régime e la rivoluzione,  Berisio, Napoli s.a. [1972], p. 301 sgg.

(113) Cfr. la lettera di Spannocchi a Delfico da Milano del 13 giugno 1792, cit.

(114) Il 22 settembre 1792 la Francia, senza esplicita dichiarazione di guerra, attaccò la Savoia con la quale aveva rotto le relazioni diplomatiche sin dal maggio precedente, conquistando nei mesi successivi diverse località. In ottobre, la flotta francese si presentò davanti ad Oneglia volendovi porre un presidio. La popolazione resisté, ma la città venne bombardata, occupata e messa al sacco. Invano cercò poi di imporre un presidio a Genova e Savona.

(115) Si tratta del maresciallo di Francia François Etienne Christophe Kellermann [1735-1820], che si distinse nella battaglia di Valmy del 20 settembre 1792. All'inizio del '93 assunse il comando delle due armate delle Alpi e d'Italia, riuscendo nell'ottobre di quell'anno a rioccupare la Savoia, riconquistata nel frattempo dai Piemontesi. Dopo varie vicissitudini, nel gennaio del '95 riprese il comando delle due armate ma fu soppiantato dal giovane Napoleone a cui nel 1796 il Direttorio decise di affidare la campagna d'Italia.

(116) Lettera di Spannocchi a Delfico da Milano del 4 dicembre 1792, in AST, b. 20, fasc. 294, n. 16.

(117) Alla fine di ottobre 1792  il governo francese aveva ordinato che una divisione della propria flotta si presentasse nel porto di Napoli per ottenere dal Re «una giusta riparazione» ad un incidente diplomatico provocato dal ministro napoletano Ludolf (sembra che questi avesse convinto l'impero ottomano a non accettare il nuovo ambasciatore francese a Costantinopoli perché ritenuto pericoloso per la sicurezza interna). Quando il 15 dicembre la divisione, al comando dell'ammiraglio Latouche-Tréville, giunse nel golfo di Napoli, Ferdinando IV, che nel frattempo si era affrettato a riconoscere la Repubblica francese, presentò immediate scuse. Dal capoluogo partenopeo i Francesi ripartirono il 17 dicembre, ma colpiti da una tempesta furono autorizzati a rientrare in porto per riparare i danni subiti e vi restarono fino al 30 gennaio 1793. Sull'episodio e sulle conseguenze politiche, cfr. A. SIMIONI, La spedizione dell'ammiraglio La Touche-Tréville a Napoli nel dicembre 1792, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXXVII (1912), n. 1, pp. 90-119  e n. 2, pp. 175-210; N. NICOLINI, La spedizione punitiva del Latouche-Tréville (16 dicembre 1792) ed altri saggi sulla vita politica napoletana alla fine del secolo XVIII, Le Monnier, Firenze 1939.

(118) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del natale 1792,  in BGSM, n. 132.

(119) Lettera da Napoli del 22 dicembre 1792, in AST, b. 20, fasc. 281, n. 7.

(120) Lettera del 18 febbraio 1793, da Teramo, in BGSM, n. 157.

(121) Cfr. la lettera del 12 giugno 1793, in AST, b. 20, fasc. 294, n. 17, parzialmente pubblicata da DE FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 102-103.

(122) Si tratta di Luigi Maria Pirelli [1740-1820], nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Sul periodo teramano del prelato, cfr. N. PALMA, Storia della città e diocesi di Teramo, vol. III [1833], Cassa di risparmio della provincia di Teramo, Teramo 1980, pp. 487-509. Tra le carte Delfico della Biblioteca Provinciale di Teramo si conserva una breve memoria, in parte pubblicata da CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 475-76, probabilmente del 1797-98, in cui il Nostro  dà giudizi severi e sferzanti sul Pirelli: «Il Vescovo di Teramo ha la disgrazia di aver un carattere inclinato alla maleficenza. Tutta la sua vita ne sarebbe una pruova; né si può coprire col manto dello zelo religioso, poiché com'è stato inteso a perseguitare la gente di garbo ed onesta così si è fatto un pregio di proteggere le persone spregevoli e di pessimo talento […]. Tutto il paese sa come ha perseguitato alcune persone di lettere benché fossero della più illibata condotta. […] Per mettersi al coverto di ricorsi, che si potevano fare al Sovrano contro la di lui irregolare condotta, come il lupo della favola, prese il manto dell'agnello attaccando con relazioni e con denuncie di mano aliena la religione e la fedeltà de' Cittadini, accusandoli d'irreligiosità e di massime ed azioni contrarie al governo. Le più orribili calunnie non furono risparmiate, ma la Sovrana intelligenza e giustizia non ne restarono ingannati». E conclude: «Da tutto ciò si rileva che il Vescovo di Teramo è un vero spirito malefico, e che il piacere di maleficare e dominare a torto o a dritto fanno il suo gusto ed il suo carattere deciso» (BPT, Ined., n. 411).

(123) Consegnatasi agli Inglesi il 28 agosto 1793, Tolone verrà liberata da Napoleone Bonaparte entro la fine dello stesso anno. Delfico teme per i suoi concittadini poiché il Regno di Napoli, facendo parte dal luglio 1793 della coalizione antifrancese, aveva inviato, in aiuto degli Inglesi, navi e truppe per la sua occupazione.

