De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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L'inutilità della storia

di Gabriele Carletti

Capitolo III° di "Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale", Pisa, Edizioni ETS, 1996

 

Prima ancora che la Repubblica napoletana cada sotto i colpi delle bande sanfediste, ma quando già il suo futuro è irrimediabilmente compromesso, Melchiorre Delfico, come molti altri che avevano partecipato o aderito al regime repubblicano, sceglie la via dell'esilio (aprile 1799) e ripara, come abbiamo visto, a San Marino, dove rimarrà fino al giugno del 1806. Dalla piccola Repubblica lo scrittore teramano uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784,  o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804 si porterà a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale di Schmidt d'Avenstein (1), rivedrà Vincenzo Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi, Francesco Saverio Salfi e, soprattutto, con Gian Giacomo Trivulzio (2), con Leopoldo Cicognara e sua moglie Massimiliana Cislago (3), donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale il nostro autore resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.

E', quello sammarinese, un periodo in cui Delfico si tiene fuori dalla vita politica attiva, pur seguendo con interesse e trepidazione le vicende nazionali ed europee, in attesa di una situazione politica più propizia per un impegno diretto, che egli vedrà determinarsi con la nomina di Giuseppe Bonaparte a re di Napoli. Una congiuntura, questa, che lo indurrà a cedere ai «seducenti cenni dell'odiata Partenope» (4) e a far ritorno a Napoli dove si ritufferà nella politica da lui sempre considerata strumento di progresso e di trasformazione sociale.

Nel frattempo, Delfico riprende gli studi e pubblica le già citate Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (5).

Prima di allora Delfico si era occupato della storia nell'Elogio di Francescantonio Grimaldi del 1784. Analizzando gli Annali del Regno dell'amico prematuramente scomparso egli aveva maturato la convinzione che «l'ottimo storico» avrebbe dovuto narrare la storia evitando di fermarsi «su i fatti isolati», per cercare invece le cause degli avvenimenti, così da «richiamarli quasi a nuova vita». All'idea di una storia intesa  come «nudo racconto di fatti», volta ad occupare il tempo «degli oziosi e degli annojati», Delfico aveva contrapposto l'idea di una storia che fosse «d'un utile presente» per il genere umano (6).

Un contenuto storico presentano le Memorie giovanili le cui denunce, rivendicazioni e proposte traggono spesso dall'analisi storica delle vicende del Regno la propria forza e giustificazione. Le stesse Ricerche sulla giurisprudenza romana hanno «valore storico» (7), poiché in esse la dura condanna del diritto romano scaturisce da una lunga ricostruzione storica della sua «torbida» e «fangosa origine» e delle  nefandezze da esso prodotte nel corso dei secoli.

Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà presente trova diretta applicazione nelle Memorie storiche di San Marino. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere «nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» per il fatto di mostrare «sempre scarsi gli annali della virtù in confronto dei voluminosi giornali del vizio e dell'orrore» (8), in realtà poi egli, attraverso una «ricerca diligente» e «vasta», scrive «una vera storia» (9). A tal fine Delfico legge Dell'origine et governo della Repubblica di San Marino (1633) di Matteo Valli, il Saggio di ragioni della città di San Leo, detta già Monteferetro (1758) del «dotto» Giambattista Marini, il De coniectandis cuiusque moribus et latitantibus animi affectibus moralis, seu de Signis (1625) del «dottissimo» Scipione Chiaramonti, nonché i Remarks on several Parts of Italy in the years 1701, 1702, 1703 (1705), A Defence of the Constitutions of Government of the United States of America (1787) e Account of the Republic of San Marino (1797) dei «celebri inglesi» Joseph Addison, John Adams e John Gillies (10). Egli indaga su come San Marino sia riuscita a conservare intatta nei secoli la sua indipendenza, a fronte di tanti sconvolgimenti di repubbliche e di imperi, ed abbia «felicemente adombrato un tipo dei veramente umani governi» (11). Ricerca, in altri termini, nella storia le ragioni del «mito» di San Marino (12), di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas (13) e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini (14), Lodovico Zuccolo (15) e lo stesso Matteo Valli. Ed era proprio il fatto di scorgervi un modello, una delle ragioni che aveva spinto Delfico a scegliere San Marino come luogo di esilio. Di fronte alla «tempestosa crisi» di fine secolo, la conoscenza dei «fatti permanenti o conservati nella storia» della piccola repubblica diventava particolarmente «interessante» perché mostrava la possibilità reale, non utopistica, di dar vita ad una forma di civile associazione «più adatta o conveniente» alla specie umana. Sotto tale aspetto dunque scriverne la storia era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (16).

Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (17) appare quanto meno strana in un pensatore solitamente collocato dalla storiografia neo-idealistica tra gli esponenti più rappresentativi dell'antistoricismo italiano (18).

E' nei Pensieri che Delfico affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza; e se l'aver trascurato queste verità, poté ritardare i felici progressi della specie» (19). E' muovendo dall'assunto dell'arretratezza degli studi storici che si forma in lui la determinazione di avviare una disamina critica di tutta la storiografia precedente.

Con la stesura dei Pensieri  Delfico si inserisce nel dibattito sulla storia che si sviluppa in Europa nella seconda metà del diciottesimo secolo, a cui prendono parte, oltre ad autori quali Fontenelle, Voltaire, D'Alembert, Rousseau, Volney, Condorcet ed altri, numerosi italiani tra cui Galeani Napione, Bettinelli, Bertola, Ortes, Bocalosi (20). Sottoposto per lungo tempo all'accusa di «antistoricismo», il quadro storiografico elaborato dall'illuminismo gode oggi di una certa rivalutazione (21). L'aspetto nuovo della concezione illuministica della storia consiste nell'aver posto come fondamento del processo storico non più il concetto di provvidenza, proprio di una visione teologica della storia, ma quello di progresso, in base al quale la storia si configura «come un processo continuo, e nel suo insieme progressivo» (22) (che non significa, però, anche lineare) verso lo stato di compiuta civiltà. Tale visione, da un lato, permette una diversa valutazione delle epoche passate a seconda del loro grado di progresso; dall'altro, segna il punto di partenza della ricerca di nuove manifestazioni dell'agire umano che consentono di individuare lo spirito di un determinato periodo storico. Il contenuto della storia si trova così modificato: le guerre, le sconfitte, le vittorie, le conquiste, i re, gli eroi, che fino ad allora avevano avuto la prevalenza nei racconti, non interessano più gli storici illuministi, che privilegiano invece gli aspetti sconosciuti della vita umana, quali gli usi, i costumi, le leggi, le istituzioni, le credenze religiose, le dottrine filosofiche, il progresso delle scienze, del commercio, delle arti, con lo scopo di cogliere i mutamenti che si verificano nel passaggio da un'epoca all'altra. La storia diviene lo studio analitico e ragionato dello sviluppo della civiltà, in grado di fornire una nuova intellegibilità del presente e del suo processo di trasformazione, sulla base delle «indicazioni di fondo» emerse nel passato (23).

Fra tutti gli ideologi della storiografia illuministica nessuno, afferma Delfico, «ha finora portato lo spirito di analisi su la istoria meglio di Volney» (24). Delle tematiche del Francese risente la stesura dei Pensieri (25). Nelle Leçons d'histoire (26) Volney traccia le linee di una vera rivoluzione nella metodologia storica. Tutta la storia (così come è stata scritta) è da biasimare, essendo stata più un'immensa raccolta di exempla vitanda che «d'expériences morales et sociales» Occorre delineare «un tableau exact du jeu réciproque de toutes les parties de chaque machine sociale, c'est-à-dire, des habitudes, des moeurs, des opinions, des lois, du régime intérieur et extérieur de chaque nation» (27). Allo storico egli richiede l'applicazione di una «méthode analytique ou philosophique», la sola che, considerando i fenomeni nel loro processo, consenta di abbracciare «un corps politique dans toutes ses parties» (28), di seguire un popolo nelle sue manifestazioni, di raccogliere i fatti  e determinarne le cause, gli effetti, la loro azione reciproca, di risalire all'origine dei progressi e delle decadenze del genere umano, e di operare uno studio fisiologico delle leggi di crescita, di arresto o di involuzione del corpo sociale. Per conoscere dunque «la constitution morale et politique d'une nation» è necessario dapprima studiarne  lo stato fisico, il clima, il suolo, i corsi d'acqua, la vegetazione, la fauna, le risorse interne, e poi il sistema politico e amministrativo, la varietà dei mestieri, la condizione dei cittadini, l'esercizio della giustizia, l'istruzione pubblica, i costumi, la vita religiosa, le leggi e la loro esecuzione. Così intesa, la storia presenta allora un'indubbia utilità poiché il quadro delle esperienze umane che essa offre fornisce le indicazioni necessarie per «perfectionner les générations à venir, en commençant par améliorer le sort de la génération présente» (29).

