Prima
ancora che la Repubblica napoletana cada sotto i
colpi delle bande sanfediste, ma quando già il suo
futuro è irrimediabilmente compromesso, Melchiorre
Delfico, come molti altri che avevano partecipato o
aderito al regime repubblicano, sceglie la via
dell'esilio (aprile 1799) e ripara, come abbiamo
visto, a San Marino, dove rimarrà fino al giugno del
1806. Dalla piccola Repubblica lo scrittore teramano
uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca
pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà
alcuni mesi nella casa del marchese Giovanni Maria
Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per
andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in
quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della
città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad
Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804
si porterà a Milano per seguire la stampa del suo
libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo
lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei
Principj della legislazione universale di
Schmidt d'Avenstein (1), rivedrà Vincenzo Cuoco e
stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con
Giuseppe Bossi, Pietro Custodi, Francesco Saverio
Salfi e, soprattutto, con Gian Giacomo Trivulzio
(2), con Leopoldo Cicognara e sua moglie
Massimiliana Cislago (3), donna assai colta e amica
di Melchiorre Cesarotti, con il quale il nostro
autore resterà, come con gli altri, in
corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di
quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da
suo fratello.
E',
quello sammarinese, un periodo in cui Delfico si
tiene fuori dalla vita politica attiva, pur seguendo
con interesse e trepidazione le vicende nazionali ed
europee, in attesa di una situazione politica più
propizia per un impegno diretto, che egli vedrà
determinarsi con la nomina di Giuseppe Bonaparte a
re di Napoli. Una congiuntura, questa, che lo
indurrà a cedere ai «seducenti cenni dell'odiata
Partenope» (4) e a far ritorno a Napoli dove si
ritufferà nella politica da lui sempre considerata
strumento di progresso e di trasformazione sociale.
Nel
frattempo, Delfico riprende gli studi e pubblica le
già citate Memorie storiche della Repubblica di
S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri
su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della
medesima, che, usciti a Forlì nel 1808, vedono
in poco tempo altre due edizioni (5).
Prima di
allora Delfico si era occupato della storia nell'Elogio
di Francescantonio Grimaldi del 1784. Analizzando
gli Annali del Regno dell'amico
prematuramente scomparso egli aveva maturato la
convinzione che «l'ottimo storico» avrebbe dovuto
narrare la storia evitando di fermarsi «su i fatti
isolati», per cercare invece le cause degli
avvenimenti, così da «richiamarli quasi a nuova
vita». All'idea di una storia intesa come «nudo
racconto di fatti», volta ad occupare il tempo
«degli oziosi e degli annojati», Delfico aveva
contrapposto l'idea di una storia che fosse «d'un
utile presente» per il genere umano (6).
Un
contenuto storico presentano le Memorie
giovanili le cui denunce, rivendicazioni e proposte
traggono spesso dall'analisi storica delle vicende
del Regno la propria forza e giustificazione. Le
stesse Ricerche sulla giurisprudenza romana
hanno «valore storico» (7), poiché in esse la dura
condanna del diritto romano scaturisce da una lunga
ricostruzione storica della sua «torbida» e «fangosa
origine» e delle nefandezze da esso prodotte nel
corso dei secoli.
Lo studio della storia in stretta relazione con la
realtà presente trova diretta applicazione nelle
Memorie storiche di San Marino. Nonostante,
infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali
della prefazione, di non essere «nell'opinione di
coloro i quali riguardano la storia come maestra
della vita e dispensatrice della civile sapienza»
per il fatto di mostrare «sempre scarsi gli annali
della virtù in confronto dei voluminosi giornali del
vizio e dell'orrore» (8), in realtà poi egli,
attraverso una «ricerca diligente» e «vasta», scrive
«una vera storia» (9). A tal fine Delfico legge
Dell'origine et governo della Repubblica di San
Marino (1633) di Matteo Valli, il Saggio di
ragioni della città di San Leo, detta già
Monteferetro (1758) del «dotto» Giambattista
Marini, il De coniectandis cuiusque moribus et
latitantibus animi affectibus moralis, seu de Signis
(1625) del «dottissimo» Scipione Chiaramonti,
nonché i Remarks on several Parts of Italy in the
years 1701, 1702, 1703 (1705), A Defence of
the Constitutions of Government of the United States
of America (1787) e Account of the Republic
of San Marino (1797) dei «celebri inglesi»
Joseph Addison, John Adams e John Gillies (10). Egli
indaga su come San Marino sia riuscita a conservare
intatta nei secoli la sua indipendenza, a fronte di
tanti sconvolgimenti di repubbliche e di imperi, ed
abbia «felicemente adombrato un tipo dei veramente
umani governi» (11). Ricerca, in altri termini, nella
storia le ragioni del «mito» di San Marino (12), di
come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo
la propria libertas (13) e serbato l'antica e
prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a
modello politico agli inizi del Seicento con Traiano
Boccalini (14), Lodovico Zuccolo (15) e lo stesso
Matteo Valli. Ed era proprio il fatto di scorgervi
un modello, una delle ragioni che aveva spinto
Delfico a scegliere San Marino come luogo di esilio.