(124) In RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp. 415-16. Da Napoli, il 7 dicembre 1793, il consigliere Codronchi comunica a Delfico l'esistenza di una nuova denuncia anonima nei suoi confronti affinché «possa produrre i suoi discarichi e dileguare qualunque dubbio potesse insorgere lesivo della Sua opinione» (in CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 452). Nella Relazione risponsiva alle accuse del 18 dicembre 1793 il Teramano non nasconde il suo «rammarico ed una specie di umiliazione» a dover difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore, pur essendo stato sempre «un buon servitor del Re ed un onesto e meritevole cittadino» (ivi, p. 86). La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riesce tuttavia ad impedire che Delfico succeda al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo.

(125) Lettera a Fortis del 19 novembre 1793, da Teramo, in BGSM, n. 152.

(126) Lo scritto fu pubblicato a Milano nel 1793 senza l'indicazione del luogo e della data e con il nome arcadico dell'autore Glice Ceresiano. Sempre nello stesso anno l'opera ebbe un'edizione torinese (ancora con il nome di Glice Ceresiano) ed una napoletana nella quale comparve per la prima volta il nome di Francesco Soave.

(127) Cfr. la lettera di Soave a Delfico del 19 febbraio 1794, in Opere complete, cit., vol. IV, p. 204.

(128) Cfr. F. SOAVE, Vera idea della rivoluzione di Francia, presso Luigi Coltellini, Napoli 1793, pp. 17, 35, 41, 49, 59 e 195.

(129) Lettera di Melchiorre al fratello Giamberardino del 12 aprile 1794, da Napoli, in AST, b. 24, fasc. 453c, n. 11.

(130) Per una ricostruzione di quegli avvenimenti si veda lo studio di A. SIMIONI, La congiura giacobina del 1794 a Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXXIX (1914), fasc. II, pp. 299-366; fasc. III, pp. 495-535 e fasc. IV, pp. 788-808. Sul programma politico dei congiurati, cfr. M. BATTAGLINI, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 18-39.

(131) Cfr. CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cit., pp. 37-38.

(132) Cfr. PEDÌO, La congiura giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, cit., il quale attraverso la pubblicazione dell'inedito «Fatto fiscale», contenente l'accusa a carico dei congiurati del '94, dimostra, contro la tesi del Cuoco, del Colletta, del Rodinò e di altri, l'esistenza a Napoli, in quegli anni, di un «vasto movimento rivoluzionario» che dalla capitale si estendeva alle province.

(133) Troiano Odazi [1741-94], nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. BELTRANI, Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-67.

(134) «Fra le occupazioni, le noje, i dispiaceri, e il mal di capo non ti dee far meraviglia - confessa a Fortis - che io non mi sono rivolto a cercar della letteratura del paese. L'Analisi ragionata ed insensata è il solo giornale che io conosco e non leggo» (lettera del 23 settembre 1794, da Napoli, in BGSM, n. 163. Il corsivo è nostro). Come è stato in precedenza ricordato, l'«Analisi ragionata de' libri nuovi» aveva interrotto la pubblicazione nel 1793. Difficile quindi stabilire se Delfico si riferisse al «Giornale letterario di Napoli per servire di continuazione all'Analisi ragionata» o alle «Effemeridi enciclopediche per servire di continuazione all'Analisi ragionata», che costituirono entrambi, al di là delle differenze, la prosecuzione della precedente rivista. Non è da escludere neppure che egli alludesse a tutti e due i periodici, dal momento che avevano assunto nel corso del '94 una linea chiaramente reazionaria, in difesa dell'oltranzismo cattolico  svolgendo, soprattutto le «Effemeridi», un'aperta propaganda controrivoluzionaria, il che spiegherebbe perché il Teramano avesse definito «insensata» la rivista. Cfr., in proposito, RAO, Napoli e la Rivoluzione, cit., pp. 474-76.

(135) Lettera da Napoli al fratello Giamberardino del 2 agosto 1794, in BPT, Misc.4, n. 934.

(136) Ibid.

(137) Si tratta della richiesta del titolo di conte di Giulianova e della concessione di «alcuni beni di poco profitto» per l'erario, come ricompensa dei «dispendj sofferti» e dei «servigj» resi gratuitamente alla Corona. Cfr. il Carteggio per ottenere il titolo di Conte di Giulia e benefondi annessi, del 1794, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 492-502.

(138) Cfr. C. PETRACCONE, Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXI (1982), p. 208 sgg.

(139) Nel 1794  una nuova denuncia anonima è all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. «Molto più mi duole - scrive amareggiato ad Acton il 19 luglio 1794 - di essere stato e prima e nuovamente in questa occasione attaccato nel Supremo Consiglio dal dente dell'invidia, da un calunnioso ed anonimo delatore. […] Se l'aver passata la mia vita in travagliare per la gloria del Sovrano e per la pubblica beneficenza non basta per assicurarmi da una ostinata ed efficace persecuzione, non mi rimarrebbe altro che condannar me stesso alla volontaria pena dell'ostracismo» (Carteggio per ottenere il titolo di Conte di Giulia e benefondi annessi, cit., p. 500). Egli non otterrà il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat gli conferirà quello di barone (AST, b. 19, fasc. 231).

(140) Lettera a Giamberardino da Napoli del 13 settembre 1794, in BPT, Ep., n. 283.

(141) Lettera a Fortis del 23 settembre '94, cit.

(142) Lettera a Fortis da Napoli del 14 ottobre 1794, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 464.

(143) Lettera a Fortis da Teramo del 4 novembre 1794, in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., p. 417.