Quello che Delfico riprende e porta all'estrema conseguenza sono le argomentazioni addotte da Volney per sostenere i limiti della storiografia tradizionale. Per buona parte dell'opera egli si dilunga a mostrare la incertezza della storia, la sua inutilità e i danni che essa cagiona ingombrando la mente di pregiudizi, mentre nel capitolo conclusivo verifica la fondatezza delle sue affermazioni con esempi tratti dalla storia di Roma. L'«antistoricismo» di Delfico non si traduce tuttavia in un rifiuto definitivo della storia, ma solo in uno spirito di ribellione contro un certo modo di fare storia che testimonia la volontà di «rimuovere le acque stagnanti della storiografia» (30) per immetterla in un processo di modernizzazione. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica, dal momento che «non è nel modo - afferma - in cui sono state trattate insino ad ora che le storiche ricerche possono influire felicemente ai progressi delle scienze e dello spirito umano» (31). A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica (32). Persino Voltaire, «il più gran battagliere de' pregiudizj» (33), le cui opere Le siècle de Louis XIV e l'Essai sur les moeurs avevano inaugurato un nuovo modo di fare storia, sarebbe rimasto «inviluppato» nella pastoie del suo tempo (34).

I Pensieri risalgono all'origine della storia tradizionale, che viene fatta derivare, da una parte, dal bisogno fisico e dal piacere che l'uomo prova a raccontare le proprie esperienze; dall'altra, dalla curiosità di conoscere le vicende altrui (35). Questi bisogni alimentarono lo sviluppo dell'immaginazione e di storie inverosimili, piene di prodigi e di stravaganze, dirette a stimolare la fantasia degli ascoltatori.

All'età dell'immaginazione Delfico riconduce anche l'origine dei cosiddetti «favoleggiatori». Ma, a differenza di quanto fa per la storia, come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone egli tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (36), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia dell'umanità» (37). La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni in cui la morale è pervenuta, grazie alla teoria delle sensazioni, «al vero grado di scienza», dal momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (38) di quello dei secoli remoti.

Un atteggiamento polemico, invece, egli assume nei confronti delle mitologie, che sorgerebbero per ignoranza, per eccessiva credulità o per incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. E' il caso degli incantatori di serpenti e del loro preteso potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi (39) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (40). La dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica «di confutazione delle superstizioni» (41), è una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali.

Ma torniamo ai Pensieri. Se la storia tradizionale è poco attendibile perché lontana dalla verità dei fatti, non si può certo dire che essa muti considerevolmente con l'introduzione della scrittura. Poiché nessuno, infatti, pensò mai di chiarire il significato vero della storia, si ignorò per lungo tempo quale metodo «fosse da preferire». Ciascuno, pertanto, senza conoscere quali criteri fossero da privilegiare e quali circostanze da rappresentare per prime, ricorse al metodo che più si addiceva alla sua opera. Ma difettosi chi per un verso chi per un altro, quei sistemi («il genealogico, il cronologico, il drammatico, il geografico, il progressivo, il retrogrado, l'analitico, il sintetico, il generale, il particolare») contribuirono tutti a lasciare la storia in uno stato di imperfezione. Queste difficoltà probabilmente sarebbero state superate se si fosse risaliti all'etimologia della parola «storia» la quale deriva dal nome greco ϊστωρ, cioè testimone presente, in origine usato per designare esclusivamente le narrazioni dei testimoni oculari. In seguito, il termine perse la sua valenza originaria e venne fatto derivare dal verbo ίστορέω i cui diversi significati, ricercare, narrare, vedere, fecero apparire la storia soprattutto come ricerca di fatti o semplice narrazione di essi. Così l'attività storiografica, afferma Delfico facendo proprie le osservazioni di Volney, si è limitata a registrare solo le vicende più vistose, in massima parte biasimevoli, come le guerre, le conquiste, le distruzioni, gli sconvolgimenti, le imprese dei re, dei generali, degli eroi: fatti, questi, che configurano la storia come una continua e successiva ripetizione degli stessi avvenimenti sotto nomi e tempi diversi (42). Per secoli la storia non è stata scritta se non «per interesse, per gratitudine, per ammirazione, o per qualunque più strana bizzarria», determinando «un abuso pernicioso, una filiazione dannosa» (43) della medesima. Persino storici come Erodoto, Tucidide, Senofonte, osserva Delfico riprendendo una critica che era stata mossa anche da Genovesi (44), narrarono storie non-vere, in cui comparivano e dialogavano costantemente i vincitori, i re, gli eroi, i guerrieri, con il solo e unico scopo di dilettare ed eccitare gli animi. Le stesse critiche possono essere rivolte alla storia del pensiero umano (o «Storia della Filosofia») che non sarebbe riuscita a produrre nient'altro che un cumulo «di opinioni e di errori cronologicamente disposti» (45). Raramente, però, dinanzi a produzioni storiche di questo genere, ci si è chiesti se esse rispecchiassero realmente l'indole della storia o se quest'ultima potesse essere concepita in maniera diversa.

Scopo ultimo della ricerca storica è, per Delfico, «far conoscere il vero degli avvenimenti in quella integrità necessaria a soddisfare lo spirito di osservazione» (46). Perché dunque la storia possa rivelarsi utile all'uomo occorre che essa sia innanzitutto vera. La possibilità per le opere storiche di riprodurre il vero dipende, a suo avviso, dalla soluzione di due ordini di problemi. Bisogna innanzitutto distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause e ad elaborare un quadro integrale e completo delle cause generali e particolari, occasionali e permanenti, fisiche e morali, «de' felici o de' contrarj cangiamenti» delle società umane nel corso dei secoli. Il fatto storico si configura così come un evento estremamente complesso, la cui conoscenza dipende non solamente dalla individuazione dell'avvenimento in generale, ma, come aveva affermato lo stesso Montesquieu (47), dalla totalità delle cause che lo producono e delle circostanze particolari che lo completano nella sua integrità. L'opera storica, scrive Delfico, «dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per i quali si scorgesse come dai primi e più semplici siamo graduatamente giunti alle attuali positive cognizioni», di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce» (48). Non avremmo più allora la storia degli errori, ma quella delle scienze e del faticoso cammino dell'uomo verso il miglioramento sociale.

L'altro problema posto dal Teramano riguarda la definizione di un criterio a cui la metodologia storica deve rigorosamente rifarsi. Perché l'analisi storica possa realmente sperare in una riproduzione veritiera degli avvenimenti occorre che essa sia in grado di mostrare con certezza la verità stessa dei fatti oggetto d'indagine.

 

Ma come si può sapere un avvenimento da chi non ne fu spettatore? o per averne sentito un rapporto o racconto di chi vi fu testimone, o per seconda mano da chi ne ascoltò il racconto. Questo costituisce positivamente la storia. (…) Due condizioni par che siano primamente necessarie a dar la base alla storica verità ed alla moral certezza che ne deve risultare. La prima: che il fatto non sia da opposizione reale colle leggi le più confermate dal mondo fisico e morale. La seconda: che i testimoni degli avvenimenti abbino voluto, potuto e saputo dire la verità. Questi canoni critici sviluppati su tutte le loro applicazioni sono i perni su i quali lo spirito umano può giudicare dei gradi della verità, o sia della certezza o probabilità storica che vogliam dire (49).