Di fronte alla «tempestosa crisi» di fine secolo, la
conoscenza dei «fatti permanenti o conservati nella
storia» della piccola repubblica diventava
particolarmente «interessante» perché mostrava la
possibilità reale, non utopistica, di dar vita ad
una forma di civile associazione «più adatta o
conveniente» alla specie umana. Sotto tale aspetto
dunque scriverne la storia era tutt'altro che
inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di
un popolo che poteva costituire «un esempio degno
d'imitazione» (16).
Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (17)
appare quanto meno strana in un pensatore
solitamente collocato dalla storiografia
neo-idealistica tra gli esponenti più
rappresentativi dell'antistoricismo
italiano (18).
E' nei Pensieri che Delfico affronta il
problema della conoscenza storica in tutta la sua
interezza ed estensione, per stabilire «se la
scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella
dell'esistenza; e se l'aver trascurato queste
verità, poté ritardare i felici progressi della
specie» (19). E' muovendo dall'assunto
dell'arretratezza degli studi storici che si forma
in lui la determinazione di avviare una disamina
critica di tutta la storiografia precedente.
Con la stesura dei Pensieri Delfico si
inserisce nel dibattito sulla storia che si sviluppa
in Europa nella seconda metà del diciottesimo
secolo, a cui prendono parte, oltre ad autori quali
Fontenelle, Voltaire, D'Alembert, Rousseau, Volney,
Condorcet ed altri, numerosi italiani tra cui
Galeani Napione, Bettinelli, Bertola, Ortes,
Bocalosi (20). Sottoposto per lungo tempo all'accusa
di «antistoricismo», il quadro storiografico
elaborato dall'illuminismo gode oggi di una certa
rivalutazione (21). L'aspetto nuovo della concezione
illuministica della storia consiste nell'aver posto
come fondamento del processo storico non più il
concetto di provvidenza, proprio di una visione
teologica della storia, ma quello di progresso,
in base al quale la storia si configura «come un
processo continuo, e nel suo insieme
progressivo» (22) (che non significa, però, anche
lineare) verso lo stato di compiuta civiltà. Tale
visione, da un lato, permette una diversa
valutazione delle epoche passate a seconda del loro
grado di progresso; dall'altro, segna il punto di
partenza della ricerca di nuove manifestazioni
dell'agire umano che consentono di individuare lo
spirito di un determinato periodo storico. Il
contenuto della storia si trova così modificato: le
guerre, le sconfitte, le vittorie, le conquiste, i
re, gli eroi, che fino ad allora avevano avuto la
prevalenza nei racconti, non interessano più gli
storici illuministi, che privilegiano invece gli
aspetti sconosciuti della vita umana, quali gli usi,
i costumi, le leggi, le istituzioni, le credenze
religiose, le dottrine filosofiche, il progresso
delle scienze, del commercio, delle arti, con lo
scopo di cogliere i mutamenti che si verificano nel
passaggio da un'epoca all'altra. La storia diviene
lo studio analitico e ragionato dello sviluppo della
civiltà, in grado di fornire una nuova
intellegibilità del presente e del suo processo di
trasformazione, sulla base delle «indicazioni di
fondo» emerse nel passato (23).
Fra tutti gli ideologi della storiografia
illuministica nessuno, afferma Delfico, «ha finora
portato lo spirito di analisi su la istoria meglio
di Volney» (24). Delle tematiche del Francese risente
la stesura dei Pensieri (25). Nelle Leçons
d'histoire (26) Volney traccia le linee di una
vera rivoluzione nella metodologia storica. Tutta la
storia (così come è stata scritta) è da biasimare,
essendo stata più un'immensa raccolta di exempla
vitanda che «d'expériences morales et sociales»
Occorre delineare «un tableau exact du jeu
réciproque de toutes les parties de chaque machine
sociale, c'est-à-dire, des habitudes, des moeurs,
des opinions, des lois, du régime intérieur et
extérieur de chaque nation» (27). Allo storico egli
richiede l'applicazione di una «méthode analytique
ou philosophique», la sola che, considerando i
fenomeni nel loro processo, consenta di abbracciare
«un corps politique dans toutes ses parties» (28), di
seguire un popolo nelle sue manifestazioni, di
raccogliere i fatti e determinarne le cause, gli
effetti, la loro azione reciproca, di risalire
all'origine dei progressi e delle decadenze del
genere umano, e di operare uno studio fisiologico
delle leggi di crescita, di arresto o di involuzione
del corpo sociale. Per conoscere dunque «la constitution morale et politique d'une nation» è
necessario dapprima studiarne lo stato fisico, il
clima, il suolo, i corsi d'acqua, la vegetazione, la
fauna, le risorse interne, e poi il sistema politico
e amministrativo, la varietà dei mestieri, la
condizione dei cittadini, l'esercizio della
giustizia, l'istruzione pubblica, i costumi, la vita
religiosa, le leggi e la loro esecuzione. Così
intesa, la storia presenta allora un'indubbia
utilità poiché il quadro delle esperienze umane che
essa offre fornisce le indicazioni necessarie per «perfectionner
les générations à venir, en commençant par améliorer
le sort de la génération présente» (29).