(144) «Nello stato attuale delle cose, - scrive Delfico a Fortis - in cui si fanno nascere sospetti senz'alcun principio governativo, crederei che ora dovessi sospendere il pensiero di quel viaggio che mi accennavi. La nazione è piena di malvagi gratuiti e spontanei, e naturali e costanti nemici del merito e della virtù. […] E' contro cuore che io ti fo queste riflessioni, ma par che avrebbe torto chi lasciasse un mare tranquillo per andare fra le tempeste» (lettera del 9 marzo 1795, da Teramo, in BGSM, n. 150). Ma subito si pentirà di «quegl'insoliti pensieri» dettati da «un momento di malumore» e pregherà l'amico di raggiungerlo senza alcun indugio. Cfr. la lettera del 28 aprile 1795, in BGSM, n. 177.

(145) Lettera da Teramo del 28 ottobre 1794, in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., p. 416.

(146) Delfico aveva temuto che potesse essere «repubblichizzato il Piemonte» sin dall'agosto del 1794 quando aveva sentito delle «nuove veramente desolanti», che i Francesi «avevano già introdotto [in Italia] un esercito di sopra a centomila uomini, e che stavano bombardando Cuneo, ed avevano di più presi quattro posti avanzati innanzi a Turino, dove il Re e tutta la famiglia reale erano intanto obbligati a rimanere per non mettere in bisbiglio il popolo; […] che il Re di Sardegna aveva chiesto pace per sé e per l'Italia, e che aveva avute risposte negative. Vedete, dunque, che se queste notizie sono vere, l'agitazione non dev'essere piccola» (lettera da Napoli al fratello Giamberardino del 2 agosto 1794, cit.). In effetti, il piano d'invasione francese del Piemonte, attraverso Cuneo, era pronto dalla fine di giugno e avrebbe dovuto attuarsi ai primi di agosto, ma già in luglio l'armata d'Italia ne sollecitò l'esecuzione, facendo scendere la divisione Macquard sin nelle vicinanze di Cuneo.

(147) Lettera a Fortis del 14 ottobre 1794, cit., p. 464.

(148) Cfr. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, cit., p. 24.

(149) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 9 marzo 1795, cit.

(150) Massima accortezza Delfico aveva usato nella stesura della lettera al duca di Cantalupo sulla vendita dei feudi devoluti del 1° aprile 1795, cit., tanto che nessun timore egli mostrò nel vederla pubblicata, senza la sua autorizzazione, sul «Giornale letterario di Napoli», (15 aprile '95, pp. 77-104), per iniziativa dello stesso Cantalupo (cfr. la lettera a Fortis del 28 aprile 1795, cit.). La lettera venne accolta con favore sulle «Effemeridi enciclopediche», nel numero di aprile del 1795, pp. 91-93.

(151) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 5 maggio 1795, in BGSM., n. 166.

(152) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 28 aprile 1795, cit.

(153) Sulle tappe di questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. DE FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46.

(154) «Nello stato attuale delle cose - scriveva l'abate veneto agli inizi del '96 - in Toscana solamente e fra noi rimane la libertà di pensare e parlare d'un povero Italiano» (lettera  a  Delfico del 23 marzo, da Vicenza, in SMITRAN, Dalla corrispondenza di Alberto Fortis a Melchiorre Delfico, cit., p. 130).

(155) Luigi Angiolini [1750-1821] di Seravezza (Lucca), esperto di problemi di finanza, industria e commercio, tra il 1787 e il 1789 compì un viaggio in Europa che raccontò nelle Lettere sopra l'Inghilterra, la Scozia e l'Olanda del 1790, nelle quali manifestava ammirazione per il sistema politico e sociale inglese. Ottenuto nello stesso anno un impiego negli affari esteri di Toscana, nel 1794 fu nominato da Ferdinando III incaricato di affari a Roma e nel febbraio 1798 inviato quale ministro del Granducato a Parigi. Nonostante le offerte di Napoleone, rimase legato al suo Sovrano quando questi fu cacciato dalla Toscana e continuò a rappresentarlo in forma ufficiosa presso il governo francese, rientrando definitivamente in Italia nel 1809.

(156) La lettera, datata 1°  dicembre 1795, fa parte del blocco della corrispondenza inviata al Cav. Luigi Angiolini e conservata presso la BMRM, Busta I, plico II, n. 32885.

(157) Si tratta del nobile fiorentino Neri Corsini [1771-1845], destinato sin da giovane alla carriera diplomatica. Divenuto nel 1793 segretario onorario del Consiglio di Stato del Granducato di Toscana, fu successivamente incaricato da Ferdinando III di ristabilire relazioni amichevoli con la Francia, deterioratesi in seguito all'alleanza della Toscana con l'Inghilterra. I negoziati furono conclusi dal conte senese Francesco Saverio Carletti [1740-1803] che fu poi improvvisamente espulso dalla Francia [29 dicembre 1795] e sostituito dal Granduca co Corsini il 5 gennaio del '96. Rimasto a Parigi fino alla primavera del '98, questi si prodigò invano per impedire l'intervento delle armate repubblicane in Toscana, che fu occupata nel marzo 1799. Rifiutatosi di collaborare con i Francesi, riparò in Sicilia, ma dopo l'annessione del Granducato alla Francia fece parte nel 1809 del Consiglio di Stato a Parigi per poi, caduto Napoleone, ritornare a Firenze come direttore della Segreteria degli Interni e quindi partecipare quale ministro plenipotenziario al Congresso di Vienna. Così Delfico scriveva ad Angiolini dell'improvvisa missione di Corsini in Francia: «Avete già saputo le nuove del brusco congedo dato a Carletti dal Direttorio esecutivo e della destinazione e partenza del nostro Sig. D. Neri. Se non vi è più di quel che communemente si dice, pare che il Direttorio sia stato esecutivo al quanto da accostarsi al Dispotico. Non ho potuto riveder l'amico prima della partenza e non posso dirvi quanto sono stato contento di lui nelle poche volte che ci siamo veduti» (lettera da Firenze del 26 dicembre 1795, in BMRM, cit.). Sulla stima che il Nostro nutriva per Corsini cfr. la lettera a Fortis del 20 dicembre [1796], cit.