 

L'affermazione del criterio verità-certezza (certamente di ascendenza vichiana (50)) trova in Delfico un ulteriore rafforzamento nell'estensione a tale principio della concezione sensistica. Egli intende la certezza essenzialmente come «certezza fisica», proveniente dalle sensazioni e dalle successive elaborazioni dello spirito.

 

Invece di cercare le cagioni de' fenomeni fisici e morali si vollero indovinare, ed invece di prendere per guida l'analisi, le esperienze, e le osservazioni si produssero delle ipotesi, e da essi i sistemi, e si dettarono le leggi della Natura, esistenti solo nel cranio degli inventori  (51).

 

Al di fuori del riscontro sensoriale non vi è più certezza, ma solo probabilità, la cui base è  nella possibilità del fatto e nei motivi di credenza per chi racconta (52).

Da questa premessa Delfico parte per mostrare in quale grave errore siano caduti quanti hanno esaltato la certezza dei fatti storici. Contro costoro porta a sostegno esempi del mondo greco e di quello romano, dai quali si evince come la veridicità sia stato un problema estraneo agli storici o per lo meno da essi troppo spesso trascurato, vuoi perché ritenevano bastevole limitarsi alla tradizione orale e alle memorie, vuoi perché incapaci di liberarsi delle proprie passioni e dei propri sentimenti e stati d'animo. Diffidenza tuttavia egli mostra non soltanto verso gli storici antichi, che come Livio e Sallustio furono «alienati involontariamente dal rispetto pel vero» (53), ma anche verso quelli contemporanei, i cui racconti si fondano raramente su testimonianze dirette e sempre più invece su ipotesi e deduzioni.

Lo stato di dubbio e d'incertezza che Delfico manifesta verso la storia non si traduce però nell'affermazione dello «storico pirronismo», cioè in una negazione assoluta della verità storica, bensì nel rifiuto di una certa storiografia, dal quale traspaiono indicazioni di linee metodologiche nuove. Occorre superare l'atteggiamento psicologico di assoluta e passiva credulità con il quale ci si è posti e ci si pone di fronte ai racconti storici, per conferire credibilità soltanto a quelle produzioni che consentono un processo di «verificazione di tutte quelle condizioni e motivi, dalla compiuta combinazione de' quali solo la verità e la certezza possono risultare» (54). Diversamente da quanti, come La Mothe Le Vayer, avevano visto nell'eccessiva credulità degli uomini un ulteriore presupposto del proprio pirronismo storico (55), Delfico considera la credulità e il  pirronismo «due malattie della mente», ugualmente «assai gravi», caratterizzate l'una «dall'inerzia», l'altra «dalla debolezza». Sarebbe utile pertanto formulare una gradualità della probabilità storica, relativamente al tempo e alla natura degli avvenimenti, alla presenza o meno di testimoni, alle qualità personali degli storici, sulle quali Delfico insiste in maniera particolare. Prima di concedere credibilità allo storico occorre indagare sulle sue qualità fisiche, morali e intellettuali, accertare che sia scevro di pregiudizi di qualunque genere e libero da influenze politiche o religiose, così da risultare illuminato unicamente dalla ragione e spinto dall'amore per il vero.

L'assunto delficino, che è vero tutto ciò che si accerta e di cui si è testimoni, sembra precludere qualsiasi interpretazione che non si muova nella direzione di un riconoscimento della fallibilità della ricerca storica. La tesi troverebbe conferma negli argomenti addotti dal Nostro per criticare l'atteggiamento di Condorcet verso la storia compendiato nel celebre Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain. Pur negando alla storia qualsiasi valore assoluto, il pensatore francese riteneva che essa potesse rivelarsi utile e bisognasse quindi farvi ricorso, poiché l'esperienza e l'osservazione ci avrebbero potuto mostrare i cambiamenti e i progressi avvenuti nel tempo e indicare l'origine dei pregiudizi, permettendoci così di prevenirne gli effetti in futuro (56).

Il confronto con Condorcet serve a Delfico per interrogarsi sull'opportunità di estendere alle scienze sociali, e alla storia in particolare, il metodo sperimentale, fondato sui postulati dell'esperienza e dell'osservazione e adottato con successo dalle scienze naturali, nelle quali aveva fornito «prove vere e convincenti». Le motivazioni addotte per negare l'uso e la validità di canoni empirici nello studio della storia concorrono a mantenere netta in lui, come già in Volney (57), la distinzione e la diversità tra scienze sociali e scienze naturali. Egli nega che le scienze sociali possano raggiungere la stessa precisione di risultati delle scienze naturali, poiché l'oggetto di ricerca di quelle è rappresentato da fatti individuali e irripetibili, che non si prestano ad essere classificati e diretti alla scoperta del vero. Diversamente, nelle scienze naturali «tutto vi si dispone in modo da potere conoscere distintamente ogni menoma circostanza (…). Si può sperare così di avere dei risultati sicuri, e trovare le cagioni dei fenomeni o fatti esposti all'esame» (58). La mancanza della sperimentazione, della possibilità cioè di servirsi dell'esperimento di laboratorio, priverebbe le scienze sociali dell'unico procedimento capace di effettuare una verifica veramente scientifica dei risultati ottenuti, che diventano così privi di qualsiasi utilità.

La polemica con Condorcet non implica una ritrattazione di quelle affermazioni con le quali Delfico si era pronunciato a favore di una ricerca analitica delle cause interagenti nella determinazione dell'evento storico. Semmai essa mostra come egli resti legato ad una concezione che della vicenda storica coglie soltanto l'aspetto della sua unicità e non piuttosto i suoi elementi di generalizzazione, non comprendendo così che «lo storico non ha a che fare con ciò che è irripetibile, ma con ciò che, nell'irripetibile, ha un carattere generale» (59).

Altrettanto deciso è il rifiuto delficino di estendere all'analisi storica l'altro procedimento del metodo sperimentale: l'osservazione. La negazione è motivata dal fatto che tale criterio è applicabile unicamente agli eventi che cadono sotto i nostri sensi, mentre la storia è prevalentemente caratterizzata da fatti lontani, appartenenti per lo più alla memoria e per questo suscettibili di errori ed inesattezze, tali da indurre il pensatore teramano a credere che «nella storia la vera certezza non potremo ritrovarla giammai» (60). La conclusione, pur non traducendosi positivamente nella percezione della relatività delle verità storiche e di ogni tipo di verità scientifica, come verità parziali, sempre di nuovo verificabili e rettificabili, come continua acquisizione di nuovi risultati e di più affinati strumenti di investigazione, non è una liquidazione tout-court del problema storiografico.

Il principio dell'esperienza sensoriale quale condizione essenziale della certezza storica non è oggetto nell'elaborazione delficina di una rigida e meccanicistica applicazione. Un ricorso assoluto ed esclusivo ai postulati del sensismo, quasi fossero bastevoli a conferire carattere scientifico all'analisi storica, trova infatti una smentita da parte dello stesso Delfico, per il quale i limiti e gli ostacoli che si frappongono al ritrovamento della verità delle vicende passate permangono anche per gli storici contemporanei che narrano gli avvenimenti presenti. A tal proposito egli riproduce integralmente, tradotto in italiano, il «bel ragionato discorso» di Tiraboschi (61), in cui si accorda scarsa attendibilità agli scrittori contemporanei che solitamente incorrono in errore «o per ignoranza o per malizia». Assieme alle cause materiali, come ad esempio la distanza locale, e assieme all'eccessiva sterilità nei racconti, alla negligenza nell'esaminare gli eventi narrati, all'esagerata credulità o all'ostinata incredulità verso i racconti popolari, Tiraboschi valuta le cause di natura psicologica che inducono lo storico a non riferire il vero, nonostante sia testimone oculare di un avvenimento. Tale è il caso di chi, scrivendo per adulazione, per prevenzione o, peggio ancora, per spirito di partito, perde l'obiettività e si abbandona a storie agiografiche ricche di mistificazioni. Ma, guardandosi bene dal promuovere con tale critica un «pericoloso universale pirronismo», egli è pieno di ammirazione per lo storico dotto, libero da prevenzioni, nemico dei partiti e amante del vero, che non scrive la storia senza aver prima raccolto con cura e intelligenza i documenti e le prove più complete ed esaurienti, proprio come un «bravo e circospetto giudice» (62) nell'adempimento della sua attività. Il discorso di Tiraboschi, di cui Delfico mostra di condividere sia la pars destruens che quella construens, pone l'accento sulla forza del dubbio, fino a farne una regola metodologica, di malebranchiana memoria (63), in grado di stimolare il ricercatore a corroborare le proprie affermazioni con una ricca e probante documentazione.