Quello che Delfico riprende e porta
all'estrema conseguenza sono le argomentazioni
addotte da Volney per sostenere i limiti della
storiografia tradizionale. Per buona parte
dell'opera egli si dilunga a mostrare la incertezza
della storia, la sua inutilità e i danni che essa
cagiona ingombrando la mente di pregiudizi, mentre
nel capitolo conclusivo verifica la fondatezza delle
sue affermazioni con esempi tratti dalla storia di
Roma. L'«antistoricismo» di Delfico non si traduce
tuttavia in un rifiuto definitivo della storia, ma
solo in uno spirito di ribellione contro un certo
modo di fare storia che testimonia la volontà di
«rimuovere le acque stagnanti della
storiografia» (30) per immetterla in un processo di
modernizzazione. Egli si pone principalmente il
problema della manière d'écrire l'histoire,
proprio della storiografia illuministica, dal
momento che «non è nel modo - afferma - in cui sono
state trattate insino ad ora che le storiche
ricerche possono influire felicemente ai progressi
delle scienze e dello spirito umano» (31). A tal
fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora
permangono negli studi storici e lamenta che la
proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato
luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un
ripensamento critico dei principi e dei criteri
della pratica storiografica (32). Persino Voltaire,
«il più gran battagliere de' pregiudizj» (33), le cui
opere Le siècle de Louis XIV e l'Essai sur
les moeurs avevano inaugurato un nuovo modo di
fare storia, sarebbe rimasto «inviluppato» nella
pastoie del suo tempo (34).
I Pensieri risalgono
all'origine della storia tradizionale, che viene
fatta derivare, da una parte, dal bisogno fisico e
dal piacere che l'uomo prova a raccontare le proprie
esperienze; dall'altra, dalla curiosità di conoscere
le vicende altrui (35). Questi bisogni alimentarono
lo sviluppo dell'immaginazione e di storie
inverosimili, piene di prodigi e di stravaganze,
dirette a stimolare la fantasia degli ascoltatori.
All'età dell'immaginazione Delfico
riconduce anche l'origine dei cosiddetti
«favoleggiatori». Ma, a differenza di quanto fa per
la storia, come il «virtuoso» Socrate e il «divino»
Platone egli tiene in grande considerazione il
racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano,
afferma nel Discorso sulle favole esopiane
del 1792 (36), non aveva maturato le sensazioni e le
esperienze necessarie per poter generalizzare le
idee ed esprimerle con precisione e proprietà di
linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali,
il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di
male e molti altri concetti fossero acquisiti
attraverso gli apologhi, che divennero così «la
morale dell'infanzia dell'umanità» (37). La loro
utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni
in cui la morale è pervenuta, grazie alla teoria
delle sensazioni, «al vero grado di scienza», dal
momento che gli apologhi, se convenientemente
scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma
anche a quella parte del popolo che, ancora vittima
dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno
stato «più infelice» (38) di quello dei secoli
remoti.
Un atteggiamento polemico, invece, egli
assume nei confronti delle mitologie, che
sorgerebbero per ignoranza, per eccessiva credulità
o per incapacità di fornire una spiegazione
razionale a fenomeni naturali. E' il caso degli
incantatori di serpenti e del loro preteso potere
antiofidico, contro cui egli insorge in una
Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita
a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del
Regno di Napoli di Grimaldi (39) e rimasta a
lungo sconosciuta agli studiosi (40). La
dissertazione, che si colloca nel filone della
letteratura illuministica «di confutazione delle
superstizioni» (41), è una dura requisitoria contro
gli «impostori» serpari, i quali spacciano per
miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe
nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o
di una conoscenza particolare delle caratteristiche
dei serpenti o di effetti naturali.