(158) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini da Firenze dell'8 dicembre 1795, in BMRM, cit.

(159) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini  del 26 dicembre 1795, cit.

(160) Giovanni Fantoni [1755-1807], poeta e studioso di classici latini, soprattutto di Orazio, nel 1776 entrò in Arcadia col nome di Labindo. Negli anni successivi alla rivoluzione francese aderì al giacobinismo, svolgendo nel triennio rivoluzionario un'intensa attività politica, per la quale fu nel 1799 arrestato e costretto all'esilio a Grenoble.  Fantoni conobbe e si legò a Delfico durante il suo soggiorno a Napoli nel 1785-88, dividendo con lui numerose amicizie tra cui quelle con Filangieri, Micali e Fortis. Cfr. G. FANTONI (LABINDO), Epistolario (1760-1807), a cura di P. Melo, Bulzoni, Roma 1992, pp. 184-86, 513-14, 520-23, 663. Sul giacobinismo del Lunigiano si veda, da ultimo, A. ANDREATTA, La virtù al potere. Aspetti del pensiero politico di Fantoni, in «Trimestre», a. XXII (1989), n. 2-4, pp. 59-94; L. ROSSI, Un giacobino ormai in azione: Giovanni Fantoni, in Mazzini e la Rivoluzione napoletana del 1799. Ricerche sull'Italia giacobina, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1995, pp. 41-88, il quale pubblica diciassette lettere di Bartolomeo Boccardi a Fantoni [dicembre 1793-febbraio 1796], molte delle quali da Parigi.

(161) Lettera da Livorno del lunedì di Pasqua del 1796, in AST, b. 24, fasc. 453c, n. 17.

(162) Ibid. Come è noto i Francesi occuparono Livorno il 27 giugno 1796 col pretesto di cacciare gli emigrati francesi qui rifugiati, ma in realtà per danneggiare il commercio britannico nel Tirreno. A Livorno le armate repubblicane restarono fino al maggio del '97.

(163) Il 28 aprile 1796 l'armistizio di Cherasco segnò la resa dei Piemontesi ai Francesi, i quali si diressero nei giorni successivi in Lombardia, giungendo a Piacenza e quindi, dopo aver battuto a Lodi gli Austriaci, a Milano dove Napoleone Bonaparte fece il suo ingresso trionfale il 15 maggio.

(164) Lettera del 16 maggio 1796, in BMRM, cit.

(165) Cfr. la lettera di Acton a Delfico del 4 giugno 1796, in BPT, Misc. 6, n. 1060, in risposta alla missiva del Nostro del 27 maggio '96.

(166) Lettera di Delfico ad Angiolini, da Ascoli per Teramo, del 5 giugno 1796, in BMRM, cit. Le stesse considerazioni si trovano nella lettera a Fortis, sempre dello stesso giorno, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 472.

(167) «Chi sa quanti belli quadri e statue costerà a Roma la pace!» si chiede con ironia Delfico alla vigilia dell'occupazione napoleonica delle legazioni pontificie (cfr. la lettera ad Angiolini del 5 giugno '96, cit.).

(168) Lettera di Delfico ad Angiolini del 28 giugno 1796 da Teramo, in BMRM, cit.

(169) Lettera di Delfico a Fortis del 26 luglio 1796, in BGSM, n. 169. Come è noto, alla fine di luglio 1796 Napoleone Bonaparte, in previsione dell'offensiva austriaca del Trentino, concentrò le sue divisioni lungo una linea che dalle valli bresciane andava sino al basso Adige. Iniziava così la seconda fase della campagna d'Italia che si protrasse fino al febbraio successivo e che registrò importanti vittorie del generale francese a Castiglione (30 luglio - 5 agosto) a Bassano (2-8 settembre) ad Arcole (14-17 novembre) e a Rivoli (13-16 gennaio 1797), cui seguì infine la resa di Mantova con la quale i Francesi si assicurarono il dominio dell'Italia settentrionale.

(170) Marzio Mastrilli duca di Gallo [1753-1833], diplomatico e uomo di Stato napoletano, fu ministro a Torino [1782] e a Vienna [1786]. Nel 1796 rappresentò Ferdinando IV nelle trattative di pace con la Francia e per conto degli Austriaci stipulò con Napoleone Bonaparte i preliminari di Leoben [18 aprile 1797] e sottoscrisse la pace di Campoformio [17 ottobre 1797]. Caduti i Borboni, collaborò con i Francesi, divenendo ministro degli Esteri prima con Giuseppe Bonaparte [giugno 1806] poi, dal 1808, con Gioacchino Murat, che lo fece duca.

(171) Lettera di Delfico a Fortis del 2 agosto 1796, in BGSM, n. 76, parzialmente pubblicata da CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p 472.

(172) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 20 dicembre [1796], cit.

(173) Si tratta del celebre Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain scritto dall'illuminista francese negli ultimi mesi della sua vita [1794] in cui afferma che «le perfectionnement de l'espèce humaine doit être regardé comme susceptible d'un progrès indéfini» (in Oeuvres de Condorcet, Firmin Didot Frères, Paris 1847, tome sixième, p. 273). Per l'influsso di Condorcet sull'illuminista abruzzese si veda CAPONE BRAGA, La filosofia francese e italiana del Settecento, cit., vol. II, pp. 186-87 e pp. 195-99. Sul concetto di perfettibilità, cfr. F. RIGOTTI, Nascita ed evoluzione di un'idea e di una parola: «perfectibilité» nel settecento francese, in «Trimestre», a. X (1977), n. 1-2, pp. 23-43.