Appare chiaro a questo punto come il problema principale per il Teramano non sia tanto quello di stabilire la scientificità o meno della storia, se cioè essa possa a buon diritto appartenere al rango delle scienze, quanto piuttosto quello di indicare e fissare nuovi postulati metodologici che  consentano di qualificare la storia non come scienza bensì, se si può utilizzare un'espressione di Lucien Febvre, «come studio condotto scientificamente» (64).

Oltre ad assumere la categoria del dubbio come criterio fondante della pratica storiografica («la più sicura guida alla ricerca del vero e delle vere scienze» (65)), in seguito accolto anche da Jannelli (66), occorre imporre alla storia, osserva Delfico, i «dovuti confini» e stabilire quale limite debbano avere i racconti «nella qualità e nel numero», onde evitare che anche in futuro si faccia «più sfoggio di Rettorica e di eloquenza che uso di raziocinio» (67). La «vera» storia, sostiene rifacendosi ad una tesi di Bettinelli (68), dovrebbe evitare di attardarsi su quelle epoche nelle quali non può essere soddisfatto il criterio del vero, per soffermarsi, invece, più lungamente sui «tempi storici qualificati». A tal fine egli propone una sorta di limitazione temporale dell'indagine storica, convinto che, sia considerando i rapporti degli stati e delle nazioni tra loro, sia quelli di un popolo e di una nazione solamente, «non ci è bisogno di andar tant'oltre per conoscere quelli dai quali dipende lo stato attuale delle cose, e che debbono essere osservati (…), ma basta quella che si può chiamare storia del tempo o del secolo in cui viviamo» (69).

L'affermazione delficina di un'indagine circoscritta ad epoche storiche a noi più vicine sottintende la possibilità di utilizzare la conoscenza storica per una migliore intelligibilità della realtà presente, di concepire il passato in funzione del presente. Nonostante molti abbiano creduto e continuino a credere all'historia magistra vitae, occorre riconoscere, afferma Delfico in disaccordo con lo stesso Volney, che aveva alla fine ammesso l'utilità politica della storia (70), che la realtà passata «non solo di alcuna intrinseca utilità non la troviamo fornita, ma spesso ancora produttrice di positivi danni» (71). Il giudizio, che ricorda quello espresso pochi anni prima da Bocalosi (72), non è riferito alle epoche storiche in genere, ma solo a quelle antiche, come precisa lo stesso autore alla fine del capitolo sull'inutilità della storia: «Debbo avvertire, che quanto si è detto in generale sull'inutilità della storia, non può convenire a quella parte di essa, cui da gran tempo si dà l'epiteto di moderna, e che dopo tre secoli non dovrebbe meritar più un tal nome» (73). Agli storici muove l'accusa di aver tramandato pregiudizi ed errori che hanno lasciato l'umanità in uno stato di ignoranza e di superstizione. Così, vedendo Sparta e Roma nascere povere e divenire in seguito potenti, si ritenne, senza ricercare le cause di quella grandezza, che la povertà fosse il presupposto dello sviluppo e della felicità delle nazioni. Allo stesso modo, narrando continuamente storie di guerre e di popoli infelici si trasse la convinzione che la pace e la felicità fossero condizioni precluse al genere umano (74). Né possono avere una funzione educativa i fatti che la storia ci ha portato ad esempio, poiché spesso la loro nefandezza rende l'imitazione addirittura più dannosa che vantaggiosa. Nessuna imitazione è poi possibile se prima non si raggiunge una conoscenza profonda e completa dei fatti imitabili e delle circostanze che li hanno prodotti. Ma dal momento che essa resta incompleta, si deve concludere, osserva Delfico richiamandosi a Bolingbroke e a Guicciardini, che la stessa imitazione «è cosa in vero assai malagevole e pericolosa» (75).

Sul tema dell'imitazione egli si dilunga più specificamente nelle Ricerche su la sensibilità imitativa del 1813, in cui fa dipendere l'attività imitativa dalla sensibilità interna e dall'impiego degli organi dell'udito e della vista. Notevole importanza assume la «simpatia» o, più correttamente, la «consensibilità», l'istinto per mezzo del quale sentiamo ciò che un altro sente e assumiamo spesso lo stesso atteggiamento psichico ed anche corporeo dei nostri vicini. In questa naturale facoltà imitativa Delfico vede la prima e la vera sorgente dei «migliori affetti o sentimenti» degli uomini, i quali hanno però abusato di questa loro qualità e se ne sono serviti soprattutto per riprodurre vizi ed emanazioni dell'orrore (76). Nello scritto il fenomeno imitativo diviene il fondamento del rifiuto di un certo tipo di conoscenza storica, di scarsa o di nessuna utilità. Oggetto dell'attività imitativa sono infatti, per lo scrittore teramano, unicamente le manifestazioni relative all'umano «civilizzamento», quali le belle arti, i felici concepimenti, i sublimi sentimenti, i progressi sociali. Così intesa, «la sensibilità imitativa si può riguardare come la base da cui sorge la piramide della progressiva perfettibilità della specie fino all'ultimo apice del morale perfezionamento» (77). Il principio di perfettibilità (78), elaborato da Delfico sulla falsariga del concetto condorcettiano, trova quindi una più facile realizzazione con il crescere e il diffondersi di nuove cognizioni in grado di promuovere un reale miglioramento del genere umano. La stessa conoscenza storica potrebbe rivelarsi di notevole interesse qualora riuscisse ad indagare le cause per cui lo sviluppo della civiltà è stato spesso suscettibile di interruzioni e di involuzioni. Conoscendone le cause, non sarebbe difficile trovare il modo per rimuoverle e accelerare il processo di graduale incivilimento del genere umano (79). Un'ulteriore funzione, del resto parallela a quella ricordata, potrebbe consistere nel far conoscere i progressi sociali e le cagioni che li produssero. L'indagine storica, permetterebbe così di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824, in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti:

 

È vero, che il conoscere anche di lontano i progressi della specie, ci sarebbe di grandissimo vantaggio per intendere la storia morale dell'uomo, e vedere il successivo svolgimento delle sue facoltà secondo la concorrenza delle civili e naturali circostanze; poiché nel conoscersi i modi, onde alcune società più sollecitamente progredirono, mentre altre furono tardigrade o retrograde ne potrebbe risultare non inutile istruzione; ma poco si ebbe in mira questo scopo (80).

 

Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata (81), che Delfico chiama anche «storia delle scienze» quale

 

dev'essere quella delle cognizioni o verità esposte nell'ordine progressivo, ciò che costituisce quasi un metodo d'invenzione, o un sistema analitico delle medesime: ciò che forma la vera storia dei progressi dello spirito relativa al soggetto di cui si occupa. E che altro sono infatti le scienze, se non le verità esposte in tal metodo amico all'umana intelligenza? La storia degli errori può costituire l'erudizione degli errori; ma la storia della verità costituisce essenzialmente la scienza. Nel modo proposto essa c'indica gli estremi, e mostrandoci il punto donde siamo partiti, e quello dove ci troviamo, ci segna più distintamente la strada da progredire. La storia della natura e quella dello spirito umano così correrebbero parallele, e potrebbesi in tal modo considerar la storia sotto un aspetto più utile e più favorevole alle scienze ed all'umanità, cioè come le serie successive di cangiamenti avvenuti alla specie, e delle cagioni per le quali furono prodotti  (82).

 

Emerge qui l'idea di uno strumentalismo storiografico: ci si rivolge al passato per scoprire le leggi dell'evoluzione della società le quali, oltre a fornire una conoscenza più approfondita del presente, permettono di intravedere le linee del futuro sviluppo dell'umanità. Le cognizioni storiche perdono il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma Delfico a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (83). La storia cessa di essere, usando un'espressione moderna, l'histoire événementielle, limitata cioè al racconto delle vicende politico-militari e diviene la storia progressiva delle conoscenze, delle esperienze, delle osservazioni, delle scoperte, così come essa era stata compiuta da Fourcroy per il mercurio (84).