Ma torniamo ai Pensieri. Se la
storia tradizionale è poco attendibile perché
lontana dalla verità dei fatti, non si può certo
dire che essa muti considerevolmente con
l'introduzione della scrittura. Poiché nessuno,
infatti, pensò mai di chiarire il significato vero
della storia, si ignorò per lungo tempo quale metodo
«fosse da preferire». Ciascuno, pertanto, senza
conoscere quali criteri fossero da privilegiare e
quali circostanze da rappresentare per prime,
ricorse al metodo che più si addiceva alla sua
opera. Ma difettosi chi per un verso chi per un
altro, quei sistemi («il genealogico, il
cronologico, il drammatico, il geografico, il
progressivo, il retrogrado, l'analitico, il
sintetico, il generale, il particolare»)
contribuirono tutti a lasciare la storia in uno
stato di imperfezione. Queste difficoltà
probabilmente sarebbero state superate se si fosse
risaliti all'etimologia della parola «storia» la
quale deriva dal nome greco ϊστωρ,
cioè testimone presente, in origine usato
per designare esclusivamente le narrazioni dei
testimoni oculari. In seguito, il termine perse la
sua valenza originaria e venne fatto derivare dal
verbo ίστορέω i cui diversi significati,
ricercare, narrare, vedere,
fecero apparire la storia soprattutto come ricerca
di fatti o semplice narrazione di essi. Così
l'attività storiografica, afferma Delfico facendo
proprie le osservazioni di Volney, si è limitata a
registrare solo le vicende più vistose, in massima
parte biasimevoli, come le guerre, le conquiste, le
distruzioni, gli sconvolgimenti, le imprese dei re,
dei generali, degli eroi: fatti, questi, che
configurano la storia come una continua e successiva
ripetizione degli stessi avvenimenti sotto nomi e
tempi diversi (42). Per secoli la storia non è stata
scritta se non «per interesse, per gratitudine, per
ammirazione, o per qualunque più strana bizzarria»,
determinando «un abuso pernicioso, una filiazione
dannosa» (43) della medesima. Persino storici come
Erodoto, Tucidide, Senofonte, osserva Delfico
riprendendo una critica che era stata mossa anche da
Genovesi (44), narrarono storie non-vere, in cui
comparivano e dialogavano costantemente i vincitori,
i re, gli eroi, i guerrieri, con il solo e unico
scopo di dilettare ed eccitare gli animi. Le stesse
critiche possono essere rivolte alla storia del
pensiero umano (o «Storia della Filosofia») che non
sarebbe riuscita a produrre nient'altro che un
cumulo «di opinioni e di errori cronologicamente
disposti» (45). Raramente, però, dinanzi a produzioni
storiche di questo genere, ci si è chiesti se esse
rispecchiassero realmente l'indole della storia o se
quest'ultima potesse essere concepita in maniera
diversa.
Scopo ultimo della ricerca storica è,
per Delfico, «far conoscere il vero degli
avvenimenti in quella integrità necessaria a
soddisfare lo spirito di osservazione» (46). Perché
dunque la storia possa rivelarsi utile all'uomo
occorre che essa sia innanzitutto vera. La
possibilità per le opere storiche di riprodurre il
vero dipende, a suo avviso, dalla soluzione di due
ordini di problemi. Bisogna innanzitutto distogliere
l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo
racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a
valutare le circostanze nel loro complesso, ad
indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti
e le loro cause e ad elaborare un quadro integrale e
completo delle cause generali e particolari,
occasionali e permanenti, fisiche e morali, «de'
felici o de' contrarj cangiamenti» delle società
umane nel corso dei secoli. Il fatto storico si
configura così come un evento estremamente
complesso, la cui conoscenza dipende non solamente
dalla individuazione dell'avvenimento in generale,
ma, come aveva affermato lo stesso Montesquieu (47),
dalla totalità delle cause che lo producono e
delle circostanze particolari che lo completano
nella sua integrità. L'opera storica, scrive
Delfico, «dovrebbe consistere in un'esposizione
analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri,
per i quali si scorgesse come dai primi e più
semplici siamo graduatamente giunti alle attuali
positive cognizioni», di modo che «mostrandoci i due
estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da
percorrere, per andare in cerca delle altre verità
desiderose di venire alla luce» (48). Non avremmo più
allora la storia degli errori, ma quella delle
scienze e del faticoso cammino dell'uomo verso il
miglioramento sociale.
L'altro problema posto dal Teramano
riguarda la definizione di un criterio a cui la
metodologia storica deve rigorosamente rifarsi.
Perché l'analisi storica possa realmente sperare in
una riproduzione veritiera degli avvenimenti occorre
che essa sia in grado di mostrare con certezza la
verità stessa dei fatti oggetto d'indagine.
Ma come si può sapere un avvenimento
da chi non ne fu spettatore? o per averne sentito un
rapporto o racconto di chi vi fu testimone, o per
seconda mano da chi ne ascoltò il racconto. Questo
costituisce positivamente la storia. (…) Due
condizioni par che siano primamente necessarie a dar
la base alla storica verità ed alla moral certezza
che ne deve risultare. La prima: che il fatto non
sia da opposizione reale colle leggi le più
confermate dal mondo fisico e morale. La seconda:
che i testimoni degli avvenimenti abbino
voluto, potuto e saputo dire la verità. Questi
canoni critici sviluppati su tutte le loro
applicazioni sono i perni su i quali lo spirito
umano può giudicare dei gradi della verità, o sia
della certezza o probabilità storica che vogliam
dire (49).