(174) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 20 dicembre [1796], cit.

(175) Cfr. la lettera di Fortis a Giuseppe Toaldo del 20 marzo 1797 da Parigi, in Illuministi italiani, t. VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli 1965,  pp. 389-90.

(176) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., p. 419.

(177) André-François Miot [1762-1841], uomo di Stato ed erudito francese, iniziò la carriera politica nel Ministero della Guerra. Divenuto nel 1793 segretario generale degli Affari Esteri, nel 1795 fu inviato come ministro plenipotenziario in Toscana per concludere la pace con il Granduca e nel '96 partecipò alle trattative di pace tra la Repubblica francese, il Regno di Napoli e lo Stato pontificio. Ritornato a Parigi nel 1798 fu nominato segretario generale del Ministero della Guerra e dopo il 18 brumaio fece parte del Consiglio di Stato. Seguì Giuseppe Bonaparte a Napoli nel 1806 come ministro dell'Interno e poi in Spagna nel 1808. Nominato conte di Melito nel 1814, si ritirò l'anno successivo a vita privata.

(178)  J. RAMBAUD, Naples sous Joseph Bonaparte 1806-1808, Plon-Nourrit et Cie, Paris 1911, p. 236.

(179) Giuseppe Toaldo [1719-97], matematico e astronomo padovano, amico di Fortis, curò la ristampa delle opere di Galilei. Viaggiò molto e fu autore di numerose opere, alcune delle quali tradotte in diverse lingue, e di altrettante memorie scientifiche pubblicate su riviste straniere e italiane, in particolare sul «Giornale astro-meteorologico» di cui si fece promotore nel 1773. Delfico conobbe Toaldo nel 1786 in occasione di un viaggio che questi fece nel Regno di Napoli. Tra i due nacque subito un rapporto di amicizia che si consolidò nell'estate del 1789 durante il soggiorno del Teramano nel Veneto.

(180) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797, cit.

(181) Ludovico Vittorio Savioli Fontana Castelli [1729-1804], poeta e storico bolognese, fu dal 1772 al 1796 gonfaloniere di giustizia. Tra l'84 e il '95 compose gli Annali bolognesi dall'anno di Roma 363 al 1274 che gli valsero nel 1790 la cattedra di «Storia universale profana» presso l'università bolognese. Nel 1796 fu mandato in missione diplomatica a Parigi e nel 1800 partecipò alla consulta della Repubblica Cisalpina.

(182) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 4 aprile 1797 da Teramo, in BGSM, n. 173.

(183) Si veda la lettera del 9 gennaio 1797, cit.

(184) Ibid. Gli scriveva, in seguito, nella citata lettera del 4 aprile '97: «In quanto alle disposizioni itinerarie ne conservo sempre il desiderio il più vivo; ma per maggio devo essere a Napoli per affari di famiglia. Non conto di restarvi più di un mese o due; ma questo guasta molto i miei calcoli economici. Ci sentiremo meglio, se sarai in Italia».

(185) Lettera  a Fortis  datata Teramo, 7 marzo 1797, in BGSM, n. 172.

(186) Lettera del 4 aprile, cit. Uguale stupore aveva espresso nella lettera sempre a Fortis del 7 marzo '97,  cit.

(187) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.

(188) Lettera di Delfico ad Angiolini del 12 settembre 1797 da Teramo, in BMRM, cit.

(189) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 7 marzo 1797, cit.

(190) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini del 15 agosto 1797, in BMRM, cit.

(191) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini del 12 settembre 1797, cit. e quelle a Fortis del 3 e 5 maggio 1798, in F. BALSIMELLI, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935, p. 13 e soprattutto quella del 20 luglio 1798, in BGSM, n. 178.

(192) L'espressione è usata da Giacinto Tullj nella Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 all'anno 1815, scritta da G. Tullj, con postille e con la continuazione del Can. N. Palma (in BPT, «Carte Palma», t. XI, n. CLXXVII), per indicare il partito capeggiato dal vescovo Pirelli avverso ai Delfico e ad altri «dotti e probi uomini» di Teramo, e responsabile delle accuse di giacobinismo che porteranno la famiglia Delfico agli arresti.

(193) Lettera del 20 luglio 1798, cit.

(194) Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da Giamberardino «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni». Avvenuta la restaurazione borbonica, egli fu infatti condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia. Ritornato in libertà in seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801 (cfr. AST, «Reali Dispacci», b. 24, vol. 84, pp. 452-53) ottenne il dissequestro dei beni l'11 luglio dello stesso anno (cfr. AST, «Fondo Delfico», b. 27, fasc. 597). Con ogni probabilità quindi la Memoria è collocabile tra il maggio e il luglio del 1801. Recentemente essa è stata pubblicata da Vincenzo Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-85 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p. 375 sgg.

(195) Sulla venuta dei Francesi a Teramo fondamentale è l'opera di L. COPPA-ZUCCARI, L'invasione francese negli Abruzzi (1798-1810), voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, rispettivamente pp. 729-35; 740-42 e pp. 624-36; 680-89; 709-18; vol. III, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939, pp. 52-74. Cfr., inoltre, V. MOSCARDI, L'invasione francese nell'Abruzzo teramano nel 1798-99, in «Bollettino della Società di storia patria», L'Aquila, a. XII (1900), pp. 125-49.