 

Sia benedetta la storia - scrive a Jannelli, dopo aver ribadito l'idea di una scienza analitica e ragionata - quando mi mostrerà questi progressi dell'umanità; poiché facendomi conoscere quali cagioni produssero probabilmente tali e tali effetti, potremo studiarci a riprodurle o ad allontanarle secondo la loro indole, 

 

e ciò senza lo stupore di nessuno «poiché tutto l'umano sapere va a cercar nelle origini le prime cagioni della sua esistenza» (85). Nulla esclude dunque che, se adeguatamente rinnovata, possa sorgere la storia ragionata o la «vera critica storica», con le qualità proprie di una scienza alla quale le stesse scienze si rifacciano per trovarvi la loro origine e il loro fondamento, oltre alle direttive per nuovi progressi e avanzamenti.

 

Io mi vado augurando - conclude nella lettera a Jannelli - che i vostri travagli potranno in qualche modo imprimere su la storia l'impronto (sic) della verità ed il pregio assai maggiore, cioè quello della utilità. E con ciò lungi di sentire, anche  confermate  le mie  idee,  colle  quali  contrastai  questi  pregi alla storia, qual'esse si trova ancora; non quale potrebb'essere, e mi auguro, che sarà nelle vostre mani  (86).

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(1) I Principj furono ristampati a Milano in 4 tomi, dal 1805 al 1807, con una dedica dell'editore Agnello Nobile a Melchiorre Delfico. Il primo tomo fu recensito da Cuoco nel n. 44 (13 aprile 1895) del «Giornale Italiano». Cfr., in proposito, S. NUTINI, Cuoco e Schmidt d'Avenstein, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXIV (1987), fasc. III, pp. 329-35.

(2)E' quella con Gian Giacomo Trivulzio (1774-1831) un'amicizia che si consoliderà nel corso degli anni, tanto che egli considererà il letterato milanese l'amico «più caro e illustre» (cfr. lettera di Delfico a Dragonetti del 5 giugno 1831, in Opere complete, cit., vol. IV, p. 69). Da Milano il marchese Trivulzio terrà Delfico costantemente informato sugli avvenimenti letterari del tempo. Gli scrive il 27 novembre del 1824: «Non so se abbiate letto la Storia d'Italia (1824) del Botta che costà pure sarà proibita come lo è qui, ma a quel che pare essa non corrisponde all'ispettazione e alla fama dell'autore; è piena di inesattezze e di ammissioni e vi si scorge da per tutto uno spirito di parte imperdonabile ad uno storico. Eccovi un nuovo argomento per corroborare l'assunto dell'inutilità della storia» (lettera conservata presso la BNBM, Aut. B. VIII  n. 78/7). E ancora: «Ora abbiamo il poema del Grossi che dà molto da parlare. Esso è intitolato I Lombardi alla prima crociata (1826), ed è tutto di piano e di stile romantico. Ma, sapete voi cos'è romantico? Questa barbara voce di un gusto corrompitore d'ogni classica bellezza, avrà essa passato il Po, e il Rubicone e il Tronto per giungere fino a Voi? Nol so. (…) Si sta preparando anche un romanzo che sarà il primo italiano; esso si aggira sopra vicende o finte o accadute infierendo la peste in Milano ai tempi del Card. Federico Borromeo. Il Manzoni vi è l'autore, capo e colonna de' Romantici, e il solo che per il suo ingegno poetico possa far danno al buon gusto d'Italia favorendo il cattivo» (lettera del 22 agosto 1826, in BNBM, Aut. B. VIII  n. 78/11). Dei romantici Delfico si era occupato nella Lettera all'amico Gaspare Selvaggi del 10 novembre 1815 (pubblicata sul n. 2 del «Giornale enciclopedico di Napoli», a. XII (1818), ora in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 403-22), scritta come commento all'opera di A.W. SCHLEGEL, Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur (1809-11), dal Nostro letta nella traduzione francese, Cours de littérature dramatique, J.-J. Paschoud, Paris-Genève 1814. «Benché poi io non intenda bene - afferma - le idee e il vocabolario della setta de' romantici, pure avendo ammesso per principio la varietà in questa specie drammatica (tragedia), non vorrei comparire in contraddizione con me medesimo, disapprovando questo gusto che ignoro. Se mai però fosse vero che questi ultra ci volessero far diventare retrogradi, e colla seduzione degli spettacoli ricondurci al goticismo della politica e di ogni letteratura, non mi parrebbe poter consigliare questa drammatica, che come opposta al gran fine de' progressi sociali. (…) Il voler preconizzare dunque, come ha fatto lo Schlegel, per prototipi del genere drammatico e della tragedia quegli autori che diedero un addio alla logica comune, ed in grazia di qualche tratto originale di compassione o di espressione, elevarli su gli altari del gusto (…), temo che pochi si adatteranno a questa nuova idolatria; il carattere del secolo almeno non sembra disposto ad accettare autorevoli imperi se non vengono scortati dalla ragione» (Opere complete, cit., vol. IV, pp. 419-20).

(3) Il ferrarese Francesco Leopoldo Cicognara (1767-1834), che Delfico può addirittura aver conosciuto a Napoli dove il conte si era recato in viaggio nel 1788, è autore nel 1808 del trattato Del Bello (presso Molini e Landi, Firenze). Del tema si occuperà anche Delfico nelle Nuove ricerche sul Bello, pubblicate a Napoli nel 1818 da Agnello Nobile, in cui definirà l'amico «illustre scrittore, filosofo ed artista al tempo stesso» (Opere complete, cit., vol. II, p. 193). Tra i due intercorse un lungo rapporto epistolare dal quale emerge non soltanto l'amicizia ma anche la stima da cui furono legati. Cfr. le Lettere di Melchiorre Delfico a Leopoldo Cicognara pubblicate da M. Sgattoni, in «Notizie dalla Delfico», Bollettino della Biblioteca Provinciale «M. Delfico», Teramo 1995, n. 1, pp. 5-26, corredate di numerose e utili note del curatore. Di Delfico il Ferrarese parlerà anche al suo amico Canova. Cfr. L. CICOGNARA, Lettere ad Antonio Canova, a cura di G. Venturi, Argalia, Urbino 1973, pp. 41, 86, 101, 113. Alla loro pubblicazione, Delfico inviò al celebre scultore una copia delle Nuove ricerche sul Bello. Si veda la lettera di Antonio Canova a Delfico del 16 giugno 1818 da Roma, in Lettere di Melchiorre Delfico a Leopoldo Cicognara, cit., pp. 16-17. Di grande familiarità è anche il rapporto che Delfico ebbe con la prima moglie di Cicognara, Massimiliana Cislago, scomparsa nel 1807, di cui sono testimonianza due lettere della donna al Nostro, entrambe da Milano, una del 21 ottobre 1804, l'altra dell'8 febbraio 1806, conservate presso la BPT, Ep., nn. 38 e 39.

(4) Lettera di Delfico ad «amici dilettissimi» da San Marino del 10 giugno 1806, in BALSIMELLI, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, cit., p. 143.