L'affermazione del criterio
verità-certezza (certamente di ascendenza
vichiana (50)) trova in Delfico un ulteriore
rafforzamento nell'estensione a tale principio della
concezione sensistica. Egli intende la certezza
essenzialmente come «certezza fisica»,
proveniente dalle sensazioni e dalle successive
elaborazioni dello spirito.
Invece di cercare le cagioni de'
fenomeni fisici e morali si vollero indovinare, ed
invece di prendere per guida l'analisi, le
esperienze, e le osservazioni si produssero delle
ipotesi, e da essi i sistemi, e si dettarono le
leggi della Natura, esistenti solo nel cranio degli
inventori (51).
Al di fuori del riscontro sensoriale non
vi è più certezza, ma solo probabilità,
la cui base è nella possibilità del fatto e nei
motivi di credenza per chi racconta (52).
Da questa premessa Delfico parte per
mostrare in quale grave errore siano caduti quanti
hanno esaltato la certezza dei fatti storici. Contro
costoro porta a sostegno esempi del mondo greco e di
quello romano, dai quali si evince come la
veridicità sia stato un problema estraneo agli
storici o per lo meno da essi troppo spesso
trascurato, vuoi perché ritenevano bastevole
limitarsi alla tradizione orale e alle memorie, vuoi
perché incapaci di liberarsi delle proprie passioni
e dei propri sentimenti e stati d'animo. Diffidenza
tuttavia egli mostra non soltanto verso gli storici
antichi, che come Livio e Sallustio furono «alienati
involontariamente dal rispetto pel vero» (53), ma
anche verso quelli contemporanei, i cui racconti si
fondano raramente su testimonianze dirette e sempre
più invece su ipotesi e deduzioni.
Lo stato di dubbio e d'incertezza che
Delfico manifesta verso la storia non si traduce
però nell'affermazione dello «storico pirronismo»,
cioè in una negazione assoluta della verità storica,
bensì nel rifiuto di una certa storiografia, dal
quale traspaiono indicazioni di linee metodologiche
nuove. Occorre superare l'atteggiamento psicologico
di assoluta e passiva credulità con il quale ci si è
posti e ci si pone di fronte ai racconti storici,
per conferire credibilità soltanto a quelle
produzioni che consentono un processo di
«verificazione di tutte quelle condizioni e motivi,
dalla compiuta combinazione de' quali solo la verità
e la certezza possono risultare» (54). Diversamente
da quanti, come La Mothe Le Vayer, avevano visto
nell'eccessiva credulità degli uomini un ulteriore
presupposto del proprio pirronismo storico (55),
Delfico considera la credulità e il
pirronismo «due malattie della mente»,
ugualmente «assai gravi», caratterizzate l'una
«dall'inerzia», l'altra «dalla debolezza». Sarebbe
utile pertanto formulare una gradualità della
probabilità storica, relativamente al tempo e alla
natura degli avvenimenti, alla presenza o meno di
testimoni, alle qualità personali degli storici,
sulle quali Delfico insiste in maniera particolare.
Prima di concedere credibilità allo storico occorre
indagare sulle sue qualità fisiche, morali e
intellettuali, accertare che sia scevro di
pregiudizi di qualunque genere e libero da influenze
politiche o religiose, così da risultare illuminato
unicamente dalla ragione e spinto dall'amore per il
vero.
L'assunto delficino, che è vero tutto
ciò che si accerta e di cui si è testimoni,
sembra precludere qualsiasi interpretazione che non
si muova nella direzione di un riconoscimento della
fallibilità della ricerca storica. La tesi
troverebbe conferma negli argomenti addotti dal
Nostro per criticare l'atteggiamento di Condorcet
verso la storia compendiato nel celebre Esquisse
d'un tableau historique des progrès de l'esprit
humain. Pur negando alla storia qualsiasi valore
assoluto, il pensatore francese riteneva che essa
potesse rivelarsi utile e bisognasse quindi farvi
ricorso, poiché l'esperienza e
l'osservazione ci avrebbero potuto mostrare i
cambiamenti e i progressi avvenuti nel tempo e
indicare l'origine dei pregiudizi, permettendoci
così di prevenirne gli effetti in futuro (56).
Il confronto con Condorcet serve a
Delfico per interrogarsi sull'opportunità di
estendere alle scienze sociali, e alla storia in
particolare, il metodo sperimentale, fondato sui
postulati dell'esperienza e dell'osservazione e
adottato con successo dalle scienze naturali, nelle
quali aveva fornito «prove vere e convincenti». Le
motivazioni addotte per negare l'uso e la validità
di canoni empirici nello studio della storia
concorrono a mantenere netta in lui, come già in
Volney (57), la distinzione e la diversità tra
scienze sociali e scienze naturali. Egli nega che le
scienze sociali possano raggiungere la stessa
precisione di risultati delle scienze naturali,
poiché l'oggetto di ricerca di quelle è
rappresentato da fatti individuali e irripetibili,
che non si prestano ad essere classificati e diretti
alla scoperta del vero. Diversamente, nelle scienze
naturali «tutto vi si dispone in modo da potere
conoscere distintamente ogni menoma circostanza (…).