(196) Nominato dal generale Duhesme presidente dell'Amministrazione Centrale del Basso Abruzzo, è il 12 gennaio 1799 chiamato dal generale Coutard a presiedere il Consiglio Supremo che ha sede a Pescara. Il 23 gennaio, il comandante in capo Championnet, occupata Napoli, lo nomina membro del Governo Provvisorio della Repubblica partenopea assegnandolo al Comitato delle Finanze (ma nella capitale non si recherà mai) e il 14 aprile è scelto a far parte, assieme a Giuseppe Abbamonte, Giuseppe Albanese, Ignazio Ciaja ed Ercole D'Agnese, della Commissione Esecutiva istituita dal commissario del governo francese Abrial. Cfr. E. DE FONSECA PIMENTEL, Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, p. XXXI sgg. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. F. MASCIANGIOLI, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 41-69; M. BATTAGLINI, Abruzzo 1798-1799. Una Repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 3-18, ora, con alcune integrazioni, in La Repubblica napoletana, cit., pp. 171-98.

(197) Cfr. DI NARDO, Storia e scienza in Melchiorre Delfico, cit., p. 84; PETRACCONE, Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799, cit., p. 203; MASCIANGIOLI, Melchiorre Delfico e Pescara, cit., pp. 54-55.

(198) A. SAITTA, Giacobini italiani, in «Cultura moderna», n. 26, giugno 1956, p. 6. Cfr. inoltre D. CANTIMORI [a cura di], Giacobini italiani, vol. I, Laterza, Bari 1956, p. 412. Sull'argomento cfr. da ultimo Il giacobinismo italiano nella storiografia, saggio introduttivo di Francesco Perfetti al volume di R. DE FELICE, Il triennio giacobino in Italia (1796-1799), Bonacci, Roma 1990, pp. 7-56. Spunti critici anche in Il mondo contemporaneo, vol. XI: Il modello politico giacobino e le rivoluzioni, a cura di N. Tranfaglia e M.L. Salvadori, La Nuova Italia, Firenze 1984, in particolare i saggi di Stefano Nutini, Claudia Petraccone e Salvo Mastellone.

(199) Cfr. G. GALASSO, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., p. 519  sgg.

(200) Per il testo della legge, il cui titolo per esteso è Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei tribunali dei dipartimenti e giudici dei cantoni del 24 piovoso anno VII [12 febbraio 1799], si veda R. PERSIANI, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-39. Sulle innovazioni che il Piano di giustizia introduce nel sistema giuridico, cfr. MASCIANGIOLI, Melchiorre Delfico e Pescara, cit., pp. 49-52; BATTAGLINI, La Repubblica napoletana, cit., pp. 192-95.

(201) Sull'attività amministrativa e legislativa del Consiglio Supremo di Pescara, cfr. G.F. DE TIBERIIS, Processo ai giacobini di Chieti (1799-1800), in «Rassegna storica del risorgimento», a. LXXIV (1987), fasc. I, pp. 38-42; M. BATTAGLINI, La Repubblica napoletana, cit., pp. 189-91.

(202) A questa conclusione giunge anche il Diaz a proposito dei giacobini italiani, le cui rivendicazioni spesso non si discosterebbero da quelle dei riformisti illuminati. Cfr. DIAZ, Per una storia illuministica, cit., p. 477 sgg.

(203) DELFICO, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, cit., p. 169.

(204) F. VENTURI, La circolazione delle idee, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. XLI (1954), fasc. II-III, p. 207.

(205) Inattendibile è la tesi sostenuta nella Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799 di una scelta obbligata del Teramano, che sarebbe venuto a trovarsi «nella dura necessità di ubbidire per non mettere in pericolo e vita, e sostanze, ed anche l'intera Città di lui Padria» (ivi, p. 45), non solo perché la Memoria, contrariamente a quanto si è creduto, non è autografa di Melchiorre Delfico, tanto da non essere menzionata da De Filippis-Delfico fra le opere del Nostro, ma soprattutto perché lo scritto, come è stato ricordato, ha una funzione puramente strumentale. Sull'impegno profuso da Delfico durante l'esperienza repubblicana cfr. la lettera che  invia a Fortis da Teramo il 30 germinale a. I della Repubblica napoletana [19 aprile 1799], in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 112-13.

(206) Cfr. A. RICCIARDI, Memoria sugli avvenimenti di Napoli nell'anno 1799, scritta presumibilmente agli inizi del 1800 e pubblicata da Benedetto Maresca in «Archivio storico per le province napoletane», a. XIII (1888), p. 60 sgg.

(207) Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. [27 marzo 1799], in Il Monitore Napoletano 1799, cit., pp. 695-96. Sulle insorgenze antifrancesi nelle province, cfr. T. PEDÌO, La Repubblica napoletana del 1799, Levante, Bari 1986, pp. 43-62. Per una diversa valutazione dell'atteggiamento di Delfico durante l'invasione francese, cfr. L. POLACCHI, Da Melchiorre Delfico a Clemente De Caesaris. Storia politica e letteraria del Risorgimento in Abruzzo sulla base della fortezza di Pescara 1798-1860, Tip. Stea, Urbino 1960, p. 44; G. INCARNATO, Le «illusioni del progresso» nella società Napoletana di fine Settecento, vol. II, Tra rigori modernizzatori e aspettative di assistenza, Loffredo, Napoli 1993, pp. 196-97.

(208) Cfr. fra tanti G. GALASSO, La legge feudale napoletana del 1799, in «Rivista storica italiana», a.  LXXVI (1964), fasc. II, pp. 507-29, ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., pp. 633-60. Sulla fiducia che il triennio giacobino potesse generare un momento di grande partecipazione politica, cfr. E. PII, La ricerca di un modello politico durante il triennio rivoluzionario (1796-99), in Modelli nella storia del pensiero politico, vol. II, cit., p. 279 sgg.