(5)Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. «Il mio libro anti-storico - scriveva al fratello nella primavera del 1807 - dopo molto ritardo per parte dello stampatore s'incominciò finalmente a stampare in autunno; ma i primi fogli, senza l'ispezione dell'autore riuscirono spietatamente scorretti (…). Lo stampatore ne convenne e mi disse che avrebbe rimediato. Sono mesi che attendo». (Brano di lettera pubblicata da VENTURI, Nota introduttiva (a M. Delfico), cit., p. 1186). La stampa fu piuttosto scorretta, come risulta dalla nota che l'Autore appose all'edizione: «Quest'opuscolo incominciato a stampare in Forlì fin dal mese di giugno 1806 per varj accidenti di quella stamperia non ha potuto venire alla luce che dopo due anni. E per l'assenza dell'autore non avendo potuto godere delle cure paterne, vi compariscono degli sconci in gran numero. Si è dato quindi opera ad emendarne i più importanti, raccomandando gli altri alla intelligenza del lettore». La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli nel 1809 e nel 1814. Cito dalla ristampa pubblicata nelle Opere complete, cit., vol. II, pp. 9-177, che, pur riproducendo il frontespizio dell'edizione di Forlì del 1808, raccoglie le correzioni delle altre due edizioni. Positivo è il giudizio  formulato da Vincenzo Cuoco il quale recensendo la terza edizione dei Pensieri su l'istoria nel n. 1179 del «Monitore delle Due Sicilie» dell'8 novembre 1814 definisce Delfico «degno emulo del gran Vico, il quale il primo stabilì che l'uomo non iscrive ciò che è, ma bensì ciò che sente; che ha un modo suo proprio di sentire, onde spesso le sue sensazioni non corrispondono alla realtà delle cose; e che, per conoscere bene il tempo passato ed applicarlo al presente, non basta la cognizione di ciò che essi dicono, ma è necessario sapere ciò che essi sono». E conclude: «Questo libro, attentamente meditato, potrà un giorno produrre una rivoluzione importante nello studio delle storie antiche e nella compilazione delle moderne: sì le prime che le seconde potranno diventare più ragionevoli e più utili. Il libro sull«inutilità della storia» sarà la miglior guida per scrivere una storia che sia utile». (V. CUOCO, Scritti vari, a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Laterza, Bari 1924, vol. II, pp. 250-51). Sul vero intento dell'opera, dunque, Cuoco non sembra nutrire dubbi, tanto più che egli aveva fatto parte assieme a Delfico e a Giuseppe Capecelatro, Bernardo Della Torre, Tito Manzi della Commissione, nominata da Gioacchino Murat il 27 gennaio 1809, per la riforma della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, ed aveva visto il Teramano battersi per l'istituzione di «una cattedra di filosofia della storia, sul modello di quella che era in Pavia» (Scritti vari, cit., vol. II, p. 137). Una valutazione, quella del 1814, che conferma peraltro quanto già espresso dallo scrittore molisano in una lettera al Nostro del 1808: «Il vostro Discorso sulla inutilità della storia c'insegna come si dovrebbe fare una storia utile. Quella, che abbiamo, spesso non è che un romanzo. Essa, intanto, piace all'erudito, perché ama, nell'infinito indigesto caos delle tradizioni, la fatica che sempre gli costa la scoperta di una spesso meschina e sempre inutile verità. Piace ai non eruditi, perché, essendo scritta in modo che, non le vere vicende delle cose, ma le fantasie e le sensazioni degli uomini contiene, eccita ne' lettori la loro fantasia ed il loro cuore; il che è per essi cagione di infallibile diletto. Il vostro libro non può piacere ai primi, perché toglie loro un mestiere; non ai secondi, perché toglie loro un diletto». (Scritti vari, cit., vol. II, p. 352). Alle tesi delficine sulla storia aderisce Francesco Salfi il quale poco manca che dopo aver letto i Pensieri su l'istoria faccia «una disdetta ed abiura solenne» della storia e della sua professione di storico. Si veda in proposito il brano di lettera, non datato (ma collocabile intorno al 1809), riportato da DE FILIPPIS-DELFICO, Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 169-70. Negli anni successivi tuttavia il Salfi modificherà il suo pensiero sulla storia e ne rivendicherà il valore nello scritto Della influenza della storia (Napoli 1815), così come aveva fatto in precedenza in un'altra opera, Dell'uso dell'istoria massime nelle cose politiche (Milano 1807). Numerose le polemiche. Fra tante quella di Galeani Napione per il quale è la stessa attività storica di Delfico a confutare i Pensieri su l'istoria. Allo scrittore abruzzese egli rimprovera di aver ignorato i progressi compiuti negli ultimi due secoli da una critica storica «giudiciosa, munita di tutti i necessarj presidj» e di essersi limitato invece a criticare l'esistenza di «storie erronee, inutili, e corrotte». Cfr. G.F. GALEANI NAPIONE, Osservazioni intorno ai Pensieri sulla istoria e sulla incertezza ed inutilità della medesima del cav. Melchior Delfico, in «Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino», t. XXIII, 1818, pp. 236 e 232. Un giudizio negativo esprime anche Cesare Della Valle il quale, in contrasto con Delfico, rivendica l'utilità della conoscenza storica, anche nel caso in cui questa «avesse in alcuna parte a rimanere incerta» (Pensieri sulla scienza della storia, vol. I, Tipografia Simoniana, Napoli 1820, pp. 7-8). Un eguale dissenso manifesta Giuseppe Di Cesare a p. 6 dello scritto Talune considerazioni sulla storia, pubblicato senza indicazioni di luogo e di data, ma verosimilmente alcuni anni dopo la scomparsa di Delfico. Critiche alla tesi delficine verranno mosse anche da Francesco Michitelli nel vol. I della Storia delle rivoluzioni ne' reami delle Due Sicilie, s.e., Italia 1860, pp. 6-7.

(6) Cfr. DELFICO, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., pp. 253-54.

(7) GHISALBERTI, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, cit., p. 436.

(8) DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249.

(9) GAROSCI, San Marino, cit., p. 198.

(10) DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., pp. 246-47. Nei suoi Remarks, più volti tradotti in italiano nel corso del Settecento, Addison trattava della Republick (sic) of St. Marino alle pp. 130-40. Dell'opera di Adams, A defence of the Constitutions, esisteva la traduzione in francese (Défense des Constitutions Américaines, chez Brisson, Paris 1792), così come era stato tradotto in francese lo scritto di Gillies, pubblicato nella «Bibliotheque Britannique», tome quatrième, Littérature, Genève 1797, pp. 370-93.

(11) DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.

(12) Per un approfondimento di questo tema, cfr. A. GAROSCI, La formazione del mito di San Marino, in «Rivista storica italiana», a. LXXI (1959), fasc. I, pp. 21-47; Il mito di San Marino, in «Rassegna storica toscana», a. XIV (1968), n. 1, pp. 5-31, nonché il più volte citato volume San Marino; N. BOBBIO, La leggenda di San Marino, in «Nuova Antologia», a. 122 (1987), fasc. 2162, pp. 65-81; R. MONTUORO, Come se non fosse nel mondo. La Repubblica di San Marino dal mito alla storia, Edizioni del Titano, Repubblica di San Marino 1992, il quale, come gli altri autori, si sofferma a lungo sulle Memorie storiche delficine.

(13) Cfr. P. AEBISCHER, Le plus ancien témoignage relatif au mythe Saint-Marinais de la «libertas perpetua», in «Anuario de estudios medievales», Barcelona, 5, 1968, pp. 223-35.

(14) Cfr. De' Ragguagli di Parnaso, Centuria Seconda, Ragguaglio VIII, appresso Barezzo Barezzi, Venetia 1613.

(15) Cfr. Il Belluzzi, o vero Della Città felice, in Dialoghi, appresso Marco Ginammi, Venetia 1625, pp. 160-73.

(16) DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 246.

(17) Cfr. AGRIMI, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia, cit., p. 94.

(18) Cfr. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, cit., p. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Sulle critiche gentiliane a Delfico, cfr. M.L. CICALESE, Giovanni Gentile e la Rivoluzione francese, in Atti del congresso su La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese, vol. II, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1990, pp. 471-74. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da B. CROCE, La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-65.  

(19) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 11.

(20) Per un quadro d'insieme delle posizioni di questi autori, cfr. M. PETROCCHI, Razionalismo architettonico e razionalismo storiografico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1947, pp. 55-93.

(21) Punto di partenza della rivalutazione del senso storico dell'illuminismo è il celebre saggio di W. DILTHEY Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt del 1901, trad. it. a cura di F. Tedeschi Negri, Il secolo XVIII e il mondo storico, Edizioni di Comunità, Milano 1967.

(22) ROSSI, L'illuminismo e il mondo storico, cit., p. 1292.

(23) Cfr. G. GUSDORF, Introduzione alle scienze umane, Il Mulino, Bologna 1972, p. 361.