Si può sperare così di avere dei risultati sicuri, e
trovare le cagioni dei fenomeni o fatti esposti
all'esame» (58). La mancanza della sperimentazione,
della possibilità cioè di servirsi dell'esperimento
di laboratorio, priverebbe le scienze sociali
dell'unico procedimento capace di effettuare una
verifica veramente scientifica dei risultati
ottenuti, che diventano così privi di qualsiasi
utilità.
La polemica con Condorcet non implica
una ritrattazione di quelle affermazioni con le
quali Delfico si era pronunciato a favore di una
ricerca analitica delle cause interagenti nella
determinazione dell'evento storico. Semmai essa
mostra come egli resti legato ad una concezione che
della vicenda storica coglie soltanto l'aspetto
della sua unicità e non piuttosto i suoi elementi di
generalizzazione, non comprendendo così che «lo
storico non ha a che fare con ciò che è
irripetibile, ma con ciò che, nell'irripetibile, ha
un carattere generale» (59).
Altrettanto deciso è il rifiuto delficino di estendere all'analisi storica l'altro
procedimento del metodo sperimentale:
l'osservazione. La negazione è motivata dal fatto
che tale criterio è applicabile unicamente agli
eventi che cadono sotto i nostri sensi, mentre la
storia è prevalentemente caratterizzata da fatti
lontani, appartenenti per lo più alla memoria e per
questo suscettibili di errori ed inesattezze, tali
da indurre il pensatore teramano a credere che
«nella storia la vera certezza non potremo
ritrovarla giammai» (60). La conclusione, pur non
traducendosi positivamente nella percezione della
relatività delle verità storiche e di ogni tipo di
verità scientifica, come verità parziali, sempre di
nuovo verificabili e rettificabili, come continua
acquisizione di nuovi risultati e di più affinati
strumenti di investigazione, non è una liquidazione
tout-court del problema storiografico.
Il principio dell'esperienza sensoriale
quale condizione essenziale della certezza storica
non è oggetto nell'elaborazione delficina di una
rigida e meccanicistica applicazione. Un ricorso
assoluto ed esclusivo ai postulati del sensismo,
quasi fossero bastevoli a conferire carattere
scientifico all'analisi storica, trova infatti una
smentita da parte dello stesso Delfico, per il quale
i limiti e gli ostacoli che si frappongono al
ritrovamento della verità delle vicende passate
permangono anche per gli storici contemporanei che
narrano gli avvenimenti presenti. A tal proposito
egli riproduce integralmente, tradotto in italiano,
il «bel ragionato discorso» di Tiraboschi (61), in
cui si accorda scarsa attendibilità agli scrittori
contemporanei che solitamente incorrono in errore «o
per ignoranza o per malizia». Assieme alle cause
materiali, come ad esempio la distanza locale, e
assieme all'eccessiva sterilità nei racconti, alla
negligenza nell'esaminare gli eventi narrati,
all'esagerata credulità o all'ostinata incredulità
verso i racconti popolari, Tiraboschi valuta le
cause di natura psicologica che inducono lo storico
a non riferire il vero, nonostante sia testimone
oculare di un avvenimento. Tale è il caso di chi,
scrivendo per adulazione, per prevenzione o, peggio
ancora, per spirito di partito, perde l'obiettività
e si abbandona a storie agiografiche ricche di
mistificazioni. Ma, guardandosi bene dal promuovere
con tale critica un «pericoloso universale
pirronismo», egli è pieno di ammirazione per lo
storico dotto, libero da prevenzioni, nemico dei
partiti e amante del vero, che non scrive la storia
senza aver prima raccolto con cura e intelligenza i
documenti e le prove più complete ed esaurienti,
proprio come un «bravo e circospetto giudice» (62)
nell'adempimento della sua attività. Il discorso di
Tiraboschi, di cui Delfico mostra di condividere sia
la pars destruens che quella construens,
pone l'accento sulla forza del dubbio, fino a
farne una regola metodologica, di malebranchiana
memoria (63), in grado di stimolare il ricercatore a
corroborare le proprie affermazioni con una ricca e
probante documentazione.
Appare chiaro a questo punto come il
problema principale per il Teramano non sia tanto
quello di stabilire la scientificità o meno della
storia, se cioè essa possa a buon diritto
appartenere al rango delle scienze, quanto piuttosto
quello di indicare e fissare nuovi postulati
metodologici che consentano di qualificare la
storia non come scienza bensì, se si può utilizzare
un'espressione di Lucien Febvre, «come studio
condotto scientificamente» (64).