(209) L'ipotesi di una partecipazione  al concorso origina dalla biografia di De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» uno scritto dal titolo Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, Opuscolo pp. 26. In un articolo del 1931 dal titolo Il ceto dei Patrioti e l'idea italiana dal 14 maggio 1796 al 12 giugno del 1797, in seguito raccolto nel volume L'idea nazionale italiana dal secolo XVIII all'unificazione, Tipografica Modenese, Modena 1941, p. 61, Renato Soriga segnala l'esistenza di una dissertazione delficina, redatta in occasione del celebre concorso e rimasta sconosciuta. L'indicazione di Soriga ha in seguito attirato l'attenzione di Armando Saitta che dopo accurate ricerche, pur lasciando aperto il campo a diverse ipotesi, ha manifestato qualche dubbio sulla effettiva partecipazione del Teramano al concorso del 1796 (cfr. Alle origini del Risorgimento: i testi di un «celebre» concorso (1796), vol. I, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1964, pp. XXIII-XXVI). Il dubbio sulla partecipazione al concorso mi sembra possa essere sciolto in senso negativo. Non solo perché, come ha notato Saitta, il titolo della dissertazione non è di Delfico, ma del nipote De Filippis, che aveva trovato l'opuscolo privo di intestazione; ma anche perché si tratta di uno scritto non terminato, di cui per altro non vi è finora alcuna traccia nell'opera delficina. Né va esclusa infine l'ipotesi che l'Autore avrebbe potuto iniziare a redigerlo in diverse altre circostanze storiche: durante, ad esempio, la permanenza a San Marino, dove vede «adombrato un tipo dei veramente umani governi» (Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250); o nel corso del decennio francese [1806-1815] quando tornerà a Napoli al fianco di Giuseppe Bonaparte prima e di Gioacchino Murat dopo, e gli sembrerà che la capitale finalmente «incominci a risorgere» (lettera a Münter del 16 febbraio 1810, in DI NARDO, Storia e scienza in Melchiorre Delfico, cit., p. 149); o in occasione dei moti del 1820 quando l'8 luglio re Ferdinando I gli affiderà l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola di Cadice del 1812.

(210) Cfr. GHISALBERTI, Le costituzioni «giacobine», cit.,  pp. 209-15.

(211) Rimasto finora inedito, il testo, conservato presso l'AST («Fondo Delfico», b. 15, fasc. 171, nn. 92 e 93) recita:

               

          Tavola dei Dritti dell'uomo e del Cittadino

Gli uomini sono eguali ne' dritti.

Questi dritti inalienabili sono: la libertà,

   la sicurezza, la proprietà, e la resistenza all' oppressione.

La libertà è il diritto di dire, di fare, di scrivere

   ciocché si vuole senza nuocere altrui o allo Stato, o a se stesso.

La sicurezza è il dritto di esser protetto

    dalla Forza pubblica contro de' malfattori convinti in giudizio.

La proprietà consiste a poter disporre delle

   sue facoltà, quando non si è mentecatto o minore.

La resistenza all'oppressione è il diritto di armarsi

   contro la violenza manifesta e la coazione illegale o tirannica.

La Nazione sola è Sovrana: ogni pubblico potere

   è delegato da essa, e per essa dev' essere impiegato.

Ogni depositario d'un potere pubblico è risponsabile verso la Nazione,

   ma dev'esser solo giudicato dal Tribunale a tal fine stabilito.

La Nazione sola o i suoi rappresentanti liberamente eletti

   possono far le leggi e stabilire le imposizioni.

La legge è l'espressione unica della volontà generale, e la regola suprema

   di tutti i poteri particolari. Non si può né eliggere né essere eletto;

   non si può né giudicare, né esser giudicato;

   non si dee ubbidire o dissubbidire che in virtù della legge.   

                Tolti questi dritti un popolo è schiavo.

 

Tavola dei Doveri dell'uomo e del Cittadino

Gli uomini sono legati da reciproci doveri.

Questi doveri inviolabili sono: la subordinazione, la benevolenza,

   la giustizia, e l'ubbidienza alle leggi.

La Subordinazione è il rispetto e la docilità dovuta dai figli ai genitori,  

   dai discepoli ai maestri, dagl'inferiori ai loro capi.

La Benevolenza consiste nei riguardi, nelle attenzioni, nei soccorsi,

   che ci dobbiamo reciprocamente in tutte le situazioni penose della vita.

La Giustizia ci obbliga ad osservar le promesse, a rispettar le proprietà,

   ad esser riconoscenti dei servigi ricevuti, e pronti a renderli

   nelle occasioni.

L'ubbidienza alle leggi include l'osservanza di regolamenti, la fedeltà ai

   Magistrati, l'unione de' Cittadini per rispingere ogni rivolta.

L'insurrezione non è permessa che nei casi estremi, e dopo

   le rimostranze legali.

Ogni perturbatore dell'ordine pubblico merita non solo di essere arrestato

   e punito, ma anche di essere esecrato.

La Nazione sola o i suoi rappresentanti liberamente eletti,

   possono cangiare l'ordine stabilito o il governo.

La legge  fatta dal corpo legislativo e sanzionata dal Monarca è una specie

   di religione civile, che deve unire tutti i cuori e tutte le braccia:

   ed il nome solo della legge deve stare in luogo di fucili e bajonette.

                Tolti questi doveri un popolo è selvaggio.