(24) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 109. Constantin-François Volney (1757-1820) prese parte attiva all'Assemblea Nazionale. Arrestato durante la lotta tra girondini e montagnardi venne liberato nel 1794, dopo la caduta di Robespierre. Con altri ideologi si schierò con Napoleone il 18 brumaio per divenirne presto avversario. Scrisse Les Ruines, où Méditations sur les Révolutions des Empires (Genève 1791) nelle quali simpatizzò con le tesi materialistiche e sensistiche. Per un esame delle dottrine filosofiche e scientifiche di Volney, cfr. MORAVIA, Il pensiero degli idéologues, cit., pp. 585-671.

(25) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C. ROSSO, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses de l'Université, Angers 1988, pp. 345-56. 

(26) Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris an VIII.

(27) Ivi, pp. 100-102.

(28) Ivi, p. 169.

(29) Ivi, p. 248.

(30) G. SEMPRINI, Il pensiero di Melchiorre Delfico, Tipografia Teramana, Teramo 1935, p. 136. Della stessa opinione è anche Armando Di Nardo, il quale considera i delficini Pensieri su l'istoria «una esposizione sistematica di come la storia non deve essere» (Storia e scienza in Melchiorre Delfico, cit., p. 87).

(31) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 98.

(32) Sulla necessità per Delfico di dare un fondamento più saldo all'indagine storica, cfr. B. MEZUCELLI, Studio sul libro di Melchiorre Delfico «Pensieri sulla incertezza e inutilità della storia», estratto da «Il R. Liceo Ginnasiale M. Delfico negli anni scolastici 1878-79 e 1879-80», Firenze 1881, p. 22 sgg.

(33) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 15.

(34) Cfr. S. ROTTA, Voltaire in Italia. Note sulle traduzioni settecentesche delle opere voltairiane, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie II, vol. XXXIX (1970), fasc. III-IV, pp. 430-31.

(35) «La felice configurazione degli organi della voce e la segreta corrispondenza di essi coll'interna sensibilità, e cogli organi dell'intelletto fecero l'uomo parlante, come l'organizzazione della mano gli diede la possibilità, o la facoltà per essere scrittore: due qualità o condizioni necessarie a poter narrare o far de' racconti, poterli registrar colla penna, e comunicarli ai suoi simili presenti e futuri. L'uomo è dunque formato dalla natura colle disposizioni fisiche ed intellettuali a divenir Storico, e direi quasi forzato ad esser tale. (…) Conoscendo poi con maggior chiarezza, che i piaceri dell'animo i più comuni sono quelli ne' quali lo spirito non ha bisogno di gravi sforzi, e più che l'attiva ragione vi sia in moto la potenza immaginativa, (…) dobbiamo riconoscere nella natura medesima la potente intrinseca causa di questa particolare inclinazione dell'uomo in ascoltare o far de' racconti, per cui si può quasi dire, che egli sia storico per natura» (Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., pp. 19-20). La stessa tesi si ritrova nelle Leçons d'histoire di Volney, cit., pp. 75-76.

(36) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48.

(37) DELFICO, Discorso sulle favole esopiane, cit., p. 39.

(38) Cfr. ivi, pp. 39-40.

(39) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-38. La Lettera delficina venne ricordata alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.

(40) Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. PROFETA, Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979), n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, col titolo Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti nel quadro della confutazione illuministica degli errori popolari, pp. 79-138.

(41) Ivi, p. 105.

(42) Cfr. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 34. Anche per Volney la storia non ha fatto altro che narrare «guerres éternelles, égorgemens de prisonniers, massacres de femmes et d'enfans, perfidies, factions intérieures, tyrannie domestique, oppression étrangère (…). Sous des noms divers, un même fanatisme ravage les nations; les acteurs changent sur la scène; les passions ne changent pas, et l'Histoire entière n'offre que la rotation d'un même cercle de calamités et d'erreurs» (Leçons d'histoire, cit., pp. 236 e 246).

(43) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., pp. 36-38. Abusiva filiazione della storia sono state le biografie, scritte quasi sempre per «acelebrar qualche principe»; le storie dei propri paesi, per cui non ve n'è uno «privo della sua storia sacra, profana e letteraria, colla serie de' vescovi, arcipreti e magistrati»; così come tutte quelle storie dettate esclusivamente dalla vanità di far sfoggio di conoscenze strane e singolari o «bella figura nelle compagnie» (ivi, pp. 36-37 e 40).

(44) Cfr. A. GENOVESI, Della logica, ossia dell'arte di pensare, ragionare e disputare, Stamperia Simoniana, Napoli 1766, p. 137 sgg.

(45) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 42.

(46) Ivi, p. 30.

(47) Cfr. Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734), in Oeuvres, cit., tome sixième, chap. XVIII, p. 166, in cui si trova la formulazione di una organica teoria della causalità e del divenire storico, in seguito ripresa e sviluppata da Montesquieu nella sua opera maggiore, De l'Esprit des lois.

(48) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 43.

(49) Manoscritto delficino dal titolo Della certezza o probabilità storica, in BPT, Misc. 4, n. 951.

(50) Cfr. G. VICO, De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (1710), trad. it., Dell'antichissima sapienza italica da dedursi dalle origini della lingua latina, in Opere, cit., lib. I, cap. I, pp. 248-50.

(51) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 42.

(52) Sull'interpretazione sensistica che Delfico offre del factum vichiano, cfr. le obiezioni di F. ZAMBELLONI, Le origini del kantismo in Italia, Marzorati, Milano 1971, p. 140 sgg. Spunti critici anche in TESSITORE, Da Cuoco a De Sanctis, cit., p. 16 sgg.; R. FRANCHINI, Delfico e la storia, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, a cura di S. Rota Ghibaudi e F. Barcia, Angeli, Milano 1990, vol. II, p. 862 sgg.

(53) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 58.

(54) Ivi, p. 69.

(55) Cfr. C. BORGHERO, La certezza e la storia. Cartesianesimo, pirronismo e conoscenza storica, Angeli, Milano 1983, p. 67 sgg.

(56) «Se esiste una scienza - scrive Delfico traducendo un passo dell'Esquisse, allora ancora privo di una versione italiana - di prevedere, dirigere ed accelerare i progressi della specie, l'istoria di quelli che ha già fatto dev'esserne la base. La filosofia ha giustamente proscritto quella superstizione, per la quale si credeva, non esserci altra regola di condotta che nella storia dei tempi andati, né trovarsi la verità che nelle antiche opinioni; ma non deve rigettar con orgoglio le lezioni dell'esperienza. La meditazione sola può sicuramente con felici combinazioni condurci alle verità generali della scienza dell'uomo: ma se l'osservazione degl'individui della stessa specie è utile al metafisico, perché nol saranno quelle della società al filosofo ancora ed al politico? (...)

I nostri pregiudizj ed i mali conseguenti non sono essi nati dai pregiudizj dei nostri antenati? Ed uno dei mezzi più sicuri per disingannarci degli uni, e prevenir gli altri, non è egli l'indicarne l'origine, e prevenire gli effetti?» (Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 107).

(57) Egli afferma di «regarder l'Histoire, non point comme une science», perché questo nome non sarebbe applicabile che a «des connaissances démontrables, telles que celles des mathématique, de la physique, de la géographie; mais comme un art systématique de calculs qui ne sont que probables» (Leçons d'histoire, cit., pp. 140-41).

(58) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 108.

(59) E.H. CARR, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1982, p. 69.   

(60) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 69.

(61) Girolamo Tiraboschi (1731-94) gesuita, diviene nel 1770 bibliotecario del duca Francesco III d'Este di Modena. Conosciuto soprattutto per la celebre Storia della letteratura italiana (Modena 1772-81), è autore di un breve ragionamento, Discours sur l'autorité des historiens contemporains, recitato nella pubblica Accademia dell'Arcadia il 3 agosto 1780 e pubblicato la prima volta nell'«Encyclopédie méthodique. Histoire», tome premier, Padoue 1784. La versione italiana del testo, dal titolo Ragionamento sopra l'autorità degli storici contemporanei, è in appendice a PETROCCHI, Razionalismo architettonico e razionalismo storiografico, cit., pp. 103-19.

(62) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 78.