Oltre ad assumere la categoria del
dubbio come criterio fondante della pratica
storiografica («la più sicura guida alla ricerca del
vero e delle vere scienze» (65)), in seguito accolto
anche da Jannelli (66), occorre imporre alla storia,
osserva Delfico, i «dovuti confini» e stabilire
quale limite debbano avere i racconti «nella qualità
e nel numero», onde evitare che anche in futuro si
faccia «più sfoggio di Rettorica e di eloquenza che
uso di raziocinio» (67). La «vera» storia, sostiene
rifacendosi ad una tesi di Bettinelli (68), dovrebbe
evitare di attardarsi su quelle epoche nelle quali
non può essere soddisfatto il criterio del vero, per
soffermarsi, invece, più lungamente sui «tempi
storici qualificati». A tal fine egli propone una
sorta di limitazione temporale dell'indagine
storica, convinto che, sia considerando i rapporti
degli stati e delle nazioni tra loro, sia quelli di
un popolo e di una nazione solamente, «non ci è
bisogno di andar tant'oltre per conoscere quelli dai
quali dipende lo stato attuale delle cose, e che
debbono essere osservati (…), ma basta quella che si
può chiamare storia del tempo o del secolo in cui
viviamo» (69).
L'affermazione delficina di un'indagine
circoscritta ad epoche storiche a noi più vicine
sottintende la possibilità di utilizzare la
conoscenza storica per una migliore intelligibilità
della realtà presente, di concepire il passato in
funzione del presente. Nonostante molti abbiano
creduto e continuino a credere all'historia
magistra vitae, occorre riconoscere, afferma
Delfico in disaccordo con lo stesso Volney, che
aveva alla fine ammesso l'utilità politica della
storia (70), che la realtà passata «non solo di
alcuna intrinseca utilità non la troviamo fornita,
ma spesso ancora produttrice di positivi danni» (71).
Il giudizio, che ricorda quello espresso pochi anni
prima da Bocalosi (72), non è riferito alle epoche
storiche in genere, ma solo a quelle antiche, come
precisa lo stesso autore alla fine del capitolo
sull'inutilità della storia: «Debbo avvertire, che
quanto si è detto in generale sull'inutilità della
storia, non può convenire a quella parte di essa,
cui da gran tempo si dà l'epiteto di moderna,
e che dopo tre secoli non dovrebbe meritar più un
tal nome» (73). Agli storici muove l'accusa di aver
tramandato pregiudizi ed errori che hanno lasciato
l'umanità in uno stato di ignoranza e di
superstizione. Così, vedendo Sparta e Roma nascere
povere e divenire in seguito potenti, si ritenne,
senza ricercare le cause di quella grandezza, che la
povertà fosse il presupposto dello sviluppo e della
felicità delle nazioni. Allo stesso modo, narrando
continuamente storie di guerre e di popoli infelici
si trasse la convinzione che la pace e la felicità
fossero condizioni precluse al genere umano (74). Né
possono avere una funzione educativa i fatti che la
storia ci ha portato ad esempio, poiché spesso la
loro nefandezza rende l'imitazione addirittura più
dannosa che vantaggiosa. Nessuna imitazione è poi
possibile se prima non si raggiunge una conoscenza
profonda e completa dei fatti imitabili e delle
circostanze che li hanno prodotti. Ma dal momento
che essa resta incompleta, si deve concludere,
osserva Delfico richiamandosi a Bolingbroke e a
Guicciardini, che la stessa imitazione «è cosa in
vero assai malagevole e pericolosa» (75).
Sul tema
dell'imitazione egli si dilunga più specificamente
nelle Ricerche su la sensibilità imitativa
del 1813, in cui fa dipendere l'attività imitativa
dalla sensibilità interna e dall'impiego degli
organi dell'udito e della vista. Notevole importanza
assume la «simpatia» o, più correttamente, la
«consensibilità», l'istinto per mezzo del
quale sentiamo ciò che un altro sente e assumiamo
spesso lo stesso atteggiamento psichico ed anche
corporeo dei nostri vicini. In questa naturale
facoltà imitativa Delfico vede la prima e la vera
sorgente dei «migliori affetti o sentimenti» degli
uomini, i quali hanno però abusato di questa loro
qualità e se ne sono serviti soprattutto per
riprodurre vizi ed emanazioni dell'orrore (76). Nello
scritto il fenomeno imitativo diviene il fondamento
del rifiuto di un certo tipo di conoscenza storica,
di scarsa o di nessuna utilità. Oggetto
dell'attività imitativa sono infatti, per lo
scrittore teramano, unicamente le manifestazioni
relative all'umano «civilizzamento», quali le
belle arti, i felici concepimenti, i sublimi
sentimenti, i progressi sociali. Così intesa, «la
sensibilità imitativa si può riguardare come la base
da cui sorge la piramide della progressiva
perfettibilità della specie fino all'ultimo apice
del morale perfezionamento» (77). Il principio di
perfettibilità (78), elaborato da Delfico sulla
falsariga del concetto condorcettiano, trova quindi
una più facile realizzazione con il crescere e il
diffondersi di nuove cognizioni in grado di
promuovere un reale miglioramento del genere umano.