 

(212) Fu, quello successivo alla partenza, un periodo particolarmente tormentato per il Nostro se ancora nei mesi di giugno e di luglio Fortis si mostrava preoccupato per la sorte dell'amico non avendo ricevuto più alcuna lettera dopo quella del 19 aprile. Cfr. le lettere di Fortis a Delfico del 3 giugno, del 15 e del 18 luglio 1799, in BGSM. Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. BALSIMELLI, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, cit.; GAROSCI, San Marino, cit., pp. 165-226.

(213) Cfr. F. LOMONACO, Analisi della sensibilità, delle sue leggi e delle sue diverse modificazioni considerate relativamente alla morale e alla politica [1801], in Opere, Ruggia, Lugano 1834, vol. V, p. 103 sgg. Successivamente l'Autore pubblicherà i Discorsi letterarj e filosofici, Silvestri, Milano 1809 in cui difenderà la monarchia come la migliore forma di governo, immaginando di rivolgersi ad alcuni protagonisti della Repubblica napoletana, tra i quali Galdi, Russo, Cuoco e «l'incomparabile» Delfico. Quest'ultimo verrà ricordato nel cap. III, Dello spirito d'imitazione (pp. 81-109), in cui Lomonaco si scaglierà contro le «tragicomiche scene rappresentate da giacobini» italiani per aver voluto seguire pedissequamente i Francesi nonostante questi avessero vissuto realtà ed esperienze completamente diverse dalle loro. Robespierre, scrive, «elevò insensatamente il grido: democrazia universale; e mezza Europa più insensatamente ripetè: democrazia universale. In mezzo all'eclissi dell'umana ragione chi ponderò lo stato fisico, economico, morale e politico del suo paese? […]. Tutti riputandosi solenni politici, leggevano, rileggevano e tornavano a leggere la stravaganza di Rousseau, l'homme est né libre. Nessuno studiava Aristotele il quale sentenziò, che alcuni sono fatti per comandare, altri per ubbidire […]. Nessuno aveva digerita la massima di Machiavelli, che quando uno stato è corrotto, bisogna che una mano regia tenga a freno gli scapestrati cittadini […]. L'anarchia delle idee produsse l'anarchia delle passioni, l'anarchia delle passioni quella dei costumi, più tremenda dell'anarchia delle leggi» (pp. 96-98).

(214) Cfr. G.M. ARRIGHI, Saggio storico per servire di studio alle rivoluzioni politiche e civili del Regno di Napoli, t. III, Stamp. del Corriere, Napoli 1813, pp. 211-21. I primi due tomi uscirono sempre a Napoli nel 1809.

(215) Cfr. CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cit., p. 96 sgg. I due s'incontreranno a Milano prima del loro ritorno a Napoli nel 1806, in occasione della pubblicazione delle Memorie storiche di San Marino. Per un confronto tra Delfico e Cuoco, cfr. F. TESSITORE, Da Cuoco a De Sanctis. Studi sulla filosofia napoletana nel primo Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1988, pp. 12-24; P. VIOLA, Delfico, Cuoco e la libertà antica e moderna, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie III, vol. XVIII (1988), 2, pp. 589-97.

(216) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., pp. 249-50.

(217) DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 472.

(218) Foglio di appunti inedito (BPT, Misc. 2, n. 625).

(219) DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.

(220) Ivi, p. 472.

(221) Ivi, p. 473.

(222) Ivi, p. 472.

(223) Foglio di appunti di Delfico pubblicato da SAITTA, Alle origini del Risorgimento, cit., p. XXV, la cui stesura più che al 1796 risale probabilmente al periodo sammarinese per una sua certa affinità con alcuni concetti espressi nelle Memorie storiche.

(224) DELFICO, Memoria su la perfettibilità organica, cit., p. 511.

(225) Cfr. VICO, Principj di Scienza nuova, cit., lib. IV, p. 772.

(226) DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.

(227) Cfr. le lettere che Delfico scrive dalla fine del 1800 alla primavera del 1804 a Fortis e al fratello Giamberardino, in BALSIMELLI, Epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp. 15-52.

(228) Lettera di Delfico a Giuseppe Neroni del 30 giugno 1804 da Milano, conservata presso la BCM, «Lettere a Giuseppe Neroni Cancelli», Ms. 948, n. 395. Già qualche anno prima Delfico lamentandosi del «disordine Caotico o infernale» aveva scritto a Fortis: «Lo stato delle cose è tale, che le persone ragionevoli rinunciano a tutti i desiderj Politici, ed accetterebbero anche un Governo Mussulmanico, che riconducesse la tranquillità» (lettera da San Marino dell'11 ottobre 1801, in BALSIMELLI, Epistolario di Melchiorre Delfico, cit., p. 19).

(229) DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., pp. 428 e 429.

(230) Lettera di Delfico a Neroni del 30 giugno 1804, cit.

(231) Cfr. MARINO, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., pp. 111-12.

(232) Ivi, p. 111.

(233) Ivi, p. 112.

(234) Ibid.

(235) Ivi, p. 111.

(236) Lettera di Delfico a Neroni, s.d. [ma Teramo 1835], in AST, b. 24, fasc. 464, n. 1. Pubblicata in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 126-28, e assegnata inspiegabilmente dai curatori al 24 aprile 1835, la lettera è la prima di tre in cui Delfico discorre degli «Stabilimenti di Beneficenza». In un biglietto di accompagnamento, datato Teramo 4 [senza l'indicazione del mese] del 1835, il Nostro chiedeva a Neroni di trascrivere le lettere e farne avere una copia all'amico maceratese conte Leopoldo Armaroli. Cfr. BCM, cit., n. 32.