(63) Cfr. N. MALEBRANCHE, De la recherche de la vérité (1674), livre premier, chap. XX, § III, in Oeuvres complètes, édité par G. Rodis-Lewis, t. I, J. Vrin, Paris 1962, p. 188.

(64) L. FEBVRE, Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino 1976, p. 141.

(65)Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 80.

(66) Cfr. F. CRISPINI, Dubbio, credenza, persuasione nella scienza storica dopo Vico: C. Jannelli, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, cit., vol. III, pp. 341-56.

(67) Inedito delficino Della certezza o probabilità storica, cit. La storia, afferma Delfico, «non ha goduto ancora degli impulsi dati da Bacone alle altre parti dell'umano sapere» e «gli storici non hanno seguito alcuna regola che pur sembrava necessaria, ed intrinseca alla natura delle cose. (…) Ogni scienza ha la sua superstizione che bisogna abbattere, i suoi idoli che bisogna rovesciare».

(68) Cfr. S. BETTINELLI, Introduzione sopra lo studio della storia, premesso al suo Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille (1773), in Opere edite e inedite in prosa e in versi, Cesare Adolfo, Venezia 17992, t. VII, p. 24.

(69) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 116.

(70) Dopo aver a lungo criticato la storia, Volney vede nell'applicazione di quest'ultima al governo, alla legislazione, all'economia politica delle società, il vero e unico scopo della storia, che diviene così «la science physiologique des gouvernemens, parce qu'en effet elle apprend à connaître, par la comparaison des états passés, la marche des corps politiques, futurs et présens, les symptômes de leurs maladies, les indications de leur santé, les pronostics de leurs agitations et de leurs crises, enfin les remèdes que l'on y peut apporter» (Leçons d'histoire, cit., pp. 142-43).

(71) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 101.

(72) Il carattere non soltanto inutile ma «pernicioso» della storia era stato sostenuto da Girolamo Bocalosi nel volume Dell'inutilità della storia, s.e., Italia 1795, rinvenuto tra i libri della biblioteca personale di Delfico.

(73) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 116. Anche per Volney «l'utilité n'a pas même été le but ni l'objet primitif de l'Histoire», la quale soltanto nell'ultimo secolo «a pris ce caractère de philosophie, qui, dans la série des événemens, cherche un ordre généalogique de causes et d'effets, pour en déduire une théorie de règles et de principes propres à diriger les particuliers et les peuples vers le but de leur conservation ou de leur perfection» (Leçons d'histoire, cit., pp. 75 e 77).

(74) Su questi e altri pregiudizi tramandati dai racconti storici, cfr. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., pp. 101-105.

(75) Ivi, p. 94. Delfico allude ai dubbi che Henry Bolingbroke aveva manifestato circa l'applicazione ed imitazione degli storici esempi, nonostante egli fosse «uno dei più grandi assertori del merito della storia» (cfr. Pensées de Milord Bolingbroke sur différents Sujets d'Histoire, de Philosophie, de Morale, Prault, Amsterdam 1771, pp. 231-52, opera di cui il Teramano era in possesso), e cita il passo della Istoria d'Italia (Dalla Società Tipografica de' Classici Italiani, Milano 1803, vol. I, lib. I, p. 137) in cui Guicciardini aveva affermato: «E' senza dubbio molto pericoloso il governarsi cogli esempi, se non concorrono non solo in generale, ma in tutti i particolari le medesime ragioni; se le cose non sono regolate con la medesima prudenza, e se, oltre a tutti gli altri fondamenti, non v'ha la parte sua la medesima fortuna».

(76) Cfr. DELFICO, Ricerche su la sensibilità imitativa, cit., p. 482.

(77) Ivi, p. 496.

(78) A questo principio Delfico rimane fedele sino alla fine. Nella lettera del 7 aprile 1832 scrive all'amico Dragonetti: «Sono stato più contento nel vedere dalla vostra sublime lettera, che voi pure riguardate la Perfettibilità come il primo articolo di fede nel simbolo della Ragione, giacché mi sembra che senz'esso i comuni voti dell'umanità non potrebbero aver progresso, e pur li hanno, ed è solo per essa, che le anime posson alimentar le speranze per la meno infelice posterità» (Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 142). Il principio di perfettibilità trova ulteriore affermazione nelle due citate Memorie su la perfettibilità organica, scritte nel 1814-15 e pubblicate a Napoli nel 1819 assieme alle Ricerche su la sensibilità imitativa.

(79) Cfr. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 105.

(80) M. DELFICO, Discorso preliminare su le origini italiche, in Opere complete, cit., vol. II, p. 310.

(81) Delfico rivendica un modello del tutto nuovo di cui non esistono esempi precedenti, dal momento che devono considerarsi «poco profittevoli ai progressi reali dello spirito, ed all'avanzamento delle scienze» l'opera di Antoine-Yves Goguet (1716-58), consigliere del Parlamento di Parigi, dal titolo De l'origine des lois, des arts et des sciences et de tous les progrès chez les anciens peuples (L'Aia 1758), e quella del gesuita spagnolo Juan Andrés (1740-1817), Dell'origine, de’ progressi e dello stato attuale d'ogni letteratura, pubblicata a Parma, negli anni 1782-89, dove si rifugia per qualche tempo in seguito all'espulsione (1767) dei gesuiti dalla Spagna. Entrambi gli autori «compilarono piuttosto che combinarono notizie, fatti, erudizioni, interessanti più i morti che i viventi, e più atti a soddisfare una vana curiosità, che gli avanzamenti della vera istruzione» (Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 99).

(82) Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 99.

(83) Ivi, p. 174.

(84) Antoine-François Fourcroy (1755-1809), chimico e uomo politico, fondò nel 1789 con Lavoisier e Berthollet le «Annales de Chimie». Nel 1792 pubblicò a Parigi la Philosophie chimique, tradotta in italiano nel 1794, in cui passava in rassegna tutte le verità fondamentali della scienza chimica ed offriva un quadro di tutte le mutazioni di cui erano suscettibili i corpi naturali nelle loro reciproche attrazioni. Del 1801 è l'altra sua opera importante, Système de connaissance chimique et de leur applications aux phenomènes de la nature et de l'art. Partecipò alla vita politica della Francia rivoluzionaria e sotto Napoleone Bonaparte divenne ministro dell'Istruzione pubblica.

(85) Lettera s.d. di Delfico all'abate D. Cataldo Jannelli, Dell'uso vero della storia, in Opere complete, cit., vol. IV, p. 121.

(86) Ivi, p. 122. Nei confronti di Jannelli, Delfico nutre una sincera stima nonostante l'abate nei suoi Cenni sulla natura e necessità della scienza delle cose e delle storie umane, Fontana, Milano 1832 (I ediz., Napoli 1817) lamenti che abbia «largo corso presso di noi un libro (Pensieri su l'istoria), che dell'inutilità e danno della storia assai lungamente e sottilmente favelli» (ivi, p. 96). Nella citata lettera Dell'uso vero della storia, successiva alla pubblicazione dei Cenni sulla natura, il pensatore teramano si pone sullo stesso piano di Jannelli, poiché «entrambi animati dallo stesso pensiero di essere utili all'umanità» anche se il primo «ebbe in mira di scoprire un errore», mentre il secondo avrà «il bel vanto di distruggerlo, e far comparire nella sua luce il vero» (ivi, p. 119). Ritornando sul problema della storia in una lettera del 1° ottobre 1830 all'amico Dragonetti, Delfico ha modo di ribadire la sua ammirazione per l'opera di Jannelli: «Io non conosco le due opere che m'indicate cioè del Niebuhr e dell'Herder, ma fra noi non conosco che il bravo Abate Iannella (sic) il quale incominciò ad occuparsene con buona provigione di opportune cognizioni e dopo un primo volume (…) non so perché non proseguisse il bel lavoro» (Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 135). Nei Cenni sulla natura l'Abate, dopo aver definito il concetto di «Istoria» e di «utilità» e negato che la storia potesse essere fisicamente, eticamente o politicamente utile, riconosce che «la vera utilità delle storie, utilità universale e manifesta è l'utilità Scientifica, l'utilità letterata», la sola che soddisfi il bisogno vivissimo che abbiamo di sapere e di apprendere sempre nuove conoscenze (ivi, p. 104).