La stessa conoscenza storica potrebbe rivelarsi di
notevole interesse qualora riuscisse ad indagare le
cause per cui lo sviluppo della civiltà è stato
spesso suscettibile di interruzioni e di
involuzioni. Conoscendone le cause, non sarebbe
difficile trovare il modo per rimuoverle e
accelerare il processo di graduale incivilimento del
genere umano (79). Un'ulteriore funzione, del resto
parallela a quella ricordata, potrebbe consistere
nel far conoscere i progressi sociali e le cagioni
che li produssero. L'indagine storica, permetterebbe
così di recuperare positivamente l'eredità del
passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria
per divenire una componente integrante del processo
storico contemporaneo. Una convinzione che trova
conferma in un successivo scritto delficino del
1824, in cui viene ribadita l'opportunità di
interrogare il passato e «registrare i fatti del
tempo» in funzione dei bisogni presenti:
È vero, che il conoscere anche di
lontano i progressi della specie, ci sarebbe di
grandissimo vantaggio per intendere la storia morale
dell'uomo, e vedere il successivo svolgimento delle
sue facoltà secondo la concorrenza delle civili e
naturali circostanze; poiché nel conoscersi i modi,
onde alcune società più sollecitamente progredirono,
mentre altre furono tardigrade o retrograde ne
potrebbe risultare non inutile istruzione; ma poco
si ebbe in mira questo scopo (80).
Quest'azione di cerniera tra il tempo
andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più
interessante della storia. Essa la pone su un piano
di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il
merito di protendere al miglioramento fisico e
morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa
adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede
che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina
nuova, ancora intentata (81), che Delfico chiama
anche «storia delle scienze» quale
dev'essere quella delle cognizioni o verità esposte
nell'ordine progressivo, ciò che costituisce quasi
un metodo d'invenzione, o un sistema analitico delle
medesime: ciò che forma la vera storia dei progressi
dello spirito relativa al soggetto di cui si occupa.
E che altro sono infatti le scienze, se non le
verità esposte in tal metodo amico all'umana
intelligenza? La storia degli errori può costituire
l'erudizione degli errori; ma la storia della verità
costituisce essenzialmente la scienza. Nel modo
proposto essa c'indica gli estremi, e mostrandoci il
punto donde siamo partiti, e quello dove ci
troviamo, ci segna più distintamente la strada da
progredire. La storia della natura e quella dello
spirito umano così correrebbero parallele, e
potrebbesi in tal modo considerar la storia sotto un
aspetto più utile e più favorevole alle scienze ed
all'umanità, cioè come le serie successive di
cangiamenti avvenuti alla specie, e delle cagioni
per le quali furono prodotti (82).
Emerge qui l'idea di uno strumentalismo
storiografico: ci si rivolge al passato per scoprire
le leggi dell'evoluzione della società le quali,
oltre a fornire una conoscenza più approfondita del
presente, permettono di intravedere le linee del
futuro sviluppo dell'umanità. Le cognizioni storiche
perdono il carattere di sterile nozionismo, che
hanno sempre avuto, e acquistano un valore
intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu»,
afferma Delfico a conclusione della sua opera,
«potremo facilitarci la strada a saper ampiamente
quel che è» (83). La storia cessa di essere,
usando un'espressione moderna, l'histoire
événementielle, limitata cioè al racconto delle
vicende politico-militari e diviene la storia
progressiva delle conoscenze, delle esperienze,
delle osservazioni, delle scoperte, così come essa
era stata compiuta da Fourcroy per il mercurio (84).
Sia benedetta la storia - scrive a Jannelli, dopo aver ribadito l'idea di una scienza
analitica e ragionata - quando mi mostrerà questi
progressi dell'umanità; poiché facendomi conoscere
quali cagioni produssero probabilmente tali e tali
effetti, potremo studiarci a riprodurle o ad
allontanarle secondo la loro indole,
e ciò
senza lo stupore di nessuno «poiché tutto l'umano
sapere va a cercar nelle origini le prime cagioni
della sua esistenza» (85). Nulla esclude dunque che,
se adeguatamente rinnovata, possa sorgere la storia
ragionata o la «vera critica storica», con le
qualità proprie di una scienza alla quale le stesse
scienze si rifacciano per trovarvi la loro origine e
il loro fondamento, oltre alle direttive per nuovi
progressi e avanzamenti.
Io mi vado augurando - conclude
nella lettera a Jannelli - che i vostri travagli
potranno in qualche modo imprimere su la storia
l'impronto (sic) della verità ed il pregio
assai maggiore, cioè quello della utilità. E con ciò
lungi di sentire, anche confermate le mie idee,
colle quali contrastai questi pregi alla storia,
qual'esse si trova ancora; non quale potrebb'essere,
e mi auguro, che sarà nelle vostre mani (86). |